N. 58 - Ottobre 2012
(LXXXIX)
legittimazione e consenso
Un’analisi del De principe di Giovanni Pontano - Parte II
di Biagio Nuciforo & Roberto Rota
Il
Principe
è
certamente
l’opera
più
nota
di
Niccolò
Machiavelli
(1469–1527).
Composta
tra
il
luglio
e il
dicembre
del
1513,
durante
l’«esilio»
dell’Albergaccio,
il
trattato
era
inizialmente
dedicato
a
Giuliano
de’
Medici,
duca
di
Nemours
(1479
–
1516),
ma
dopo
la
morte
di
quest’ultimo,
decise
di
destinarlo
a
suo
nipote
Lorenzo,
duca
di
Urbino
(1493
–
1519).
Questo
scritto
doveva
servire
per
mostrare,
alla
famiglia
de’
Medici,
la
competenza
dell’autore
in
materia
politica
e
una
certa
disponibilità
nel
collaborare
per
la
creazione
di
un
possibile
principato
fiorentino.
Il
manoscritto
è
composto
da
ventisei
capitoli
di
diversa
lunghezza
e
aveva
per
scopo
quello
di
fornire
una
classificazione
generale
dei
diversi
tipi
di
principato.
Verranno
di
seguito
analizzati
alcuni
passi
inerenti
la
legittimazione
del
principato,
con
particolare
riferimento
al
capitolo
IX,
intitolato
De
principatu
civili
e si
cercherà
di
fare
un
confronto
col
già
studiato
De
principe
pontaniano.
Nel
capitolo
appena
citato,
Machiavelli
apre
il
discorso
parlando
del
principato
civile.
Cos’è
questa
forma
di
governo?
Perché
principato?
Perché
civile?
Il
principato
civile,
secondo
l’autore,
è
quella
forma
di
governo
che
prevede
come
capo
il
principe,
eletto
dal
popolo,
da
qui
l’aggettivo
«civile».
Il
principato
non
si
può
ottenere
con
la
virtù
o la
semplice
fortuna,
ma
tramite
il
consenso
popolare
o
quello
dei
potenti:
«né
a
pervenirvi
è
necessario
o
tutta
virtù
o
tutta
fortuna,
ma
più
tosto
una
astuzia
fortunata,
-
dico
che
si
ascende
a
questo
principato
o
con
il
favore
del
popolo
o
con
quello
de’
grandi».
È
possibile
subito
notare
differenze
e
analogie
con
il
trattato
pontaniano.
In
primo
luogo
è da
notare
come
Machiavelli,
a
differenza
dell’umanista
napoletano,
non
ritenga
più
necessaria
la
presenza
delle
virtù
o
delle
qualità
morali
ma
il
«favore
del
popolo
o d’
grandi»
costituisce
la
chiave
per
accedere
al
principato.
Questo
concetto
è in
comune
con
la
teoria
pontaniana,
ma
nel
De
principe
è
molto
evidente
il
nesso
presente
tra
il
consenso
del
popolo
e le
virtù
che
il
principe
deve
avere
per
poter
governare
nel
modo
giusto.
Machiavelli
sembra
quasi
scindere
questo
legame,
distinguendo
l’essere
e l’apparire:
non
importa
più
avere
determinate
qualità,
ma è
necessario
mostrare
di
averle.
La
causa
maggiore
della
nascita
del
principato
«civile»
è da
ricercarsi
nel
conflitto
che
oppone
i
due
«umori»
della
città,
cioè
il
popolo
e i
cosiddetti
«ottimati»,
la
classe
potente
e
nobile
della
città:
la
fame
di
potere
dei
grandi
e la
necessità
di
libertà
del
popolo.
Da
questi
due
«appetiti»
possono
esserci
tre
diverse
conseguenze:
«o
principato
o
libertà
o
licenza».
Per
«libertà»
Machiavelli
intende
le
repubbliche
democratiche,
mentre
la
«licenzia»
è
una
forma
corrotta.
Essa
non
coincide
solo
con
il
«principato»
corrotto,
ma
anche
con
la
«libertà»
corrotta,
in
sintesi
la
«licenzia»
rappresenta
la
degenerazione
sia
del
«principato»
che
della
«libertà».
Il
principato
può
essere
causato
sia
dai
«grandi»
che
dal
popolo,
poiché
i
primi
eleggeranno
uno
per
poter
soddisfare,
da
dietro
le
quinte,
la
loro
«fame»,
mentre
gli
altri
eleggeranno
un
principe
per
essere
protetti
e
tutelati.
È
così
che
si
avranno
due
tipi
di
principati
«civili»,
quello
«ottimizzato»
e
quello
«popolare».
Sostanzialmente
questi
governi
sono
simili,
essendo
entrambi
nati
dal
«favore
del
popoli»
e
non
dalla
violenza,
ma
presentano
una
differenza
di
fondo.
Nel
principato
«ottimizzato»
il
sovrano
non
sarà
solo,
avendo
con
lui,
persone
appartenenti
al
suo
rango,
mentre
in
quello
«popolare»
il
re
si
troverà
da
solo.
In
entrambi
i
casi,
il
principe
dovrà
avere
il
popolo
dalla
sua
parte,
poiché
sia
che
salga
grazie
ai
grandi
o
grazie
al
consenso
popolare,
dovrà
assolutamente
evitare
di
inimicarsi
i
sudditi:
«Debbe
pertanto
uno,
che
diventi
principe
mediante
el
favore
del
popolo,
mantenerselo
amico:
il
che
gli
fia
facile,
non
domandando
lui
se
non
di
non
essere
oppresso.
