contemporanea
RICORDANDO INIGO CAMPIONI
QUANDO LA REPUBBLICA SOCIALE FUCILò GLI
AMMIRAGLI
di Francesco Caldari
All’alba di quel mercoledì 24 maggio
1944, al poligono di tiro di Parma,
l’Ammiraglio di Squadra Inigo Campioni
guardò i componenti del plotone di
esecuzione schierati davanti a lui e al
Contrammiraglio Luigi Mascherpa. Erano
tutti così giovani, e stranamente
euforici. Forse avevano dato loro da
bere. L’ultimo sgarbo era stato quello
di giungere in ritardo sul luogo dove si
sarebbe dovuto compiere l’atto finale
della vita militare e terrena dei due
alti ufficiali della Regia Marina.
Li avevano dovuti attendere una buona
mezz’ora. Di indossare l’uniforme per
loro due non se ne parlava; sin
dall’incarcerazione nel campo di
prigionia a Schokken erano stati
costretti a vestire abiti borghesi.
Almeno la sentenza aveva risparmiato
l’onta della fucilazione alle spalle.
L’Ammiraglio Campioni al pari del suo
collega Mascherpa rifiutò la sedia.
Volle rimanere in piedi ad attendere la
scarica di fucileria, mirando negli
occhi i suoi carnefici.
Dicono che, quando si è a pochi istanti
dalla morte, nella mente passano come in
un attimo tutte le immagini della
propria vita. Quelle dell’Ammiraglio
Campioni lo devono aver riportato ai
colori intensi azzurro e verde
dell’isola di Rodi. Al periodo vissuto,
solo pochi anni prima, nell’insolita per
lui funzione di Governatore Civile e
Militare del Possedimento delle Isole
Italiane dell’Egeo. Era giunto al
castello dei Cavalieri Gran Maestri
degli Ospedalieri il 24 luglio del 1941
in quella che i greci chiamano non a
caso “isola del sole”, dopo essere stato
richiamato in servizio – avendo
raggiunto i previsti limiti di età – per
“esigenze eccezionali dovute allo stato
di guerra”.
Certo sarà rimasto anche lui abbagliato
dalla bellezza di quei luoghi. Chissà se
gli ricordavano almeno un po’ la sua
Viareggio, dove era nato il 14 novembre
del 1878 e cresciuto fino ai 15 anni,
prima di varcare il portone
dell’Accademia Navale della vicina
Livorno, da cui era uscito nel 1898,
primo del suo corso, in vista una
brillante carriera. E tale era stata, in
verità: nel 1912 la partecipazione alla
guerra italo-turca a bordo di Nave
Amalfi quale direttore di tiro, gli
frutta il Cavalierato dei SS. Maurizio e
Lazzaro, mentre durante il Primo
Conflitto Mondiale imbarca sulle navi
Cavour e Andrea Doria.
Poi da comandante del cacciatorpediniere
Ardito merita una Croce di Guerra per
l’impegno in alto Adriatico e una
Medaglia di Bronzo al Valor Militare per
una azione di contrasto a navi
austriache di supporto a una incursione
aerea. Dopo la guerra, ormai capitano di
vascello, l’incarico di addetto navale a
Parigi, in un periodo in cui le
relazioni italo-francesi sono quanto mai
delicate. Il percorso dello stimato
Campioni prosegue con cadenza regolare:
passa da incarichi ministeriali ad altri
operativi, fino a giungere alla
responsabilità di Sottocapo di Stato
Maggiore della propria Forza Armata e
alla nomina di Senatore del Regno. Già
prima del giugno 1940, che segna
l’ingresso in guerra dell’Italia, torna
a comandare sul mare: da responsabile
della I Squadra Navale porta le navi
italiane a combattere a Punta Stilo (9
luglio 1940) e Capo Teulada (27 novembre
successivo), in due storici scontri
contro la Royal Navy-Mediterranean Fleet
britannica dell’Ammiraglio Cunningham.
Nel suo nuovo ruolo di Governatore,
Campioni prosegue la dominazione
italiana sulle isole del Dodecaneso,
l’arcipelago tra la costa turca e Creta
che l’Italia aveva annesso nel 1912,
dopo aver combattuto quella guerra
italo-turca (ovvero guerra di Libia,
figlia delle nostre velleità coloniali)
cui aveva partecipato, da tenente di
vascello imbarcato sull’Amalfi, proprio
il futuro Governatore. Nel complesso
circa 140 mila abitanti – 60mila nella
sola Rodi, il capoluogo – dei quali
16mila italiani. La posizione
ordinamentale del Possedimento è
elevata: dipende dagli Esteri, e non dal
Ministero delle Colonie; il Governatore
può promulgare propri decreti, ha una
ampia autonomia amministrativa, ha alle
dipendenze quale Comandante Superiore le
tre forze armate (identificate dalla
sigla telegrafica EGEOMIL)
massicciamente presenti sulle isole,
in primis la Divisione Regina, con i
suoi 34.000 fanti.
