N°
172
/ APRILE 2022 (CCIII)
contemporanea
FALCONE E MARTELLI: STORIA DI UN'AMICIZIA
A TRENT'ANNI DA CAPACI
di Francesco Marcelli
Erano le 17:57 del 23 maggio 1992 quando
un’esplosione apocalittica fece saltare in aria un
pezzo dell’autostrada A29 in prossimità dello
svincolo di Capaci insieme a Giovanni Falcone, la
moglie e gli uomini di scorta. Assieme a
quell’autostrada anche lo Stato italiano era in
frantumi quel giorno.
Come ricorda lo storico Salvatore Lupo, “in quel
tragico momento la storia della mafia andò a
intrecciarsi con la storia d’Italia in maniera
indistricabile, come mai era successo”. Ad oggi
sono trent’anni esatti da quella terribile strage.
Ma andiamo con ordine. Non voglio in questo articolo
raccontare cose già dette tante volte. Parlerò
invece di un aspetto più originale e poco
conosciuto, e cioè della storia di collaborazione e
amicizia tra Giovanni Falcone e Claudio Martelli,
come mi è stata raccontata da quest’ultimo in
un’intervista rilasciatami di recente nella sua
abitazione a Roma.
Nella primavera del 1987 i due si incontrarono per
la prima volta. Martelli, desideroso di conoscere
“il giudice più famoso al mondo”, andò a trovare
Falcone nel suo ufficio a Palermo. Ebbero una lunga
discussione durata dalle 16.00 alle 20.00 circa.
Fu quella, come ricorda Martelli, “una lunga e
interessantissima lezione di mafia; rimasi molto
colpito da quel primo incontro con Falcone, persona
che mi ha comunicato una grande, grandissima
serietà. Si dedicò a istruirmi, in quanto avevo
un’idea convenzionale, non attuale della mafia”.
Tanto che alla prima domanda che gli pose, subito
Falcone lo interruppe dicendogli che quella che
viene definita genericamente mafia, lui preferiva
chiamarla con il suo vero nome: Cosa Nostra.
Questo loro incontro fu il primo di una lunga serie.
Solo quattro anni dopo infatti, si ritrovarono a
Roma per lavorare insieme.
Infatti nel febbraio del 1991, Giuliano Vassalli,
giurista di grande valore, lasciò l’incarico di
Ministro di Grazia e Giustizia, ruolo che sarà
appunto ricoperto da Claudio Martelli a partire
dallo stesso mese. Tra le prime decisioni che prese,
ci fu appunto quella di chiamare Falcone a lavorare
a Roma, assegnandogli la carica di direttore
dell’ufficio affari penali presso il Ministero di
Grazia e Giustizia.
Come ha sottolineato l’onorevole Martelli, “lo
chiamai al Ministero perché a Palermo non poteva più
lavorare. Era letteralmente perseguitato dai suoi
colleghi”. Infatti Falcone, come ricordano tutti
quelli che gli furono vicini, in primis Paolo
Borsellino, fu spesso vittima di invidie e giochi di
potere interni a quello che è stato definito “il
palazzo dei veleni”. All’estero era il giudice più
famoso al mondo, in Italia un uomo non compreso o,
ancor peggio, attaccato pubblicamente sui giornali e
in televisione.
Falcone era consapevole della pericolosità
dell’azione volta a screditarlo e a isolarlo, ed è
per questo che, quando il Ministro di Giustizia lo
chiamò a lavorare al Ministero, intravide in quella
possibilità un’importante opportunità per debellare
più efficacemente Cosa Nostra.
Come afferma infatti anche lo storico Salvatore
Lupo, “Falcone aveva deciso che non voleva essere
un profeta disarmato. Sceglieva un alleato potente
come Martelli sapendolo interessato a qualificarsi
davanti all’opinione pubblica come avversario della
mafia. E non aveva remore a puntare su Roma,
tirandosi fuori dagli incancreniti conflitti del
‘palazzo dei veleni’ palermitano, per ottenere i
risultati generali di politica giudiziaria che
considerava ineludibili”.