Ma
uno
che
[…]
diventi
il
principe
con
il
favore
de’
grandi,
debbe
innanzi
a
ogni
altra
cosa
cercare
di
guadagnarsi
el
populo
[…]
E
perché
li
uomini,
quando
hanno
bene
da
chi
credevano
aver
male,
si
obligano
più
al
beneficatore
loro,
diventa
el
populo
subito
più
suo
benivolo
che
s’e’
si
fussi
condotto
al
principato
con
e’
favori
sua
[…]
Concluderò
solo
che
a
uno
principe
è
necessario
avere
il
populo
amico,
altrimenti
non
ha
nelle
avversità
remedio».
Il
ruolo
del
principe
sta
proprio
nel
dover
scegliere
quale
dei
due
principati
sia
più
adatto
e
più
forte.
Un
principe
saggio
saprà
prendere
la
giusta
decisione:
se
il
desiderio
dei
«grandi»
è
quello
di
opprimere
il
popolo
e
quello
del
popolo
di
non
essere
oppresso,
allora
il
principe
dovrà
favorire
il
desiderio
popolare,
non
solo
perché
il
popolo
è
più
numeroso
ma
anche
perché
il
suo
desiderio
è
«onesto»
e
non
produce
pericoli,
al
contrario
del
desiderio
dei
grandi,
che
può
invece
causare
una
rivolta.
Nell’ultimo
capoverso
del
capitolo,
lo
scrittore
arriva
a
formulare
una
nuova
concezione
di
«ordine
civile».
Egli
distingue
fra
due
tipi
di
stati:
il
principato
assoluto
e un
altro
di
tipo
magistratuale.
Nel
secondo
tipo
di
principato,
il
sovrano
rischia
di
rimanere
vittima
dei
tempi
avversi,
poiché
sarà
condizionato
nelle
scelte
dai
magistrati.
Ne
principato
assoluto,
il
monarca
ha
più
libertà
di
movimento,
ma
soprattutto
ha
un
rapporto
più
diretto
con
il
popolo.
Egli
«piglierà
la
autorità
assoluta»
nei
«tempi
quieti»,
dando
fiducia
ai
sudditi:
«Sogliono
questi
Principati
periclitare
quando
sono
per
salire
dall’ordine
civile
allo
assoluto:
perchè
questi
Principi
o
comandano
per
loro
medesimi,
o
per
mezzo
de’
magistrati.
Nell’ultimo
caso
è
più
debole
e
più
pericoloso
lo
Stato
loro,
perchè
egli
stanno
al
tutto
con
la
volontà
di
quelli
cittadini
che
sono
preposti
a’
magistrati,
li
quali,
massimamente
ne’
tempi
avversi,
gli
possono
torre
con
facilità
grande
lo
Stato
o
con
fargli
contro,
o
col
non
l’ubbidire;
e il
Principe
non
è a
tempo
ne’
pericoli
a
pigliare
l’autorità
assoluta,
perchè
li
cittadini,
e
sudditi,
che
sogliono
avere
li
comandamenti
da’
magistrati,
non
sono
in
quelli
frangenti
per
ubbidire
a’
suoi,
e
arà
sempre
ne’
tempi
dubbi
penuria
di
chi
si
possa
fidare.
Perchè
simil
Principe
non
può
fondarsi
sopra
quello
che
vede
ne’
tempi
quieti,
quando
i
cittadini
hanno
bisogno
dello
Stato;
perchè
allora
ognuno
corre, ognuno
promette,
e
ciascuno
vuole
morire
per
lui
quando
la
morte
è
discosto;
ma
ne’
tempi
avversi,
quando
lo
Stato
ha
bisogno
de’
cittadini,
allora
se
ne
trova
pochi.
E
tanto
più
è
questa
esperienza
pericolosa,
quanto
la
non
si
può
fare
se
non
una
volta.
Però
uno
Principe
savio
deve
pensare
un
modo,
per
il
quale
li
suoi
cittadini
sempre,
ed
in
ogni
modo
e
qualità
di
tempo,
abbino
bisogno
dello
Stato
di
lui,
e
sempre
poi
gli
saranno
fedeli».
Concludendo,
possiamo
affermare
che
sia
Machiavelli
che
Pontano
ritengono
necessario,
ai
fini
della
sopravvivenza
statale,
ottenere
il
consenso
popolare.
Tale
consenso
si
ottiene
mostrando
amore
e
fiducia.
Ciò
che
contraddistingue
i
due
scrittori
è il
concetto
di
interiorità/esteriorità,
di
essere/apparire:
per
Pontano
l’essere
è
essenziale,
poiché
afferma
che
le
virtù,
la
maestà
e
l’amore
verso
il
prossimo
siano
alla
base
del
consenso
dei
sudditi,
mentre
l’autore
fiorentino
afferma
che
sia
necessario
mostrarsi
in
un
determinato
modo,
cercando
di
ottenere
una
buona
opinione
del
popolo.
Sostanzialmente,
le
differenze
tra
i
due
autori
sono
da
ricercare
nei
diversi
ambiti
spazio-temporali
in
cui
sono
nati
e
vissuti:
l’uno
appartenente
alla
classe
culturale
di
un
regno
nuovo,
modernizzatore,
innovatore
e
all’apice
della
sua
grandezza;
l’altro
vissuto
in
una
città
travagliata
da
lotte
intestine,
ma
soprattutto
in
un
periodo
belligerante
come
fu
quello
delle
“guerre
d’Italia”.