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MEDIEVALE


N. 57 - Settembre 2012 (LXXXVIII)

Legittimazione e consenso
Un’analisi del De principe di Giovanni Pontano - Parte I

di Biagio Nuciforo & Roberto Rota

 

Nel Quattrocento la politica “d’equilibrio” che contrassegnò l’epoca medievale subì una battuta d’arresto. Questo processo portò alla crisi degli universalismi (papato e impero) e alla formazione di repubbliche cittadine e dittature. I nuovi governi, per mantenere una certa stabilità di potere, richiedevano di essere legittimati. Il diritto divino o quello ereditario non bastavano più a rendere legittimo un sovrano, quello di cui il principe rinascimentale aveva più bisogno era il consenso espresso dai sudditi, l’opinione pubblica era il perno portante del potere quattrocentesco e non solo.

Tra il XIII e XIV secolo vennero elaborate alcune teorie circa la legittimazione dal punto di vista giurisdizionale, la più importante delle quali fu quella di Bartolo di Sassoferrato (1313-1357) che nel suo De Tyranno espresse le dinamiche e i rapporti reciproci tra sudditi e sovrano. Dal basso il popolo costituisce il vero potere e dall’alto il sovrano è chiamato a gestirlo per il bene della comunità:

 

«cum qualibet civitas superiorem non recognoscat in se ipsa habet liberum populum, et tantam potestate habet in populo, quanta Imperator in universo».

 

La nascita del nuovo sistema comunale portò come sua conseguenza, lo sviluppo di una corrente letteraria definita Umanesimo, la cui caratteristica principale era porre al centro dell’universo non più il divino ma l’umano.

 

Le corti e i comuni di tutta la penisola amavano circondarsi di artisti e letterati, i quali assumevano spesso il ruolo di legittimatori: Ferretto de’ Ferretti (1297-1337) con il De Scaligarum origine, dedicato a Cangrande della Scala (1291-1329); Francesco Petrarca (1304-1374) con il suo trattato sul governo dei principi, opera scritta in onore di Francesco da Carrara (1325-1393) e Bartolomeo Platina (1421-1481) con il De principe dedicato a Federico Gonzaga (1406 ca-1487), erede al ducato di Mantova.

 

All’indomani della conquista del Regno di Napoli, avvenuta nel 1442 per mano di Alfonso V d’Aragona (1394- 1458), il nuovo sovrano si trovò a dover affrontare l’opposizione dei signori italiani che non vedevano di buon occhio il nuovo conquistatore straniero.

 

Ben consapevole del potere costituito dalle lettere, Alfonso I si circondò di artisti e letterati, promuovendo la raccolta di codici latini e greci. Umanisti provenienti da tutta la penisola furono ospiti della corte aragonese: Lorenzo Valla (1405- 1457), Bartolomeo Facio (1400 ca- 1457), Flavio Biondo (1392- 1463), Giammozzo Manetti (1396- 1459). Altri letterati entrarono a far parte dell’entourage aragonese sia in veste di burocrati e funzionari che in qualità di precettori degli eredi al trono.

 

Antonio Beccadelli, detto il Panormita (1394-1471), fedele consigliere della Casa d’Aragona già prima della conquista di Napoli, nel De dictis et factis Alphonsi utilizzò parole e gesta del Magnanimo per esaltarne le virtù, partendo da un modello della classicità ellenica, i Memorabilia di Xenofonte, dal quale trasse la forma aneddotica, componendo così un’opera al centro di due diverse tradizioni: quella storiografica aneddotica e quella degli Specula Principum.

 

Questa tradizione raccoglie tutte le opere scritte per legittimare e porre come modello sociale la figura del principe, utilizzando come fonti gli exempla dei classici greci e latini e autori medievali come Giovanni di Salisbury (1120-1180) ed Egidio Romano (1243 ca-1316).

 

A Napoli molti erano i letterati appartenenti a questo filone culturale e oltre il già citato Panormita, sono da ricordare: Giuniano Maio (1430 ca-1493), Diomede Carafa, conte di Maddaloni (1406 ca-1487) e Giovanni Pontano (1429-1503).

 

Il De maiestate di G. Maio, scritto per Ferrante I di Napoli (1423-1494), insiste sull’esteriorità e la magnificenza del principe, con un fine adulatorio che pone il Sovrano come modello per tutti i sudditi del regno: utilizza il sistema degli exempla, citando episodi di vita del monarca.

 

Carafa scrisse per il suo re alcuni Memoriali, destinati all’uso privato e non alla pubblicazione. Queste memorie trasmettevano al suo destinatario alcune nozioni e lezioni di comportamento che un governante avrebbe dovuto seguire per essere da esempio per il suo popolo.