Falcone e Martelli iniziarono quindi a lavorare
insieme, ognuno insegnando all’altro qualcosa del
proprio mestiere. “Che cosa fosse la mafia e
quali fossero i mezzi opportuni per combatterla lui
ne sapeva cento volte più di me; di come fare le
leggi e farle approvare dal Parlamento e rendere la
lotta alla mafia una priorità di governo glielo
dovevo insegnare io”, ricorda Martelli.
Iniziò a stabilirsi così tra loro un vero rapporto
di amicizia, essendo tra l’altro accomunati da molte
cose. “Avevamo due madri siciliane; entrambi da
ragazzi eravamo stati influenzati dalla lettura dei
Doveri dell’uomo di Giuseppe Mazzini; avevamo un
amor di patria molto forte, che derivava in parte
dall’educazione letteraria, in parte da quella
familiare. Un tratto comune della nostra educazione
era sia un forte senso del dovere, che si manifesta
nel fare il proprio lavoro nel modo migliore
possibile, sia un sentimento di amor di patria che
si manifesta nell’idea che si deve servire la patria
con il proprio impiego pubblico”.
Martelli ricorda inoltre quanto Falcone fosse un
grande appassionato dell’Illuminismo e come questo
suo essere “laico, repubblicano e illuminista”, li
avvicinasse molto. I due parlavano per gran parte
del tempo di lavoro, essendo entrambi individui
abbastanza riservati, ma ogni tanto discorrevano
anche “di politica, di costumi siciliani, della
disorganizzazione dello Stato”. Avevano inoltre dei
“piaceri comuni, come la buona tavola, il buon vino,
il whisky”.
Qualche volta, sottraendosi alle proprie scorte,
andarono insieme al ristorante, a comprare qualche
regalo e addirittura una volta anche al cinema. Per
ragioni di lavoro capitò loro anche di fare viaggi
insieme molto lunghi di dieci o dodici ore, persino
negli Stati Uniti. A tal proposito Martelli racconta
un aneddoto interessante. Ricorda che una volta,
essendosi mezzo addormentato sulla poltrona
dell’aereo durante un tragitto molto lungo, fu
svegliato dal respiro affannoso e ansimante di
Falcone che sedeva accanto. Subito gli chiese cosa
stesse accadendo e Falcone senza scomporsi rispose
che stava facendo degli esercizi di contrazione dei
muscoli, trattenendo il respiro per allenarsi e
mantenersi in forma. Potrebbe apparire questo come
un particolare insignificante, ma a mio parere credo
che dica molto sul conto di un uomo che da giovane
aveva fatto molto sport e che ora era costretto a
vivere sempre blindato nel suo ufficio e che quindi
non aveva grandi possibilità di mantenersi in
esercizio all’aria aperta come fanno tutti coloro
che godono di piena libertà. Falcone aveva imparato
ad allenarsi in questo modo, come un recluso in
carcere.
Nel frattempo la lotta alla mafia procedeva in
maniera sempre più celere e certo non mancarono gli
avvertimenti di Cosa Nostra nei confronti di chi si
stava dimostrando troppo determinato a sconfiggere
la criminalità organizzata. La sera del 3 marzo 1991
due pregiudicati per associazione mafiosa esplosero
colpi di arma da fuoco contro la scorta che
presidiava la villa sull’Appia dell’onorevole
Martelli.
Il messaggio era chiaro: mandare un segnale al
Ministro di Giustizia che qualche giorno prima era
riuscito attraverso un “artificio giudiziario” a
procrastinare la scadenza dei termini di
carcerazione preventiva di una quarantina di boss
mafiosi, che altrimenti sarebbero stati
definitivamente messi in libertà da un giorno a un
altro. Il giorno dopo Falcone stesso si recò sul
luogo e definì l’accaduto non un attentato, bensì un
“avvertimento”.
