[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 152 / LUGLIO 2020 (CLXXXII)


attualità

Il futuro incerto della Bielorussia

Una nazione al crocevia

di Gian Marco Boellisi

 

Di tutte le tornate elettorali che si sono svolte in questo 2020, una tra le più interessanti è sicuramente stata quella in Bielorussia del 9 agosto. Paese storicamente inserito nella sfera d’influenza russa, la Bielorussia ha iniziato recentemente a muoversi di volontà propria sullo scacchiere internazionale inseguendo importanti obiettivi, ma anche andando incontro a gravi rischi.

 

In tutto questo si inseriscono le recenti elezioni politiche, fino a oggi una mera formalità per un paese in cui la democrazia è stata solamente un lontano miraggio dalla caduta dell’Unione Sovietica in poi. Tuttavia in quest’ultima tornata elettorale Aleksandr Lukašenka, definito da Condoleeza Rice in tempi non sospetti “l’ultimo dittatore d’Europa”, ha rischiato seriamente di vedere l’opposizione rosicchiargli molto di quel potere che esercita ininterrottamente dal lontano 1994. È interessante quindi cercare di inquadrare il contesto politico interno bielorusso per poi inserirlo in quel grande gioco che è la politica internazionale.

 

Partiamo dalle origini. Vicina da sempre del più grande stato del mondo, la Bielorussia non è mai riuscita a divincolarsi dal far parte della sfera d’influenza della Russia. Anche storicamente, le famose “3 Russie” portano con sé un significato molto importante. Infatti questa perifrasi altro non sta a indicare che l’unione di tre porzioni di territorio ideologicamente e politicamente unificate sotto la bandiera zarista (o russofona che dir si voglia): la Grande Russia (la Federazione Russia d’oggi), la Russia Bianca (la Bielorussia) e la Piccola Russia (l’Ucraina).

 

Quando cadde l’Unione Sovietica, la Bielorussia cercò di passare a un sistema politico democratico dopo gli innumerevoli anni vissuti sotto dittatura. Tuttavia, come in molti altri stati ex-sovietici tra cui probabilmente anche la stessa Russia, qualcosa si inceppò sul nascere e, a parte le prime elezioni tenutesi nel 1994, non si ebbe più alcun vero processo democratico all’interno del paese. La scena politica infatti fu monopolizzata completamente a suon di brogli elettorali proprio dal candidato vincente nel 1994, un ex-funzionario del vecchio partito comunista e militare quasi sconosciuto chiamato Aleksandr Lukašenka. Da allora la Bielorussia è diventata de-facto uno stato cuscinetto della Russia, essendo questa praticamente l’unico paese ad accettare e ad avvallare l’esistenza di questo stato fallito comandato da un dittatore a poche centinaia di chilometri dalla democraticissima Europa.

 

Tanto per cambiare, anche le ultime elezioni del 9 agosto 2020 sono state vinte dal presidente Lukašenka con l’80,23% dei voti. Tuttavia, a differenza delle passate tornate elettorali, il risultato non è stato ben accettato dalla popolazione bielorussa, la quale è scesa in piazza a Minsk a protestare veementemente contro i risultati plebiscitari comunicati dal governo. Queste elezioni hanno infatti visto l’affermarsi di forze di opposizione che avrebbero potuto erodere concretamente consensi al governo, portando per la prima volta Lukašenka a sentirsi il terreno franare sotto i piedi.

 

I candidati in gara per la presidenza erano cinque: Aleksandr Lukašenka, Svetlana Tikhanovskaya, Siarhei Cherachen, Hanna Kanapatskaya e Andrey Dmitriev. Tra questi nomi, la grande sorpresa è stata Svetlana Tikhanovskaya, candidata indipendente che è entrata in politica a gamba tesissima a campagna elettorale già iniziata.