 

L’impianto formale del De principe pontaniano, pubblicato nel 1468, è ispirato a Egidio Romano e al De Officis di Cicerone, con una divisione tematica tra il principe in quanto istituzione e il principe come persona. Il perno centrale del trattatello è rappresentato dall’elencazione delle virtù del sovrano ideale, le cui finalità sono la pace e il controllo del popolo. L’opera è dedicata al suo allievo, Alfonso duca di Calabria (1448-1495), al quale si rivolge durante tutto il manoscritto.

 

In questa sede verranno esaminati alcuni passi dell’opera, in particolar modo verrà trattato il tema della legittimazione del potere e i canali attraverso cui essa poteva e doveva manifestarsi.

 

L’opera si apre con un esempio derivante dall’età classica, quello di Scipione l’Africano, modello repubblicano adottato durante tutto il Rinascimento e contrapposto al modello monarchico cesariano. L’eroe romano, candidato al consolato, incontrò l’opposizione dei tribuni della plebe, a causa della sua non idonea età, tuttavia questo non gli impedì di ottenere consensi, infatti i Quiriti (cioè il popolo romano) diedero la propria fiducia e appoggiarono la sua candidatura, per le sue virtù morali e civili, non curandosi dei suoi anni:

 

«Et Scipio quidem eum se gessit in aedilitate ut Quirites postea non pentiuerit tanto favore ad ferenda suffragia in tribus suas discurrisse».

 

Sulla scia di questo esempio, Pontano non solo paragona il duca Alfonso all’Africano, anzi lo pone su un livello superiore, in quanto il principe napoletano non chiese di ottenere il vicariato ma gli fu attribuito per le sue doti e le sue virtù:

 

«Te autem, vix dum annos pubertatis egressum nec id petentem , pater vicarium Regni creavit decrevitque provintiam Calabriam, videlicet non annis aut aetati haec tribuens tuae, sed virtutibus, quarum tanta apud omnes sit expectatio ut cunctorum et populorum et procerum Regni oculos in te unum converteris».

 

Si può dedurre come, secondo l’autore, l’elemento principale per essere legittimato e quindi per ottenere il consenso dei sudditi, sia costituito dalle virtù. La giustizia e una buona dose di religiosità costituiscono le virtù essenziali affinché il popolo si lasci governare o meglio si sottoponga esso stesso all’autorità del sovrano:

 

«Nihil enim ad conciliandos subiectorum animos tam valet quam iustitiae ac divini cultus opinio».

 

Continuando con gli exempla classici, Giovanni Pontano adotta la figura del re persiano Ciro come lampante simbolo di giustizia e Alessandro Magno come modello di sovrano devoto e religioso che, con la sua superstizione, riuscì a riscuotere consensi presso la sua gente:

 

«Quod de Cyro illo legimus, quem non iustitiae solum, sed omnium etiam regiarum virtutum exemplum fuisse creditum est. Quantum autem ad popularem comparandam benivolentiam religionis valeat opinio docuit Macedo Alexander, qui etiam superstitionem laudare solitus est, tanquam per eam in plebis animos rectores ipsi illaberentur».

 

Per rafforzare e spiegare meglio questo concetto, viene utilizzato come esempio di devozione religiosa un personaggio molto più vicino al principe, suo nonno Alfonso I, molto rispettoso dei riti e delle celebrazioni liturgiche, tanto che Pontano ritiene che fosse più devoto degli stessi pontefici romani:

 

«Avus tuus Alfonsus omnes aetatis suae multorumque ante seculorum reges superavit, quem sacra stata ritusque christianos ac solemnes cerimonias tanto cultu observasse certum est, ut ne ab ipsis etiam sacrosanctis pontificibus in hoc vinceretur».

 

Nel 6° paragrafo sono citate altre due virtù fondamentali per il sovrano: la liberalità e la clemenza. La prima risulta essere necessaria per rendere amici i nemici, ma soprattutto per ottenere una buona opinione nei riguardi degli stranieri. La seconda, invece, fa sì che ogni suddito, ogni abitante del Regno, ammiri, veneri e ami il proprio re. La clemenza è la virtù che rende il governante simile a Dio:

 

«Qui imperare cupiunt duo sibi proponere imprimis debent: unum ut liberales sint, alterum ut clementes. Princeps enim qui liberalitem exercuerit ex hostibus amicos, ex alienis suos, ex infidis fidos faciet. Peregrinos etiam et in extremis terris agentes ad se se amandum alliciet. Clementiam in quo esse senserimus illum omnes admiramur, colimus, pro deo habemus. Utraque autem princeps deo maxime similis efficitur, cuius proprium est benefacere omnibus, parcere delinquentibus».