La guerra, vista da Rodi, appare
lontana, e il blocco navale e talune
incursioni aeree degli Alleati
intaccanoil giusto la vita dei rodensi
indigeni e dei loro “padroni di casa”
italiani. Altri ospiti però presto si
affacciano a turbare l’ambiente
complessivamente sereno, nonostante
tutto. Questi sono alleati, certo, ma
hanno evidenti mire strategiche, avendo
annusato la possibile uscita dal
conflitto dell’Italia e volendo ben
presidiare un sito di massima importanza
per lo sviluppo della guerra nel
Mediterraneo. A partire dalla fine del
1942 e via via con maggiore insistenza
giungono nelle isole truppe tedesche,
con la falsa prospettazione di fornire
ausilio e cooperazione. Ciò infastidisce
naturalmente Campioni e il suo Staff.
L’Ammiraglio ne ha modo di lamentarsi,
scrivendo in una lettera informale al
Sotto Capo di Stato Maggiore della
Marina, a Roma: «è
iniziata da un po’ una invasione di
tedeschi” – salvo poi concludere – «auff!
Scusa il piccolo sfogo». Lo stesso
Feldmaresciallo Albert Kesserling,
comandante in capo tedesco dello
scacchiere Sude delle
operazioni nel Mediterraneo,
nel corso di una visita nel maggio del
1943, forse per saggiare la reazione di
Campioni, nel constatare come nel
registro dei visitatori del Castello vi
sia una numerosa lista di suoi
connazionali, sbotta: «Questa è una
vera invasione germanica!».
E se non bastano gli uomini, sulle isole
arrivano anche armamento e munizioni. Ma
il Comando Supremo Italiano, a Roma, pur
portato a conoscenza della situazione di
disagio che si sta creando per la
continua richiesta degli alleati
tedeschi di sapere forza, armi e piani
operativi dei nostri connazionali, fa
spallucce. Anche qualche comandante
italiano sull’isola – evidentemente
consapevole di una certa riluttanza dei
suoi alla collaborazione – non manca di
richiamare affinché vengano lasciate ai
tedeschi massima libertà di movimento e
fornito un chiaro quadro di situazione.
Questi intanto hanno consolidato le
proprie posizioni; hanno costituito una
Sturmdivision (divisione
d’assalto), dotata di mezzi blindo e
corazzati, denominandola Rhodos e
ponendo fisicamente non senza motivo il
comando del colonnello Ulrich Kleemann
(nel corso dei successivi avvenimenti
promosso generale) nelle vicinanze di
quello della italiana Divisione Regina.
Presto arriva il 25 luglio 1943, con la
destituzione di Mussolini, e quindi il
fatidico 8 settembre e la situazione non
tarda a precipitare: solo dal giorno
prima, grazie alla intercettazione di
comunicazioni radio, Campioni e i suoi
collaboratori apprendono della avvenuta
(il 3 precedente) firma dell’Armistizio
a Cassibile con gli anglo-americani. Ad
acquisire la notizia sono però anche i
tedeschi, che intanto cominciano a
piazzare le proprie truppe nelle
posizioni strategiche dell’isola.
L’annuncio ufficiale dell’armistizio
giunge prima da Radio Algeri dal
generale americano Eisenhower e quindi
dall’Italia da Badoglio, riportante la
ben nota enigmatica disposizione «(…)
ogni atto di ostilità contro le forze
anglo-americane deve cessare da parte
delle forze italiane in ogni luogo.
Esse, però, reagiranno a eventuali
attacchi da qualsiasi altra provenienza».
Se i soldati festeggiano, giubilanti,
intravedendo la fine della guerra, e
attendendo ordini sul da farsi nei
riguardi degli ormai ex alleati
tedeschi, Campioni chiede che venga
convocato Kleemann. Il colonnello
(secondo alcune fonti al cospetto
dell’Ammiraglio, secondo altre invece
trattando con un delegato di questi, il
Generale di Corpo d’Armata Forgiero)
finge di essere a sua volta rimasto
sorpreso della notizia e ritiene che sia
opportuno evitare incidenti. L’accordo è
di mantenere le rispettive posizioni, in
buona sostanza senza battagliare,
seppure Kleemann ottenga 24 ore per “raccogliere
le poche migliaia di uomini intorno al
suo quartier generale”. Salvo poi
procedere alla determinante occupazione
dell’aeroporto di Maritza, il
principale, e quello di Gadurrà. In
questo teso contesto, non manca qualche
patriota greco isolano che issa la
bandiera ellenica sul pennone destinato
a ospitare il vessillo degli
“oppressori” italiani.
