N. 49 - Gennaio 2012
(LXXX)
analisi dell'inquisizione romana
una storia cinquecentesca - parte ii
di Roberto Rota & Nicola Ponticiello
Durante
gli
anni
‘50/’60
del
1500
l’Inquisizione
aveva
fortemente
rafforzato
le
sue
competenze
e il
suo
monopolio
nella
tutela
dell’eresia.
Gli
inquisitori
non
dovevano
più,
come
in
passato,
essere
nominati
dai
rispettivi
ordini
di
appartenenza
(solitamente
domenicani
e
francescani)
ma
venivano
scelti
direttamente
dal
Sant’Uffizio
e la
loro
area
di
competenza
non
coincideva
più
con
quella
del
proprio
convento
ma,
bensì,
con
quella
del
distretto
inquisitoriale.
Venne
a
regolarizzarsi
la
prassi
dei
processi,
con
la
conservazione
degli
atti
e il
segreto
sui
procedimenti.
Il
Concilio
aveva,
però,
posto
uno
spinoso
problema
circa
le
competenze
vescovili,
in
quanto,
teoricamente,
anch’essi
erano
abilitati
alla
lotto
contro
l’eresia
e,
inoltre,
il
Concilio
aveva
aumentato
a
dismisura
i
loro
poteri.
In
realtà
gli
inquisitori
riuscirono
a
conservale
il
proprio
monopolio
riconoscendo
solo
delle
concessioni
di
facciata,
in
particolare
i
vescovi
avrebbero
dovuto
sottoscrivere
(e
quindi
anche
condividere
ed
approvare)
eventuali
torture
e la
stessa
sentenza.
Allora,
a
questo
punto,
sorge
spontanea
la
domanda
su
come
funzionassero
i
processi.
Prima
di
tutto,
nel
momento
in
cui
si
insediava
un
tribunale
inquisitoriale
esso
emanava
un
Editto,
ribadito
anche
nel
periodo
quaresimale,
nel
quale
si
elencavano
le
competenze
dei
giudici
e si
esortavano
i
fedeli
ad
autodenunciarsi
o a
segnalare
eventuali
colpevoli.
In
Spagna,
ma
non
in
Italia,
veniva
emesso
anche
il
cosiddetto
Editto
di
Grazia,
secondo
il
quali
chi
si
sarebbe
presentato
spontaneamente
ed
entro
un
limitato
lasso
di
tempo
(dai
15
ai
30
giorni)
avrebbe
ricevuto
un
trattamento
di
favore
ed
evitato
il
processo.
Il
processo
inquisitorio,
a
differenza
di
quello
accusatorio,
prevede
la
fusione
del
giudice
e
dell’accusatore
nella
figura
dell'inquirente
(o
inquisitore)
ed
è
esso
stesso
ad
avviare
d’ufficio
il
procedimento
al
quale,
secondo
il
decretale
Si
adversus
vos
di
Innocenzo
III
(1205),
il
pubblico
non
è
ammesso.
Nel
caso
italiano
raramente
il
procedimento
si
apre
d’ufficio
ed è
spesso
necessaria
una
denuncia.
A
questo
punto
di
aprono
le
indagini
e la
racconta
delle
prove
e
l’indagato
è,
di
solito
ma
non
sempre,
incarcerato.
Questa
prima
fase,
detta
“processo
offensivo”,
non
prevede
la
presenza
di
avvocati
difensori,
l’accusato
deve
difendersi
da
solo.
Possono
anche
esser
concessi
gli
arresti
domiciliari
ma,
in
ogni
caso,
l’accusato
deve
nominare
dei
fideiussori
che
garantiscano
economicamente
in
caso
di
una
sua
fuga.
Tale
prima
fase
è
particolarmente
delicata
in
quanto,
attraverso
interrogatori,
bisogna
individuare
e
formalizzare
i
capi
d’accusa
da
mandare
agli
inquisitori
romani,
infatti,
soprattutto
per
i
procedimenti
più
importanti,
l’autonomia
dei
tribunali
è
minima,
essi
devono
trasmettere
gli
atti
alle
strutture
centrali
e
ricevere,
da
queste,
ordini
e
indicazioni
(dal
1581
è
resa
obbligatoria
la
trasmissione
delle
sentenze
e
delle
relative
abiure).
Il
sistema,
dunque,
non
è
autonomo
e
moderno,
in
grado
di
funzionare
seguendo
semplicemente
le
procedure,
ma è
un
sistema
paternalistico
in
cui
il
centro
indirizza
e
orienta
(soprattutto
attraverso
corrispondenze
epistolari)
le
procedure.
Ritornando
al
processo,
gli
interrogatori
possono
prevedere
anche
delle
torture
(ricordiamo
che
stiamo
parlando
esclusivamente
del
sistema
italiano)
là
dove
vi è
il
sospetto
che
l’indagato
sia
mendace.