 

Il principe deve essere disponibile con tutti cosicché nessuno possa allontanarsi sconntento da lui. Esempio di benevolenza fu Alfonso che, per questo motivo, fu appellato il Magnanimo, dal quale nessuno si allontanava deluso. Pontano non spiega se tale magnanimità fosse vera o artificiosa, la cosa importante era dare buona impressione di sé, cioè far sì che gli altri avessero una buona opinione di lui, poiché, come espresse più volte l’Aragonese, il mondo rinascimentale «se rige por openiòn»:

 

«in omni vita maxime laudatur comitas gravitate temperata. Avus tuus hac una re potissimum benivolentiam hominnum sibi conciliabat, quod neminem patiebatur tristem a se abire illudque».

 

Affinché il principe non dia una cattiva immagine di sé, dovrà evitare vizi come l’avidità, la superbia e l’inumanità. Infatti, nessun uomo accetterà mai di essere governato da un sovrano avido, crudele o superbo:

 

«Tum profecto principatu isto dignos iudicaberis et boni regis spem pollicebere, cum improbos insectaberis, oderis intemperantes, reicies mendaces».

 

Il perno su cui si fonda il potere del principe risulta essere l’amore del proprio popolo. Il compito cui deve assolvere il sovrano è quello di coltivare giorno dopo giorno l’amore verso il prossimo: colui che amerà, a sua volta sarà amato. Bisogna avere un rapporto quasi empatico col popolo, bisogna rallegrarsi delle sue gioie e dolersi dei suoi mali: la liberalità, unita ad una certa dose di gratitudine, sarà in grado di rendere un popolo fedele al suo re:

 

«Ad conservandum autem et magis indies augendum familiarium et eorum quos intimos habeas amorem illud maxime valet, ut amari se abs te intelligant. Vetus enim est et prudens:« Si vis amari, ama», quod ex eo potissimum iudicabunt, si secundis rebus suis senserint te laetari, dolere plurimum adversis. Devinciet autem illorum animosa c imprimis fidos faciet liberalitas gratitudini coniuncta...».

 

Fino ad ora si è parlato dell’affetto che il principe deve provare nei confronti dei sudditi, nel passo seguente, invece, il Pontano mette in guardia il suo pupillo dal provare rancore verso qualcuno, poiché l’odio non porta mai conseguenze gradite. Un re tiranno, malvagio e superbo non farà altro che attirare su di sé l’odio della sua gente, portando il sovrano in un continuo stato di follia e paranoia. In sintesi: il principe è uno specchio per la società, se amerà, sarà amato e se odierà, sarà condannato ad una fine miserabile:

 

«Quid tyrannis evenier, quando ii qui sacrosancti habentur hunc exitum vitae non evadunt? Quem cum semper timeant, quibus eos necesse est curis angi et tanquam adhibitis tormentis cruciari noctesque diesque?».

 

Leggendo il paragrafo 42 del De principe, si può notare come lo scrittore umbro tenda a ribadire l’importanza delle virtù come mezzo legittimante, affinché si eviti la nascita e quindi il sovvertimento di un governo di tipo tirannico, il quale non potrà mai sperare di avere vita pacifica e duratura:

 

«Vetus etiam sententia est nec auctoritate carens nec eventu: alienam virtutem regibus semper esse formidolosam. Quibus, si tanta esset cura virtutis honestandae quantis praemiis minus bonos interdum prosequuntur, profecto regum res quietius haberent nec misceri eas cerneremus aut regna ipsa, pulsis iustis dominis, ad ignotos non raro transferri».

 

Proseguendo con la lettura del trattato, si arriva al paragrafo 45, nel quale lo scrittore spiega al duca Alfonso come la figura del principe debba essere da esempio per il popolo: il sovrano è posto sotto lo sguardo di tutti, quindi ogni suo gesto e ogni parola pronunciata dovranno essere studiate, in modo tale da procurare stima e autorità nei suoi confronti, facendo in modo che il popolo, ma anche le persone a lui vicine, assorba ed imiti le virtù del suo re:

 

«Et quoniam fortuna principum in edito et praelustri sita est loco praebetque se se spectandam omnibus, studendum est ut dicta factaque tua omnia eiusmodi sint quae non modo laudem tibi atque auctoritatem pariant, sed et familiares et populares ipsos ad virtutem excitent; ad quam nulla eos res magis excitabit quam spectata ipsis virtus tua et mores quam probatissimi».

 

Nel paragrafo successivo viene introdotto un nuovo concetto, quello della maiestas, di cui Pontano non dà una vera e propria definizione, se non quella di virtù propria del principe. Essa rappresenta, per così dire, l’ultima virtù necessaria al sovrano, affinché ottenga ancora più stima dei suoi sottoposti:

 

«Maxime autem opinionem tum subiectorum tum coetetorum hominum conciliabit ea quae nunc a quibusdam etiam non indoctis viris, quanvis parum proprie, «maiestas» vocatur».

