attualità
Il futuro incerto della Bielorussia
Una nazione al crocevia
di Gian Marco Boellisi
Di tutte le tornate elettorali che si
sono svolte in questo 2020, una tra le
più interessanti è sicuramente stata
quella in Bielorussia del 9
agosto. Paese storicamente inserito
nella sfera d’influenza russa, la
Bielorussia ha iniziato recentemente a
muoversi di volontà propria sullo
scacchiere internazionale inseguendo
importanti obiettivi, ma anche andando
incontro a gravi rischi.
In tutto questo si inseriscono le
recenti elezioni politiche, fino a oggi
una mera formalità per un paese in cui
la democrazia è stata solamente un
lontano miraggio dalla caduta
dell’Unione Sovietica in poi. Tuttavia
in quest’ultima tornata elettorale
Aleksandr Lukašenka, definito da
Condoleeza Rice in tempi non sospetti
“l’ultimo dittatore d’Europa”, ha
rischiato seriamente di vedere
l’opposizione rosicchiargli molto di
quel potere che esercita
ininterrottamente dal lontano 1994. È
interessante quindi cercare di
inquadrare il contesto politico interno
bielorusso per poi inserirlo in quel
grande gioco che è la politica
internazionale.
Partiamo dalle origini. Vicina da sempre
del più grande stato del mondo, la
Bielorussia non è mai riuscita a
divincolarsi dal far parte della sfera
d’influenza della Russia. Anche
storicamente, le famose “3 Russie”
portano con sé un significato molto
importante. Infatti questa perifrasi
altro non sta a indicare che l’unione di
tre porzioni di territorio
ideologicamente e politicamente
unificate sotto la bandiera zarista (o
russofona che dir si voglia): la Grande
Russia (la Federazione Russia d’oggi),
la Russia Bianca (la Bielorussia) e la
Piccola Russia (l’Ucraina).
Quando cadde l’Unione Sovietica, la
Bielorussia cercò di passare a un
sistema politico democratico dopo gli
innumerevoli anni vissuti sotto
dittatura. Tuttavia, come in molti altri
stati ex-sovietici tra cui probabilmente
anche la stessa Russia, qualcosa si
inceppò sul nascere e, a parte le prime
elezioni tenutesi nel 1994, non si ebbe
più alcun vero processo democratico
all’interno del paese. La scena politica
infatti fu monopolizzata completamente a
suon di brogli elettorali proprio dal
candidato vincente nel 1994, un
ex-funzionario del vecchio partito
comunista e militare quasi sconosciuto
chiamato Aleksandr Lukašenka. Da allora
la Bielorussia è diventata de-facto
uno stato cuscinetto della Russia,
essendo questa praticamente l’unico
paese ad accettare e ad avvallare
l’esistenza di questo stato fallito
comandato da un dittatore a poche
centinaia di chilometri dalla
democraticissima Europa.
Tanto per cambiare, anche le ultime
elezioni del 9 agosto 2020 sono state
vinte dal presidente Lukašenka con
l’80,23% dei voti. Tuttavia, a
differenza delle passate tornate
elettorali, il risultato non è stato ben
accettato dalla popolazione bielorussa,
la quale è scesa in piazza a Minsk a
protestare veementemente contro i
risultati plebiscitari comunicati dal
governo. Queste elezioni hanno infatti
visto l’affermarsi di forze di
opposizione che avrebbero potuto erodere
concretamente consensi al governo,
portando per la prima volta Lukašenka a
sentirsi il terreno franare sotto i
piedi.
I candidati in gara per la presidenza
erano cinque: Aleksandr Lukašenka,
Svetlana Tikhanovskaya, Siarhei
Cherachen, Hanna Kanapatskaya e Andrey
Dmitriev. Tra questi nomi, la grande
sorpresa è stata Svetlana Tikhanovskaya,
candidata indipendente che è entrata in
politica a gamba tesissima a campagna
elettorale già iniziata.
Infatti in principio era il marito di
Svetlana, il blogger Sergey Tikhanovsky,
a dover correre per la presidenza.