 

Infatti in principio era il marito di Svetlana, il blogger Sergey Tikhanovsky, a dover correre per la presidenza. Tuttavia la sua candidatura è stata intralciata prima da un arresto e poi da una fermata definitiva della commissione elettorale, la quale ha rifiutato la candidatura. Svetlana ha quindi ufficializzato la sua corsa per la presidenza il 15 maggio, passando molto presto in testa nei sondaggi (non in quelli ufficiali ovviamente) mentre gli stessi davano l’attuale presidente a un gramo 3%. Nonostante sia riuscita a indire il comizio più partecipato della storia del paese, con una presenza di 60mila persone, la Tikhanovskaya ha raggiunto solamente il 9,9% dei consensi.

 

Questa brusca fermata dei voti di Svetlana ha portato come già citato a importanti scontri di piazza nella capitale Minsk, i quali hanno presto preso i connotati di una vera e propria guerriglia urbana portando anche alla morte di manifestanti negli scontri. Al fine di tutelare la propria persona da rappresaglie, la Tikhanovskaya si è rifugiata quasi immediatamente in Lituania, dimostrando purtroppo che la Bielorussia non si può ancora dire un paese libero.

 

A testimonianza di ciò, tra l’11 e il 18 giugno 2020 sono state arrestate più di 20 persone per un caso di evasione fiscale e riciclaggio di denaro appartenti alla dirigenza di Belgazprombank, una banca di proprietà di Gazprom e Gazprombank. Per quanto fortuito possa sembrare, l’arresto ha coinvolto anche uno dei principali candidati alla presidenza ovvero l’ex amministratore delegato della Belgazprombank, Viktor Babariko. L’applicazione politica del “ubi maior minor cessat”.

 

La cosa curiosa è che sia Aleksandr Lukašenka sia Svetlana Tikhanovskaya hanno basato la propria campagna elettorale sullo stesso tema, ovvero il futuro della Bielorussia. Il primo ha sottolineato l’importanza delle elezioni dal punto di vista geopolitico, vedendole come un’opportunità per il popolo bielorusso per svincolarsi dai legami del passato, mentre la seconda ha calcato la mano sulle tematiche più sentite dal basso, ovvero lotta alla corruzione dilagante nel paese e conclusione del processo di democratizzazione interrotto nel 1994. Nonostante le road map palesemente diverse, entrambi i candidati hanno sempre concordato su un punto: la fuoriuscita della Bielorussia dall’orbita russa e l’avvicinamento sostanziale all’Occidente, Stati Uniti in primis. Neanche a dirlo, Mosca non ha gradito questo tipo di propensione da parte dello storico alleato.

 

Nonostante il rapporto con la Russia, prima quella di Eltsin, ma soprattutto quella di Putin, sia stato negli anni un punto cardine di qualsiasi mossa in politica estera della Bielorussia di Lukašenka, negli ultimi mesi le cose sembrano cambiate radicalmente.

 

Le critiche dei candidati alla presidenza hanno messo fortemente in discussione il rapporto con l’ingombrante vicino, portando avanti a spron battuto il concetto della propria indipendenza culturale e politica e accusando addirittura Mosca di voler interferire con il “processo democratico” bielorusso. Queste particolari accuse e tensioni non sono frutto tuttavia delle ultime settimane di campagna elettorale, ma il risultato di un processo ben più lungo.

 

L’inizio della lite tra i due paesi ha inizio bene o male un anno fa. La prima avvisaglia di incrinamento dei rapporti tra Russia e Bielorussia avvenne quando Lukašenka decise di diversificare gli approvvigionamenti petroliferi bielorussi, e per farlo contattò il “grande nemico”: gli Stati Uniti. Questa, oltre a essere stata una mossa totalmente inaspettata verso Mosca, divenne ben presto una questione di sicurezza nazionale per la Russia. Infatti perdere anche il proprio vicino e alleato all’influenza occidentale avrebbe comportato un accerchiamento geografico senza pari nella storia russa da parte degli alleati di Washington.

 

Per quanto inizialmente la questione del petrolio americano fu paventata solo come ipotesi, in modo da usarla con Mosca come moneta di scambio per qualcos’altro, alla fine si passò ai fatti. L’arrivo al porto di Klaipeda in Lituania di 80mila tonnellate di greggio americano fu un colpo al cuore per le stanze del Cremlino, ricordando ai vertici russi quanto poco potessero fare di fronte a un tale svolta politica.