Intanto, giunge da Roma altro dispaccio
(il n. 24292-90) con indicazioni
specifiche per il Comando dell’Egeo “libero
(di) assumere verso (i) germanici (l’)
atteggiamento che riterrà più conforme
alla situazione. Qualora però fossero
prevedibili atti di forza da parte
germanica procedere at disarmo immediato
unità tedesche nell’arcipelago”,
concludendosi con un contraddittorio “non
deve però essere presa iniziativa di
atti ostili contro germanici”. Fatto
che sta che alle 7:10 del 9 settembre il
colonnello tedesco può telegrafare a
Berlino: «Aeroporti Maritza e Gadurrà
saldamente in nostre mani».
Quella stessa mattina giungono gli
stukas tedeschi provenienti da Creta
a bombardare il porto di Rodi,
evidentemente per non consentire sbarchi
anglo-americani, e gli uomini di
Kleemann procedono a disarmare le truppe
della Regina. Al diniego del Comandante,
Generale Scaorina, gli ex alleati non
indugiano a far fuoco: rimangono uccisi
in sedici e una quarantina sono feriti,
mentre il Comandante e il suo staff sono
fatti prigionieri. Il colloquio
successivo tra Campioni e Kleeman è
teso: il secondo chiede la resa delle
truppe italiane oppure farà distruggere
indiscriminatamente Rodi con
bombardamenti aerei.
Presto ancora un colpo di scena: nelle
primissime ore del mattino del 10
settembre riescono ad arrivareal
Castello tre paracadutisti inglesi,
giunti sull’isola la sera precedente. Li
invia il Comandante britannico del Medio
Oriente, il Generale Henry M. Wilson,
che vuole dar corso a quel piano di
conquista di Rodi, nodo strategico
secondo gli inglesi per attaccare la
Germania attraverso Grecia e Balcani,
studiato da tempo (ma poi messo in un
cassetto a favore del fronte siciliano e
di quello della Normandia) e
inizialmente appoggiato anche da
Churchill, che visto l’evolversi della
situazione proprio il 9 settembre gli
telegrafa: «Questo è il momento di
giocare forte. Improvvisate e osate».
La delegazione britannica conviene
sull’invio, intanto, di almeno duecento
paracadutisti, promettendo di poter
fornire rinforzi entro il 15 successivo,
e riparte con una nota di Campioni a
Wilson, che nel segnalare “ho
immediatamente iniziato il fuoco sulle
truppe tedesche ovunque mi è stato
possibile”, richiede urgentemente
mezzi navali a sud dell’isola, per
attirare ivi le truppe tedesche e
diminuire la pressione su Rodi città.
Intanto le scaramucce armate divampano
tra italiani e tedeschi, e vedono i
nostri avere la meglio.
Il mattino dell’11 settembre il Generale
Scaorina, comandante della Divisione
dell’Esercito, prigioniero, invia un
biglietto al Governatore, chiedendogli “allo
scopo di evitare ulteriore inutile
spargimento di sangue” di consentire
“la cessazione delle ostilità” da
parte dei capisaldi a sud dell’isola,
richiesta reiterata da un suo delegato
in un incontro diretto con l’Ammiraglio,
stante la minaccia dei tedeschi di
passare per le armi 3.000 fanti
italiani. I tedeschi lasciano mezz’ora
di tempo a Campioni per decidere: la
confusione è molta, le comunicazioni
sono state interrotte, lo Stato Maggiore
dell’Ammiraglio e i Comandanti da lui
dipendenti non hanno conoscenza dei
locali successi italiani negli scontri
con gli ex alleati, talché il
Governatore – concordi gli ufficiali
generali suoi collaboratori – accetta la
capitolazione e ordina la resa: il
bluff di Kleemann è riuscito. Egli
propone ora a Campioni, quale garanzia,
di rimanere Governatore dell’Isola,
mentre si continua a combattere a Coo e
Lero, dove il contrammiraglio Luigi
Mascherpa, qui sì aiutato dai
britannici, resisterà sino a metà
novembre.
La resa di Rodi è una pagina incerta
della storia militare: seppure gli
italiani fossero preponderanti come
forza, mancavano di mezzi blindati e
corazzati, la cattura del Comandante e
dello Stato Maggiore della Divisione
dell’Esercito privò della possibilità di
coordinamento, il minacciato
bombardamento indiscriminato da parte di
Kleemann avrebbe significato una
carneficina anche di civili isolani, il
promesso aiuto degli inglesi sarebbe
arrivato troppo tardi. Certo si consentì
ai tedeschi – già preordinati – di
prendere e mantenere l’iniziativa, e la
capitolazione fu vissuta dalla
maggioranza dei militari italiani come
un’umiliazione.