Tuttavia la sua candidatura è stata
intralciata prima da un arresto e poi da
una fermata definitiva della commissione
elettorale, la quale ha rifiutato la
candidatura. Svetlana ha quindi
ufficializzato la sua corsa per la
presidenza il 15 maggio, passando molto
presto in testa nei sondaggi (non in
quelli ufficiali ovviamente) mentre gli
stessi davano l’attuale presidente a un
gramo 3%. Nonostante sia riuscita a
indire il comizio più partecipato della
storia del paese, con una presenza di
60mila persone, la Tikhanovskaya ha
raggiunto solamente il 9,9% dei
consensi.
Questa brusca fermata dei voti di
Svetlana ha portato come già citato a
importanti scontri di piazza nella
capitale Minsk, i quali hanno presto
preso i connotati di una vera e propria
guerriglia urbana portando anche alla
morte di manifestanti negli scontri. Al
fine di tutelare la propria persona da
rappresaglie, la Tikhanovskaya si è
rifugiata quasi immediatamente in
Lituania, dimostrando purtroppo che la
Bielorussia non si può ancora dire un
paese libero.
A testimonianza di ciò, tra l’11 e il 18
giugno 2020 sono state arrestate più di
20 persone per un caso di evasione
fiscale e riciclaggio di denaro
appartenti alla dirigenza di
Belgazprombank, una banca di proprietà
di Gazprom e Gazprombank. Per quanto
fortuito possa sembrare, l’arresto ha
coinvolto anche uno dei principali
candidati alla presidenza ovvero l’ex
amministratore delegato della
Belgazprombank, Viktor Babariko.
L’applicazione politica del “ubi
maior minor cessat”.
La cosa curiosa è che sia Aleksandr
Lukašenka sia Svetlana Tikhanovskaya
hanno basato la propria campagna
elettorale sullo stesso tema, ovvero il
futuro della Bielorussia. Il primo ha
sottolineato l’importanza delle elezioni
dal punto di vista geopolitico,
vedendole come un’opportunità per il
popolo bielorusso per svincolarsi dai
legami del passato, mentre la seconda ha
calcato la mano sulle tematiche più
sentite dal basso, ovvero lotta alla
corruzione dilagante nel paese e
conclusione del processo di
democratizzazione interrotto nel 1994.
Nonostante le road map
palesemente diverse, entrambi i
candidati hanno sempre concordato su un
punto: la fuoriuscita della Bielorussia
dall’orbita russa e l’avvicinamento
sostanziale all’Occidente, Stati Uniti
in primis. Neanche a dirlo, Mosca
non ha gradito questo tipo di
propensione da parte dello storico
alleato.
Nonostante il rapporto con la Russia,
prima quella di Eltsin, ma soprattutto
quella di Putin, sia stato negli anni un
punto cardine di qualsiasi mossa in
politica estera della Bielorussia di
Lukašenka, negli ultimi mesi le cose
sembrano cambiate radicalmente.
Le critiche dei candidati alla
presidenza hanno messo fortemente in
discussione il rapporto con
l’ingombrante vicino, portando avanti a
spron battuto il concetto della propria
indipendenza culturale e politica e
accusando addirittura Mosca di voler
interferire con il “processo
democratico” bielorusso. Queste
particolari accuse e tensioni non sono
frutto tuttavia delle ultime settimane
di campagna elettorale, ma il risultato
di un processo ben più lungo.
L’inizio della lite tra i due paesi ha
inizio bene o male un anno fa. La prima
avvisaglia di incrinamento dei rapporti
tra Russia e Bielorussia avvenne quando
Lukašenka decise di diversificare gli
approvvigionamenti petroliferi
bielorussi, e per farlo contattò il
“grande nemico”: gli Stati Uniti.
Questa, oltre a essere stata una mossa
totalmente inaspettata verso Mosca,
divenne ben presto una questione di
sicurezza nazionale per la Russia.
Infatti perdere anche il proprio vicino
e alleato all’influenza occidentale
avrebbe comportato un accerchiamento
geografico senza pari nella storia russa
da parte degli alleati di Washington.
Per quanto inizialmente la questione del
petrolio americano fu paventata solo
come ipotesi, in modo da usarla con
Mosca come moneta di scambio per
qualcos’altro, alla fine si passò ai
fatti. L’arrivo al porto di Klaipeda in
Lituania di 80mila tonnellate di greggio
americano fu un colpo al cuore per le
stanze del Cremlino, ricordando ai
vertici russi quanto poco potessero fare
di fronte a un tale svolta politica.