 

Nei paragrafi 50 e 51 l’autore, sempre riferendosi al suo allievo, spiega come il principe debba essere per il popolo un pater familias, applicando la legge come fosse un giudice e placando gli animi nelle controversie come un moderatore. Un buon sovrano dovrà importarsi del proprio popolo e proteggerlo; ma, oltre a dare amore, dovrà anche mostrare mano ferma e cautela, conciliando l’amore con il rispetto:

 

«Praesens eum te erga cives geres ut necessitatibus suis paterfamilias, iuridicendo praetorem, civilibus simultatibus dissensionibusquecompositorem adesse sentient; gaudentem suis secundis ac florentibus rebus, dolentem adversis ac totis viribus pericula vimque propulsantem; demumque et absentem et praesentem, eam te rerum suarum habere curam intelligent, ut tanquam dominum vereantur, colant ut patronum. In iudiciis autem severum in responsis gravem et circumspectum sentient; gratum in sermone, acrem in sententiis, minime tamen contentiosum. Sint verba ut sine supercilio sic non absque gravitate afficiendos leges sanxerint sic animadvertas ut non hominem, sed crimen insectari ac punier videare. His atque similibus amor conciliabitur et reverential, fideles et diuturni maiestatis comites, quanquam poetae ex Honore et Reverentia natam eam velint».

 

Come ultimo monito, il maestro mette in guardia Alfonso dall’inimicarsi i familiares, cioè i membri appartenenti alla sua cerchia personale. Per essere amato dalle persone a lui più vicine, dovrà occuparsi di tutti, non escludendo nessuno e mostrando fermezza e comando nelle situazioni critiche: tutti dovranno fare capo al principe, poiché, se il regno è il corpo, egli è la testa. Il sovrano dovrà dunque essere cauto nell’amministrazione dello stato, avvalendosi di una moltitudine di consiglieri, per non affidarsi ad un solo “favorito”, evitando così di suscitare inutili gelosie a corte:

 

«Quamobrem, si amari a familiaribus, quod unum prae omnibus studes, vis, si futuri boni regis expectationem concitare, quod solum a diis immortalibus optas, id de te imprimis praesta, ut non uni ex omnibus addictus vivas, quod maxime alienum est a principe, sed teipsum omnibus tanquam per vices partire, palam faciens unum te esse ad quem referri omnia et velis et debeant […] Oportet enim qui amari a suis et minime peccare in republica velit plurimis oculis plurimisque auribus ut utatur».

 

Riassumendo, secondo Giovanni Pontano, l’opinione pubblica costituisce l’elemento imprescindibile, senza il quale la legittimazione non può sussistere. I principali canali, attraverso cui si ottiene il consenso popolare, sono le virtù, la maestà e l’amore per il popolo. Il principe deve rendersi disponibile per tutti, affinché nessuno possa rimanere deluso dal suo comportamento. Dovrà essere benevolo, in modo tale da impressionare il prossimo e temperato cosicché nessuno possa chiedergli di compiere cose turpi.

 

Quindi sarà necessario evitare di avere vizi, in particolare avidità, superbia e disumanità, poiché la sua immagine ne sarebbe destabilizzata. Un buon principe dunque dovrà mostrare giustizia, benevolenza, clemenza e liberalità, tutte le virtù che accompagnano la maestà, la virtù regale per eccellenza, senza la quale non si potrà sperare di governare un popolo.

 

Come detto, l’amore del sovrano verso il popolo e viceversa sta alla base del consenso. Questo rapporto di mutua caritas sarà sviluppato dapprima tra il principe e i suoi più stretti collaboratori, i cosiddetti familiares, poi sarà divulgato a tutto il popolo, per arrivare infine agli stranieri.

 

Pontano non fu certo l’unico ad elaborare questa teoria, ne abbiamo un esempio nei Memoriali di Diomede Carafa, dove nel parlare del comportamento dei cortigiani, l’autore si esprime così:

 

«Et notate che li Signori se volino amare, temere et desidrare farli de le cose li piacino, come se accostuma fare alle innamorate, quale se li fa omne piacere, servitio et liberalità per haverne suo dilecto o vero attencto; tanto più tucte queste cose se volino et divino fare ad quillo Signore che servi, como sia cosa de maiore importantia et lo fine che de lui desidri è altro che quillo se desidra de la innamorata. Et quillo non èi innamorato de lo servitio de suo Signore tard'o mai lo farrà bene, chè lo animo se po fengere per qulche tempo, ma a lo longo se conosce».

 

Dopo l’esperienza di Pontano altri autori si cimentarono nell’elaborare alcune teorie circa il potere del principe e la sua legittimazione. In particolare fu Niccolò Machiavelli a teorizzare, nel suo De principatibus l’importanza dell’opinione pubblica e del consenso popolare.



 

 

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