Guardando un attimo dopo negli occhi Martelli e
scorgendo quasi una certa delusione da parte sua per
questa definizione riduttiva, gli disse poi “tranquillo
però Claudio, se continui così l’attentato te lo
fanno”. Cosa che di fatto la cupola mafiosa
cercò di realizzare nel gennaio del 1993 a Messina.
Secondo quanto affermato anni dopo dal capo della
polizia Manganelli, Cosa Nostra aveva deciso di far
saltare in aria il Ministro di Giustizia che avrebbe
dovuto presiedere a un comizio a Messina. All’ultimo
però Martelli decise di disertare quel comizio,
perché preferì evitare, alla vigilia dell’assemblea
nazionale del Psi, di andare a una manifestazione
troppo faziosa che poteva lacerare ulteriormente i
rapporti tra le varie correnti interne al partito.
Così per puro caso scampò all’attentato che Cosa
Nostra aveva organizzato piazzando un po’ di tritolo
sotto al palco dove egli avrebbe dovuto parlare. “Un
colpo di fortuna”, come lo ha definito il diretto
interessato.
Il 23 maggio del 1992 Giovanni Falcone non ebbe la
stessa fortuna. Tra l’altro sarebbe andata forse
diversamente, se egli quel giorno non avesse deciso
di guidare personalmente l’auto. Infatti dopo
l’esplosione e lo schianto dell’autovettura lui e la
moglie che erano seduti davanti persero la vita,
mentre al contrario l’uomo di scorta seduto dietro
riuscì a sopravvivere.
Martelli ha spesso ripetuto come Falcone avesse
questa mania di guidare lui l’auto, cosa che per la
sua sicurezza gli rimproverava sempre, così come
anche il fatto di andare troppo a Palermo. “Io lo
rimproveravo perché andava tutte le settimane a
Palermo. Lui mi rassicurò, anche se ero perplesso”.
Purtroppo il destino gioca ogni giorno con la sorte
degli uomini ed è senz’altro impossibile prevedere
tutto. Falcone fu così barbaramente ucciso da Cosa
Nostra presso Capaci con un attentato di proporzioni
apocalittiche mai viste prima. Un attentato volto a
eliminare il “nemico numero 1 della mafia”, per
usare un’espressione di Marcelle Padovani, e a
ripristinare la pax mafiosa; davanti a
un’azione del genere però non possono non venire
alla mente le parole di Tacito: “ubi solitudinem
faciunt, pacem appellant” (“dove fanno il
deserto, lo chiamano pace”). Credo infatti che
quelle macerie causate dall’esplosione ben
rappresentino il vero significato di pax mafiosa.
Non appena saputa la notizia dell’attentato,
Martelli salì a bordo di un aereo della Presidenza
del Consiglio (essendo anche Vicepresidente del
Consiglio) e si recò sul posto quanto prima.
Ricevette in viaggio la notizia della morte di
Falcone.
Così egli commenta oggi l’accaduto: “Fu come se
mi fosse venuto addosso un pezzo di
quell’autostrada; quello fu il giorno più brutto
della mia vita. Non vollero farmi vedere il
cadavere, perché era in condizioni pessime.
Nell’arco di qualche ora sul dolore si impose poi la
rabbia e il dovere di reagire”. Reazione dello
Stato che in effetti non si fece attendere e anzi,
come dice anche Salvatore Lupo, fu “serratissima”.
Il Parlamento varò i provvedimenti lungamente
richiesti da Falcone, un regime carcerario speciale
per i detenuti di mafia (articolo 41 bis
dell’ordinamento penitenziario).
Il giorno stesso della morte di Borsellino, Martelli
decretò il trasferimento di centinaia di loro,
destinazione le isolette di Pianosa e dell’Asinara,
le “carceri speciali” in cui erano stati rinchiusi i
brigatisti: il blitz fu realizzato alle tre di
mattina del 20 luglio 1992, con uno spettacolare
spiegamento di forze.