Lo slogan di Lukašenka fu “sicurezza
energetica per la Bielorussia attraverso
la diversificazione dei fornitori”, che
tradotto ai minimi termini vuol dire:
meno importazioni da Mosca, e quindi
meno dipendenza dal Cremlino, e più
affinità con gli Stati Uniti e con
l’Occidente. È bene precisare tuttavia
che la fornitura di petrolio americano è
seguita solo dopo mesi di trattative
segrete tra il governo bielorusso e l’ex
segretario per la sicurezza nazionale
John Bolton in un primo momento per poi
essere sostituito da Pompeo, mentre allo
stesso tempo Minsk trattava con Mosca
per l’aggiornamento del listino prezzi
di gas e petrolio.
Si può vedere l’inizio di questo
processo di sfiducia addirittura nel
2014, quando Minsk iniziò a prendere le
distanze da Mosca a seguito della
rivoluzione colorata di Maidan. La paura
di Lukašenka fu quella di essere oggetto
di ingerenze russe tanto esplicite
quanto quelle in Ucraina, tanto che
iniziò già allora, seppur blandamente, a
corteggiare ed essere corteggiato da
Unione Europea e Stati Uniti.
Tuttavia in quell’occasione il
distanziamento da Mosca fu solo formale
e non sostanziale, essendo i due paesi
di fatto necessari uno all’altro.
Infatti alla Bielorussia serve la Russia
per legittimare la propria esistenza
politica mentre alla Russia serve la
Bielorussia per avere almeno uno stato
cuscinetto prima dell’Europa, l’eterno
alleato e allo stesso tempo nemico di
Mosca.
Per quanto oggi sembri strano solo
parlarne, in passato si era addirittura
pensato di unificare le due nazioni, le
quali da sempre condividono quasi in
toto usi e costumi. Ciò sia per una
politica di potenza russa sia e
soprattutto per legittimare una
candidatura di Putin alla presidenza che
andasse oltre ai termini previsti della
costituzione. Superato quest’ultimo
problema con uno dei referendum meno
attendibili dell’intera storia
contemporanea, l’annessione della
Bielorussia è passata in secondo piano,
finendo molto presto nel dimenticatoio
dei progetti politici post-sovietici.
Per quanto Lukašenka si sia speso molto
in parole, a un certo punto è arrivato
anche ai fatti. Il 29 luglio 2020, in
un’operazione delle forze di sicurezza
di Minsk, sono stati arrestati 33
cittadini russi accusati di essere
contractor della ormai celebre
compagnia privata Wagner arrivati in
Bielorussia con l’intento di compiere
atti terroristici e innescare disordini
in vista delle elezioni. In parole
povere, Minsk ha accusato apertamente
Mosca di voler organizzare una rivolta
popolare ai danni del governo
bielorusso. La banale verità invece è
che l’intera faccenda dell’arresto altro
non è che un’immensa opera di propaganda
elettorale architettata dal governo di
Lukašenka per far accorrere i votanti
bielorussi attorno al proprio partito,
dipingendosi come il salvatore della
patria dalle ingerenze esterne e il
protettore della sovranità e
dell’indipendenza del paese.
Il problema tuttavia va ben più a fondo
del mero arresto di una trentina di
persone. Infatti l’intera faccenda
potrebbe essere stata banalmente
progettata in comune accordo con Mosca
per direzionare il voto appositamente,
come potrebbe essere stata messa in atto
arbitrariamente da parte di Minsk.
Addirittura pensare che Minsk non fosse
stata informata della presenza dei
contractor della Wagner sul suolo
bielorusso è molto improbabile, essendo
questa una routine praticata da anni. È
infatti ormai uso comune far transitare,
in partenza o in ritorno, i suddetti
contractor verso uno degli innumerevoli
scenari in cui questi soldati sono
costantemente impegnati: Sudan,
Mozambico, Siria, Ucraina, Libia.
Vi è anche la possibilità che lo stesso
Lukašenka abbia richiesto la presenza di
queste truppe su suolo bielorusso per
poter gestire eventuali disordini
post-elezioni. In questo caso, il
tradimento verso Mosca sarebbe percepito
in maniera ancora più grave.