Le
torture,
però,
introdotte
da
papa
Innocenzo
IV
nella
bolla
Ad
extirpanda
del
1252
per
la
confessione
del
reo,
devono
essere
approvate
dal
1591
obbligatoriamente
dal
Sant’Uffizio,
possono
essere
ripetute
ma
non
devono
superare
la
durata
di
un’ora
e
sono,
nelle
metodologie,
esse
stesse
limitate.
La
più
diffusa
è la
corda
cioè
l’esser
sospeso
ad
un
argano
con
le
braccia
legate
dietro
la
schiena,
bisogna
ricordare,
però,
che
le
confessioni
fatte
durante
la
tortura,
la
quale
è
affidata
al
braccio
secolare,
non
sono
giuridicamente
valide
se
non
sono
confermate
durante
gli
interrogatori
normali
i
quali,
a
loro
volta,
non
devono
sottoporre
l’indagato
ad
eccessive
pressioni.
Si
vede,
quindi,
la
diversità
del
procedimento
italiano
rispetto
a
quello
di
altri
paesi
e di
altre
inquisizioni.
Dopo
gli
interrogatori
vengono
formulati
i
capi
di
accusa
e
mandati
a
Roma,
è a
questo
punto
che
si
apre
il
processo
difensivo
in
cuoi
sono
ammessi
(ma
non
obbligatoriamente)
gli
avvocati
della
difesa.
Seguono,
quindi,
nuovi
interrogatori
finché
non
si
giunge
al
termine
del
procedimento
che
può
portare
a
diversi
esiti:
la
liberazione,
la
condanna
a
pene
salutari
e
minori
(preghiere,
digiuni,
pellegrinaggi…),
il
pagamento
di
una
cauzione
o,
infine,
la
sentenza
di
colpevolezza
e la
condanna.
Essere
condannati
da
un
tribunale
inquisitoriale
vuol
dire
che
c’è
stato
un
sospetto
d’eresia
o
un’eresia
accertata
ed è
quindi
necessaria
l’abiura
cioè
la
revoca
e il
rigetto
formale
dei
propri
convincimenti
eretici
(“abiuro,
maledico
et
detesto…”).
Esistono
tre
tipi
di
abiura
proporzionati
alla
gravità
del
caso:
nel
momento
in
cui
siamo
di
fronte
ad
un
sospetto
d’eresia
avremo
l’abiura
de
lievi
o
de
vehementi
suspicione,
nel
caso
in
cui
l’eresia
è
accertata
è
necessaria
l’abiura
de
formali.
I
primi
due
procedimenti
sono
solitamente
dati
a
tutti
coloro
che
incappano
nei
meccanismi
inquisitoriali,
il
terzo
è
dato
raramente
e
solo
nei
casi
più
gravi
(eretici,
apostati,
laici
che
officiano
messa).
Se
l’abiura
non
può
essere
revocata,
le
pene
che
l’accompagnano
possono
essere
mitigate
se
l’accusato
si
mostra
pentito.
L’abiura
de
lievi
è
solitamente
privata
le
altre
pubbliche
anche
se
di
solito
avvengono
in
chiesa
o,
nei
casi
particolarmente
delicati
in
cui
sono
coinvolte
persone
facoltose
che
è
meglio
non
infamare,
in
privato
esse
stesse.
La
differenza
con
il
caso
spagnolo
è
notevole,
infatti
nella
penisola
iberica
sono
molto
diffusi
gli
autodafé
cioè
quelle
cerimonie
pubbliche
in
cui
veniva
eseguita
la
penitenza
e la
condanna
inflitte
dall’inquisizione,
esse
erano
molto
spettacolari
e
prevedevano
messe,
processioni,
lettura
della
sentenza
e
messa
in
atto
di
eventuali
torture
e
penitenze.
In
realtà
la
pena
di
morte,
in
Italia,
non
era
così
diffusa
come
nel
resto
d’Europa,
la
condanna
come
eretico
non
portava
direttamente
al
patibolo
ma
erano
due
i
requisiti
solitamente
necessari:
la
recidiva
e
l’impenitenza
(e
comunque
solo
per
gli
eretici
in
senso
stretto
e
per
gli
apostati
formali).
La
recidiva,
in
particolare,
soprattutto
nella
seconda
metà
del
‘500,
portava
direttamente
sul
patibolo,
bisogna
ricordare,
però,
che
la
pena
era
affidata,
necessariamente,
al
braccio
secolare
in
quanto
gli
uomini
di
chiesa
non
potevano
macchiarsi
(fisicamente)
del
sangue
delle
donne
e
degli
uomini
condannati.