Un paio di giorni dopo, Amato ordinò la cosiddetta
Operazione Vespri Siciliani, cioè il dispiegamento
di reparti dell’esercito nelle strade siciliane, a
difesa di obiettivi sensibili”. Il 15 gennaio del
1993 si arrivò addirittura all’arresto del capo dei
capi, Totò Riina.
“Dimostreremo che con questo assassinio la mafia
ha fatto il peggiore affare della sua vita”,
disse il Ministro di Giustizia il giorno della
strage di Capaci. Ebbene, al di là della reazione
del governo che può essere giudicata più o meno
efficace, è innegabile il fatto che da quel momento
la popolarità e il consenso che ruotava intorno a
Cosa Nostra ha iniziato a vacillare sempre più.
Quell’eccidio segna infatti una cesura fondamentale
nella storia della lotta dello Stato italiano a Cosa
Nostra; beninteso, la mafia non è stata sconfitta e
c’è tutt’ora, ma nel sentire comune della
popolazione locale non si può non scorgere un certo
mutamento dal 1992 in poi, seppur ancora non
determinante.
Riflettendo sulla tragica sorte del suo amico,
Martelli parla dell’esistenza di “un’azione
parallela contro Falcone volta a isolarlo e a
depotenziarlo”: da una parte Cosa Nostra, dall’altra
alcuni suoi colleghi del Csm e della Corte di
Cassazione. Come ha affermato infatti anche
Borsellino qualche giorno dopo la morte di Falcone,
“la magistratura, che forse ha più colpe di ogni
altro, cominciò proprio a farlo morire il primo
gennaio del 1988”, quando appunto il Csm,
nonostante tutto, nominò Meli al posto di Falcone
come successore di Antonino Caponnetto.
Era quella un’inequivocabile azione atta a isolare
Falcone e, come egli stesso ha anche ripetuto,
l’isolamento è il preludio della morte in Sicilia: “si
muore generalmente perché si è soli o perché si è
entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso
perché non si dispone delle necessarie alleanze,
perché si è privi di sostegno”. Non credo dunque
sia sbagliato parlare di “azione parallela” contro
Falcone, secondo cui egli era preso fra due fuochi:
da una parte Cosa Nostra pronta a ucciderlo
fisicamente, dall’altra una certa magistratura
pronta a ucciderlo professionalmente. “Le
parallele sono due rette che in geometria non si
incontrano mai, ma questo è vero solo in geometria,
nella vita si incontrano”, sostiene Martelli a
tal proposito.
Dovendo scegliere una parola per descrivere il suo
amico Falcone, Martelli ha utilizzato il termine
probitas, con tutte le varie sfumature di
significato che esso contiene. Parola indicante un
uomo onesto, retto, ma specialmente tutto di un
pezzo.
Se ne sono usati tanti di vocaboli per descrivere
positivamente Falcone, e non solo da parte di chi
Cosa Nostra l’ha sempre combattuta; penso ad esempio
al pentito di mafia Antonino Calderone che una volta
disse: “ho collaborato con Falcone perché è uomo
d’onore”, intendendo il vero senso dell’onore e
non quello falso e ipocrita dei boss mafiosi.
Ho riflettuto anche io su quale parola o espressione
fosse più adatta per descrivere una personalità come
Giovanni Falcone, ma alla fine non ci sono riuscito;
in risposta a tale quesito le uniche parole che mi
sono venute in soccorso sono quelle che Leonardo
Sciascia fa dire a un personaggio alla fine di uno
dei suoi più celebri romanzi: “che aggettivo e
aggettivo: l’uomo non ha bisogno di aggettivo”.
Così come in quel romanzo, anche nella realtà credo
che Falcone non necessiti di aggettivi, egli era un
uomo, e basta.