Qualsiasi sia la verità, sarà
interessante vedere quando gli accusati
arriveranno in tribunale, poiché qui la
caduta dei capi d’accusa porterebbe a
uno smascheramento totale del bluff
congiunto di Mosca e Minsk, mentre
l’avvio del processo e la potenziale
condanna porterebbe a una gravissima
frattura con Mosca, probabilmente
insanabile.
In generale, per Mosca l’accusa di
manipolare le elezioni bielorusse
rappresenta puro tradimento da parte di
un alleato storico, e come la storia
insegna i russi sono noti non
dimenticare facilmente. In questo
momento la Russia si sta sentendo
minacciata più che mai, forse anche più
di Euromaidan, essendo la Bielorussia
uno dei pochi baluardi politici della
Russia rimasti in Europa insieme a
Moldavia e Serbia.
Tuttavia essa sa anche che per
svincolarsi dal proprio giogo Minsk
dovrà fare più di qualche accordo
economico sul petrolio. Infatti la
Bielorussia può sì aprirsi agli immensi
mercati europei e statunitensi in
sostituzione a quello di Mosca, tuttavia
le perdite economiche per l’economica
bielorussa nel breve e nel medio termine
sarebbero immense, dovute queste agli
enormi gap qualitativi e
quantitativi tra Minsk e i mercati
occidentali. Ciò molto probabilmente
porterà a una recessione non di poco
conto, la quale come sempre accade
porterà a nuovi disordini, i quali non è
che certo che il governo di Lukašenka
sia capace di gestire. Quindi è vero,
Mosca è molto preoccupata, ma alla fine
forse non troppo.
Unendo tutte queste considerazioni,
Lukašenka si trova in un limbo molto
difficile da gestire, soprattutto dopo
la “vittoria” alle elezioni. Infatti da
un lato sa che non potrà mai staccarsi
completamente da Mosca, avendo questa
bisogno della Bielorussia come stato
cuscinetto e alleato ed essendo
oltremodo troppo grande e potente da
contrastare, mentre dall’altro ha tra le
mani una società civile che gli impone
di avviare un cambiamento radicale
all’interno del paese e gli chiede di
entrare nell’abbraccio statunitense, il
quale altro non mira che a isolare la
Russia nel suo angolino in Europa
dell’Est per farla diventare una potenza
asiatica e non più europea.
Da tenere a mente anche il fatto che,
nel caso in cui Lukašenka riesca in
qualche modo a ingraziarsi gli Stati
Uniti senza troppe conseguenze dal lato
orientale, è molto poco probabile che
Washington e l’Occidente tutto tollerino
la sua stessa presenza al potere dopo
averlo screditato agli occhi della
comunità internazionale per decenni come
un assassino in piena regola dei diritti
umani e democratici del suo stesso
popolo. In politica, ricordarsi con chi
si ha a che fare è sempre un vantaggio.
In conclusione, la situazione in
Bielorussia è tra le più complesse
nell’attuale spazio post-sovietico.
Lukašenka, definibile tranquillamente
“l’ultimo cimelio della guerra fredda”,
nella sua vittoria alle sue ultime
elezioni ha decretato implicitamente la
propria sconfitta e forse anche l’inizio
della fine della propria carriera
politica. Da un lato dovrà decidere se
Mosca è un alleato che vale la pena
tenere in questa fase delicata,
dall’altro dovrà capire se allearsi con
l’Occidente, il quale non lo ha mai
rispettato e considerato un suo pari,
porterà ai risultati sperati o se invece
si tramuterà nella propria definitiva
caduta.
D’altro canto, il Cremlino forse dovrà
iniziare ad abituarsi all’idea di una
Bielorussia più autonoma e da non
manovrare come una marionetta a proprio
piacimento, indipendentemente dal fatto
di avere Lukašenka al potere o meno.
Tuttavia, per quanto le dinamiche di
politica estera scriveranno sicuramente
il futuro di questo importante paese,
non sono assolutamente da sottovalutare
le proteste post-voto in stile
Euromaidan, essendo forse questo il
mezzo di qualche potenza (o di tutte
insieme per conto proprio, non lo
sapremo mai) per destabilizzare un paese
che, per quanto piccolo, gioca un ruolo
importantissimo nelle dinamiche dell’Est
Europa e, più in generale, dell’Europa
come continente. |