Nel
caso
in
cui
la
pena
capitale
fosse
stata
applicata
per
impenitenza
del
condannato
(cioè,
per
esempio,
un
eretico
che
non
abiurava
e
che
quindi
non
rinnegava
le
proprie
convinzioni
contrarie
all’ortodossia)
essa
poteva
esser
evitata
con
il
semplice
ravvedimento
del
reo.
Infatti
veniva
stabilito
un
terminus
ad
resipiscendum,
dalla
durata
variabile
ma
di
solito
non
meno
di
60
giorni,
durante
il
quale
il
reo
poteva
pentirsi
e la
pena
capitale
poteva
essere
mitigata
per
esempio
con
il
carcere
perpetuo
(che
dopo
pochi
anni
sarebbe
stato,
comunque,
“condonato”).
Durante
tale
periodo
(che
poteva
durare
anche
molto
più
di
60
giorni)
il
condannato
veniva
visitato
da
esperti
(confessori,
teologi…)
che
cercavano
di
convincerlo
a
ravvedersi,
in
alcuni
casi
tali
pressioni
potevano
assumere
l’aspetto
di
vere
e
proprie
torture,
soprattutto
quando
venivano
affidate
ai
secolari,
come
le
Compagnie
di
Giustizia,
cioè
confraternite
che
“assistevano”
i
condannati
a
morte
sia
dalla
giustizia
dello
stato
sia
dalla
Chiesa.
La
stessa
pena
capitale
poteva
cambiare
rispetto
al
pentimento
o
meno
del
reo.
In
particolare
se
esso
non
abiurava
e
non
accettava
neanche
i
sacramenti
allora
veniva
arso
vivo,
chi
accettava
i
sacramenti
poteva
usufruire
di
un
trattamento
di
“favore”:
essere
ucciso
dal
boia
prima
di
essere
arso
(come
si
vede
il
rogo
restava
sempre
una
necessità
per
purificare
l’ortodossia
macchiata
dall’eresia).
Esistevano,
poi,
tutta
una
serie
di
pene
minori:
la
più
severe
era
sicuramente
l’immuratio
cioè
la
detenzione
perpetua
in
una
piccola
cella
senza
luce;
vi
erano,
poi,
il
carcer
perpetuus
e il
carcer
perpetuus
irremissibile
cioè
la
condanna,
rispettivamente,
a 3
e a
8
anni
di
reclusione
(solitamente
in
monastero).
Pena
altrettanto
grave
era
la
condanna
a
“remigare
sulle
galere”
per
un
periodo
che
andava
dai
5 ai
7
anni,
punizione
questa
che
veniva
applicata
nei
casi
gravi
di
negromanzia
e
sacrilegio.
Esistevano,
poi,
tutta
una
serie
di
pene
infamanti
per
i
pubblici
peccatori
cioè,
soprattutto,
bigami,
bestemmiatori
e
autori
di
sortilegi:
essi
erano
costretti
a
reggere
un
cero
(o
un
cartello
sul
quale
era
scritta
la
propria
colpa)
inginocchiati
davanti
la
chiesa
nei
momenti
di
maggiore
affluenza,
quindi
solitamente
la
domenica.
Infine
vi
erano
tutta
una
serie
di
pene
che
potremo
definire
di
“riabilitazione
e
rieducazione”
le
quali
erano
la
stragrande
maggioranza,
in
quanto
bisogna
considerare
che
la
maggior
parte
dei
processi
portati
avanti
dai
tribunali
locali
riguardavano
delitti
di
piccola
entità
(bestemmie,
superstizioni
semplici…).
In
questo
caso
le
punizioni
più
diffuse
erano:
l’obbligo
di
servire
in
ospedale,
l’esilio
temporaneo,
l’affidamento
ad
un
confessore
o ad
un
padre
spirituale,
preghiere,
offerte,
pellegrinaggi…
Verso
la
metà
degli
anni
’70
cominciò
ad
affermarsi
un’alternativa
la
processo
regolare
e
cioè
la
possibilità
della
“spontanea
comparizione”.
Gli
sponte
comparentes
potevano
autodenunciarsi
al
tribunale
inquisitoriale
e
riceve,
così,
trattamenti
di
favore:
nessun
processo,
procedimenti
molto
più
rapidi,
sconti
di
pena,
abiura
privata
(ricordiamo
che,
comunque,
l’abiura
privata
era
sempre
un
precedente
e in
caso
di
recidiva
si
rischiava
la
pena
capitale).
Per
poter
usufruire
di
tale
trattamento
era
necessario
avere
dei
precisi
requisiti:
non
bisognava
già
essere
indagati
ed
avere
carichi
pendenti
con
l’inquisizione,
non
si
doveva
esser
pubblicamente
diffamati
e
accusati,
bisognava
esser
sinceramente
pentiti
e
denunciare
eventuali
complici.