La pressante richiesta dei tedeschi a
Campioni di accettare anche la resa
delle altre isole del Possedimento viene
respinta: obbligato a rimanere internato
nel Castello, il 18 firma le dimissioni
da Governatore civile. Ve ne è a
sufficienza perché venga condotto prima
ad Atene e poi nel campo di Schokken,
nel lager 64/Z, numero di matricola 137,
dove è raggiunto dal difensore di Lero,
l’altro internato Contrammiraglio
Mascherpa.
Intanto nella costituita Repubblica di
Salò nel dicembre 1943 viene
ripristinato il Tribunale Speciale per
la Difesa dello Stato: a Vincenzo
Cersosimo viene dato l’incarico di
istruire prima il processo di Verona, a
carico di sei gerarchi che avevano
votato l’ordine del giorno Grandi che
aveva di fatto destituito Mussolini, e
quindi quello che passerà alla storia
come “il processo agli Ammiragli”, che
si tiene a Parma nel maggio del 1944.
Quattro gli imputati: Campioni e
Mascherpa, trasferiti dai campi
germanici e detenuti dall’8 aprile nella
IV sezione di quel carcere,
paradossalmente intitolato a San
Francesco, del quale Campioni è devoto,
e i contumaci Pavesi e Leonardi.
Per Campioni l’accusa è di aver aderito
all’ordine di Badoglio, ritenuto
dall’accusa “palesemente criminoso”, e
di non aver evitato che i possedimenti
affidatigli “venissero distaccati dalla
madre Patria come era intendimento dei
traditori del comando superiore”. La
mattina del 22 maggio inizia la seduta
avanti alla giuria, presieduta dal
Generale della Milizia Griffini. A poco
valgono la lunga dichiarazione dell’ex
Governatore, una lettera di
apprezzamento scritta dal
sottosegretario alla Marina della RSI,
Ammiraglio Sparzani, le dichiarazioni
dell’unico testimone a favore,
l’industriale Giovanni Caproni,
costruttore di aerei da combattimento, e
la puntuale e giuridicamente dotta
arringa del suo avvocato difensore
Gustavo Ghidini.
Il processo si svolge in una giornata.
La camera di consiglio prende 15 minuti.
La sentenza di morte per i due ammiragli
presenti e per i contumaciera è scritta.
Inutile la richiesta di ripensamento
sollecitata nella notte dal Ministro
della Giustizia della RSI, Pisenti,
respinta da Mussolini che vuole una
esemplare punizione per presunto
tradimento nella condotta della guerra
da parte delle Forze Armate italiane, e
in particolare della Regia Marina: “pena
di morte mediante fucilazione al petto”.
Se vi trovate a passare da Assisi, fate
una passeggiata al cimitero monumentale.
Magari siete fortunati e potete
scambiare qualche parola con il
professore del luogo che si prende
volontariamente cura della tomba
dell’Ammiraglio Campioni, per la parte
che compete all’Associazione dei Marinai
in congedo. Vi racconterà la storia del
Governatore di Rodi, fucilato per aver
obbedito al giuramento prestato, ucciso
per un barbaro castigo. E vi svelerà che
l’Ammiraglio era un terziario
francescano, un laico, cioè, chiamato a
compiere il suo cammino terreno aderendo
alla spiritualità francescana, e che
aveva chiesto di riposare nella terra di
San Francesco, dove i suoi resti ebbero
dimora nell’ottobre del 1945.
Troverete anche una targa che riporta la
motivazione della Medaglia d’Oro al
Valor Militare concessagli alla memoria
dalla Repubblica Italiana il 9 novembre
1947, dove è scritto: “processato e
condannato da un tribunale straordinario
per aver eseguito gli ordini ricevuti
dalle Autorità legittime e per aver
tenuto fede al suo giuramento di
soldato, manteneva contegno fiero e
fermo – rifiutando di firmare la domanda
di grazia e di dare adesione anche
formale alla Repubblica Sociale Italiana
– fino al supremo sacrificio della vita”.
Riferimenti bibliografici:
E. Fintz Menascé, Buio nell’isola del
sole: Rodi 1943-1945, Giuntina,
Firenze 2005.
M. Gabriele, Il dovere e la memoria,
Supplemento a Rivista Marittima, 2001.
G. Rocca, Fucilate gli ammiragli,
Mondadori, Milano 1987.
M. Zubboli, Una finestra sul mare,
Minerva, Assisi 2002. |