 

Lo slogan di Lukašenka fu “sicurezza energetica per la Bielorussia attraverso la diversificazione dei fornitori”, che tradotto ai minimi termini vuol dire: meno importazioni da Mosca, e quindi meno dipendenza dal Cremlino, e più affinità con gli Stati Uniti e con l’Occidente. È bene precisare tuttavia che la fornitura di petrolio americano è seguita solo dopo mesi di trattative segrete tra il governo bielorusso e l’ex segretario per la sicurezza nazionale John Bolton in un primo momento per poi essere sostituito da Pompeo, mentre allo stesso tempo Minsk trattava con Mosca per l’aggiornamento del listino prezzi di gas e petrolio.

 

Si può vedere l’inizio di questo processo di sfiducia addirittura nel 2014, quando Minsk iniziò a prendere le distanze da Mosca a seguito della rivoluzione colorata di Maidan. La paura di Lukašenka fu quella di essere oggetto di ingerenze russe tanto esplicite quanto quelle in Ucraina, tanto che iniziò già allora, seppur blandamente, a corteggiare ed essere corteggiato da Unione Europea e Stati Uniti.

 

Tuttavia in quell’occasione il distanziamento da Mosca fu solo formale e non sostanziale, essendo i due paesi di fatto necessari uno all’altro. Infatti alla Bielorussia serve la Russia per legittimare la propria esistenza politica mentre alla Russia serve la Bielorussia per avere almeno uno stato cuscinetto prima dell’Europa, l’eterno alleato e allo stesso tempo nemico di Mosca.

 

Per quanto oggi sembri strano solo parlarne, in passato si era addirittura pensato di unificare le due nazioni, le quali da sempre condividono quasi in toto usi e costumi. Ciò sia per una politica di potenza russa sia e soprattutto per legittimare una candidatura di Putin alla presidenza che andasse oltre ai termini previsti della costituzione. Superato quest’ultimo problema con uno dei referendum meno attendibili dell’intera storia contemporanea, l’annessione della Bielorussia è passata in secondo piano, finendo molto presto nel dimenticatoio dei progetti politici post-sovietici.

 

Per quanto Lukašenka si sia speso molto in parole, a un certo punto è arrivato anche ai fatti. Il 29 luglio 2020, in un’operazione delle forze di sicurezza di Minsk, sono stati arrestati 33 cittadini russi accusati di essere contractor della ormai celebre compagnia privata Wagner arrivati in Bielorussia con l’intento di compiere atti terroristici e innescare disordini in vista delle elezioni. In parole povere, Minsk ha accusato apertamente Mosca di voler organizzare una rivolta popolare ai danni del governo bielorusso. La banale verità invece è che l’intera faccenda dell’arresto altro non è che un’immensa opera di propaganda elettorale architettata dal governo di Lukašenka per far accorrere i votanti bielorussi attorno al proprio partito, dipingendosi come il salvatore della patria dalle ingerenze esterne e il protettore della sovranità e dell’indipendenza del paese.

 

Il problema tuttavia va ben più a fondo del mero arresto di una trentina di persone. Infatti l’intera faccenda potrebbe essere stata banalmente progettata in comune accordo con Mosca per direzionare il voto appositamente, come potrebbe essere stata messa in atto arbitrariamente da parte di Minsk. Addirittura pensare che Minsk non fosse stata informata della presenza dei contractor della Wagner sul suolo bielorusso è molto improbabile, essendo questa una routine praticata da anni. È infatti ormai uso comune far transitare, in partenza o in ritorno, i suddetti contractor verso uno degli innumerevoli scenari in cui questi soldati sono costantemente impegnati: Sudan, Mozambico, Siria, Ucraina, Libia.

 

Vi è anche la possibilità che lo stesso Lukašenka abbia richiesto la presenza di queste truppe su suolo bielorusso per poter gestire eventuali disordini post-elezioni. In questo caso, il tradimento verso Mosca sarebbe percepito in maniera ancora più grave.

