[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 155 / NOVEMBRE 2020 (CLXXXVI)


contemporanea

IL “SOGNO AMERICANO” IERI E OGGI

COSA È CAMBIATO

di Giovanna D’Arbitrio

  

Ho scritto questo articolo stimolata dalle elezioni americane del 2020, dove nella lotta sul filo del rasoio tra Biden e Trump, quest'ultimo ha continuato a imperversare con le sue minacce supportate da una schiera di avvocati per invalidare i risultati dei voti postali, visto la vittoria dei democratici.

 

Mi ha colpito l’intervista a un cittadino americano preoccupato del crescente clima di tensione in un Paese attualmente molto diviso in cui gli estremisti si apprestano a usare le armi che purtroppo abbondano negli USA.

 

Qualche giorno fa ho ritrovato una vecchio filmato di un nostro amico americano sugli USA dei vecchi tempi, quando il cosiddetto american dream ancora aleggiava nell’immaginario collettivo come una speranza di benessere, ricchezza, libertà, democrazia nelle mille possibilità di realizzare se stessi a livello lavorativo, sociale, umano.

 

L’imponente Statua della Libertà che accoglieva migranti e rifugiati politici nel porto di New York era l’emblema del sogno. La significativa poesia, The New Colossus (chiaro riferimento al Colosso di Rodi) dell’ebrea Emma Lazarus, scritta sulla base della statua, dava il benvenuto a tutte le persone che arrivavano là con la speranza di migliori condizioni di vita.

 

Guardando le immagini del filmato ho ripercorso il cammino del “sogno americano”, soprattutto in quel tratto che mi riguarda più da vicino, dagli anni ’50 fino ai nostri giorni. I ricordi mi riportano ai tempi lontani in cui da bambina vidi nel porto di Napoli navi cariche di emigranti tra i quali c’erano anche zia Nicoletta e i suoi figli, i nostri parenti poveri. Per loro un giorno mia madre, che aveva una bella voce da soprano, incise su un disco la nostalgica canzone Santa Lucia e la inviò a loro, a New York. Ogni tanto i parenti da noi chiamati “gli americani” venivano a trovarci e raccontavano storie meravigliose su The Big Apple, la favolosa città nella quale avevano realizzato i loro sogni: un buon lavoro, una bella casa e una vita agiata.

 

Erano gli anni ’50 e noi invece risentivamo ancora degli effetti della guerra e così mi sembravano un po’ strani i racconti degli zii “d’America”: calzini che non venivano mai rammendati ma buttati nella spazzatura come tanti altri oggetti che, benché ancora utilizzabili, venivano presto sostituiti da modelli più nuovi e più belli, una casa piena di elettrodomestici, un televisore a colori con tanti canali, una pubblicità (molto diversa dal nostro Carosello) che interrompeva senza alcun riguardo anche i programmi più seri, caloriferi così potenti da consentire l’uso di abiti estivi in casa anche quando nevicava, la possibilità di avere tante scarpe e vestiti carini a basso costo e così via.

 

Ci regalavano caramelle coloratissime, cioccolato, gomme da masticare e Coca-Cola, cappellini alla Joe Di Maggio, magliette e blu jeans, e noi ci sentivamo tanto americani di Kansas City, come Ferdinando Meliconi, il personaggio interpretato da Alberto Sordi nel film Un Americano a Roma.

 

I loro racconti mi affascinavano, ma mi sembravano un po’ irreali come quel loro modo di parlare alla Stanlio e Olio e, con un pizzico di cattiveria, pensavo che in fondo quei parenti ex-poveri raccontavano un mucchio di fandonie per darsi delle arie.

 

Amavamo, comunque, i cartoni animati di Walt Disney, il jazz e la musica rock, i divi americani e i western con i loro coraggiosi pionieri e intrepidi soldati dalle giubbe blu che combattevano contro gli Indiani.

 

Intanto in Italia bussava alle porte il Boom Economico e con il nascere del consumismo le favole dei parenti americani diventarono realtà anche per noi: la nostra casa negli anni ’60 si riempì di elettrodomestici e di tanti altri oggetti spesso inutili, numerose industrie fiorivano ovunque, la lingua inglese sostituì il francese in molte scuole.