Lungi
dall’essere
un
esempio
di
pietà
cristiana
la
spontanea
comparizione
fu
una
formidabile
arma
nelle
mani
degli
inquisitori,
infatti
essa
fu
introdotta
con
l’obiettivo
primario
di
individuare
i
complici,
così
al
prezzo
di
un
solo
trattamento
di
favore
si
sarebbero
aperti
tanti
altri
processi
ordinari,
fermo
restando
che,
come
già
abbiamo
detto,
per
l’Inquisizione
Romana
le
accuse
di
partecipazione
al
sabba
e di
affatturamenti
e
malefici
da
parte
degli
indemoniati
non
potevano
essere
utilizzate
giuridicamente.
Era
sempre
ben
presente,
alle
autorità
romane,
le
necessità
di
non
trasformare
i
processi
in
strumenti
deleteri
e
disgreganti
del
tessuto
sociale,
la
possibilità
di
“processi
a
catena”
avrebbe
necessariamente
instaurato
un
clima
di
sospetto
e di
diffidenza
all’interno
delle
comunità.
Nonostante
ciò
esistevano
uomini
di
chiesa,
soprattutto
gli
esorcisti
e
gli
inquisitori
al
di
fuori
della
penisola,
pronti
ad
utilizzare
le
confessioni
come
strumenti
di
caccia
alle
streghe.
È
ciò
che
si
ricava
da
uno
dei
più
diffusi
manuali
per
la
caccia
alle
streghe:
il
Malleus
Maleficarum
(Il
martello
delle
streghe)
pubblicato
nel
1487
dai
domenicani
Jacob
Sprenger
e
Heinrich
Institor
Kramer.
In
esso
si
sostiene,
tra
le
altre
cose,
la
necessità
di
utilizzare
le
confessioni
come
arma
di
indagine
e
cattura
e
l’opportunità
della
pena
di
morte
anche
nei
casi
di
non
recidiva
e
impenitenza.
I
due
frati
domenicani
sostengono
che
il
pettegolezzo
pubblico
sia
sufficiente
per
accusare
un
peccatore
e
che
una
difesa
strenua
sia
sintomo
di
colpevolezza.
Si
tratta
di
precisazioni
del
tutto
estranee
allo
stilo
dell’inquisizione
romana,
la
quale
si
caratterizzò
sempre
più
per
il
suo
garantismo
e
per
la
sua
moderazione
rispetto
alle
altre
inquisizione
europee.
Questo
non
vuol
dire
che
fu
esente
da
soprusi
e
violenze
ingiustificabili,
ma è
bene
sottolineare
la
sua
diversità
rispetto
agli
altri
tribunali
dell’epoca,
non
solo
l’Inquisizione
spagnola
e i
giudici
cattolici
dell’Europa
del
nord
ma
anche
rispetto
ai
giudici
protestanti
davvero
poco
tolleranti
quando
si
trattava
di
perseguitare
e
condannare
le
presunte
streghe.
La
fine
del
‘500
rappresenta
l’apogeo
per
l’Inquisizione
Romana,
la
quale,
sconfitta
già
negli
anni
’70
l’eresia
protestante,
si
radica
saldamente
nel
territorio
italiano
ed
occupa
competenze
ed
ambiti
che
fino
a
quel
momento
erano
stati
appannaggio
dei
giudici
secolari
e
vescovili.
La
penetrazione
profonda
dei
tribunali
inquisitoriali
nel
tessuto
sociale
rispecchia
quelli
che
sono
i
nuovi
obiettivi
della
chiesa
post-tridentina,
lo
scopo
da
inseguire
non
è
più
esclusivamente
la
lotta
all’eresia,
ma
la
sottomissione
della
penisola
al
credo
tridentino.
La
Chiesa
si
presenta
sempre
più
come
regolatore
e
sorvegliante
della
vita
di
tutti
i
fedeli,
le
cui
abitudini
devono
essere
dettagliatamente
“normalizzate”
e
controllate
dalla
confessione
alla
comunione,
dai
rapporti
sessuali
alle
bestemmie
e al
matrimonio.
I
tribunali
non
hanno
esclusivamente
lo
scopo
di
punire
e
indagare
ma
diventano
centri
di
diffusione
delle
nuove
norme
della
controriforma,
luoghi
di
influenza
più
che
di
repressione,
di
uniformità
e
normalizzazione
più
che
di
eccezionalità.
Ad
una
religione,
in
fin
dei
conti,
tollerante
e
complice,
come
era
quella
Medioevale,
si
sostituisce
un
apparato
di
controllo
formidabile
del
quale
l’inquisizione
è
solo
un
aspetto,
sebbene
fondamentale.
Riferimenti
bibliografici:
G.
Romeo,
L’Inquisizione
nell’Italia
moderna,
Roma-Bari,
Laterza
2009.
G.
Romeo,
Inquisitori,
esorcisti
e
streghe
nell’Italia
della
Controriforma,
Milano,
RCS
2004.