 

Qualsiasi sia la verità, sarà interessante vedere quando gli accusati arriveranno in tribunale, poiché qui la caduta dei capi d’accusa porterebbe a uno smascheramento totale del bluff congiunto di Mosca e Minsk, mentre l’avvio del processo e la potenziale condanna porterebbe a una gravissima frattura con Mosca, probabilmente insanabile.

 

In generale, per Mosca l’accusa di manipolare le elezioni bielorusse rappresenta puro tradimento da parte di un alleato storico, e come la storia insegna i russi sono noti non dimenticare facilmente. In questo momento la Russia si sta sentendo minacciata più che mai, forse anche più di Euromaidan, essendo la Bielorussia uno dei pochi baluardi politici della Russia rimasti in Europa insieme a Moldavia e Serbia.

 

Tuttavia essa sa anche che per svincolarsi dal proprio giogo Minsk dovrà fare più di qualche accordo economico sul petrolio. Infatti la Bielorussia può sì aprirsi agli immensi mercati europei e statunitensi in sostituzione a quello di Mosca, tuttavia le perdite economiche per l’economica bielorussa nel breve e nel medio termine sarebbero immense, dovute queste agli enormi gap qualitativi e quantitativi tra Minsk e i mercati occidentali. Ciò molto probabilmente porterà a una recessione non di poco conto, la quale come sempre accade porterà a nuovi disordini, i quali non è che certo che il governo di Lukašenka sia capace di gestire. Quindi è vero, Mosca è molto preoccupata, ma alla fine forse non troppo.

 

Unendo tutte queste considerazioni, Lukašenka si trova in un limbo molto difficile da gestire, soprattutto dopo la “vittoria” alle elezioni. Infatti da un lato sa che non potrà mai staccarsi completamente da Mosca, avendo questa bisogno della Bielorussia come stato cuscinetto e alleato ed essendo oltremodo troppo grande e potente da contrastare, mentre dall’altro ha tra le mani una società civile che gli impone di avviare un cambiamento radicale all’interno del paese e gli chiede di entrare nell’abbraccio statunitense, il quale altro non mira che a isolare la Russia nel suo angolino in Europa dell’Est per farla diventare una potenza asiatica e non più europea.

 

Da tenere a mente anche il fatto che, nel caso in cui Lukašenka riesca in qualche modo a ingraziarsi gli Stati Uniti senza troppe conseguenze dal lato orientale, è molto poco probabile che Washington e l’Occidente tutto tollerino la sua stessa presenza al potere dopo averlo screditato agli occhi della comunità internazionale per decenni come un assassino in piena regola dei diritti umani e democratici del suo stesso popolo. In politica, ricordarsi con chi si ha a che fare è sempre un vantaggio.

 

In conclusione, la situazione in Bielorussia è tra le più complesse nell’attuale spazio post-sovietico. Lukašenka, definibile tranquillamente “l’ultimo cimelio della guerra fredda”, nella sua vittoria alle sue ultime elezioni ha decretato implicitamente la propria sconfitta e forse anche l’inizio della fine della propria carriera politica. Da un lato dovrà decidere se Mosca è un alleato che vale la pena tenere in questa fase delicata, dall’altro dovrà capire se allearsi con l’Occidente, il quale non lo ha mai rispettato e considerato un suo pari, porterà ai risultati sperati o se invece si tramuterà nella propria definitiva caduta.

 

D’altro canto, il Cremlino forse dovrà iniziare ad abituarsi all’idea di una Bielorussia più autonoma e da non manovrare come una marionetta a proprio piacimento, indipendentemente dal fatto di avere Lukašenka al potere o meno.

 

Tuttavia, per quanto le dinamiche di politica estera scriveranno sicuramente il futuro di questo importante paese, non sono assolutamente da sottovalutare le proteste post-voto in stile Euromaidan, essendo forse questo il mezzo di qualche potenza (o di tutte insieme per conto proprio, non lo sapremo mai) per destabilizzare un paese che, per quanto piccolo, gioca un ruolo importantissimo nelle dinamiche dell’Est Europa e, più in generale, dell’Europa come continente.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]