 

Sempre più alta si levò poi la protesta dei giovani negli anni ’60 coinvolgendo tanti paesi. Circolavano nuove idee, film e libri che ci mostrarono un’altra faccia dell’America: “Soldato Blu” di Ralph Nelson ci impressionò con le orribili e violente scene sugli Indiani massacrati a Sand Creek; la sconvolgente realtà della guerra nel Vietnam ci raggiunse attraverso la televisione e giornali; i romanzi di John Steinbeck, come Uomini e Topi e Furore, misero in evidenza stenti e lotte dei braccianti agricoli in California; le dittature militari del Sudamerica evidenziarono gli interessi delle potenti lobby statunitensi, l’assassinio di John Kennedy e Bob Kennedy, la strana morte di Marilyn Monroe, l’uccisione di M.L. King si portarono via le nostre illusioni giovanili sul sogno americano.

 

Nonostante tutto ciò continuavo a desiderare di fare un viaggio negli USA e spesso di notte, in un sogno ricorrente, mi ritrovavo a passeggiare tra i grattacieli di New York. E alla fine il sogno divenne realtà negli anni ’80 e vi andai con la mia famiglia e fu una meravigliosa esperienza. Gli spettacoli naturali imponenti, grandiosi, di una dimensione sconosciuta per noi europei, ci tolsero il fiato.

 

Tutto ci sembrava nuovo e triplicato in grandezza. Il Museo dello Spazio a Washington ci fece stupire con i suoi missili e le prime navi spaziali, come l’Apollo 11 arrivato sulla Luna nel 1969. Lungo le strade dei vari Stati che visitammo, a contatto con la gente, ritrovai allora il mio antico amore per un popolo cordiale, aperto, ottimista e disponibile, sempre pronto ad aiutarci durante il nostro viaggio.

 

Quando nel 1985 vedemmo il film C’era una volta in America, le nostalgiche note di Amapola, ci indussero a spiare con il protagonista, attraverso il buco della serratura, sui quartieri poveri americani brulicanti di ragazzi facili prede dei loro giovani istinti e di una criminalità organizzata sempre attiva in tutti i tempi e luoghi. Ripensai allora a quel viaggio negli USA, un grande paese ricco di aspetti affascinanti e terribili, dalle mille sfaccettature non facili da comprendere.

 

Passava il tempo e nel 1989 la caduta del Muro di Berlino segnò per sempre la fine della Guerra Fredda e l’incontrastato dominio degli USA nelle politiche internazionali, mentre nella civile Europa, in Kosovo, ritornavano gli orrori della guerra.

 

L’Italia, uscita con difficoltà dagli anni di piombo e sempre duramente provata dai conflitti tra i partiti politici, avanzava insieme all’Europa verso il 2000 con preoccupazione per il futuro, mentre in tanti altri paesi del globo imperversavano guerre e dittature di vario genere sotto l’incalzare della globalizzazione.

 

Tutto potevamo immaginare però tranne l’apocalittico 11 settembre 2001. Le immagini delle Twin Towers che si sgretolano, stravolsero il mondo e lo fecero ammutolire. Quel giorno anche nelle strade di Napoli c’era un silenzio insolito, irreale, e lo spettro del terrorismo cominciò ad agire con le sue gelide mani sulle nostre menti col più potente dei mezzi: la Paura.

 

E così guerre si aggiunsero ad altre guerre (guarda caso!) in paesi ricchi di petrolio e altre risorse. Michael Moore, regista e attento osservatore del suo paese e del mondo, in Fahrenheit 9/11, Sycho, Capitalism, my love, ha documentato i mali della nostra difficile epoca.

 

Nel 2009 arrivò quella magica notte in cui restammo svegli davanti al televisore e vedemmo Barack Obama, un afroamericano, diventare Presidente degli Stati Uniti davanti agli occhi pieni di speranza di milioni di persone rivolti verso di lui. Purtroppo un uomo solo non può cambiare un’intera società.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]