contemporanea
IL “SOGNO AMERICANO” IERI E OGGI
COSA È CAMBIATO
di Giovanna D’Arbitrio
Ho scritto
questo articolo stimolata dalle elezioni
americane del 2020, dove nella lotta sul
filo del rasoio tra Biden e
Trump, quest'ultimo ha continuato a
imperversare con le sue minacce
supportate da una schiera di avvocati
per invalidare i risultati dei voti
postali, visto la vittoria dei
democratici.
Mi ha colpito l’intervista a un
cittadino americano preoccupato del
crescente clima di tensione in un Paese
attualmente molto diviso in cui gli
estremisti si apprestano a usare le armi
che purtroppo abbondano negli USA.
Qualche giorno fa ho ritrovato una
vecchio filmato di un nostro amico
americano sugli USA dei vecchi tempi,
quando il cosiddetto “american
dream” ancora aleggiava
nell’immaginario collettivo come una
speranza di benessere, ricchezza,
libertà, democrazia nelle mille
possibilità di realizzare se stessi a
livello lavorativo, sociale, umano.
L’imponente Statua della Libertà che
accoglieva migranti e rifugiati politici
nel porto di New York era l’emblema del
sogno. La significativa poesia, The
New Colossus (chiaro riferimento al
Colosso di Rodi) dell’ebrea Emma
Lazarus, scritta sulla base della
statua, dava il benvenuto a tutte le
persone che arrivavano là con la
speranza di migliori condizioni di vita.
Guardando le immagini del filmato ho
ripercorso il cammino del “sogno
americano”, soprattutto in quel
tratto che mi riguarda più da vicino,
dagli anni ’50 fino ai nostri giorni. I
ricordi mi riportano ai tempi lontani in
cui da bambina vidi nel porto di Napoli
navi cariche di emigranti tra i quali
c’erano anche zia Nicoletta e i suoi
figli, i nostri parenti poveri. Per loro
un giorno mia madre, che aveva una bella
voce da soprano, incise su un disco la
nostalgica canzone Santa Lucia e
la inviò a loro, a New York. Ogni tanto
i parenti da noi chiamati “gli
americani” venivano a trovarci e
raccontavano storie meravigliose su
The Big Apple, la favolosa città
nella quale avevano realizzato i loro
sogni: un buon lavoro, una bella casa e
una vita agiata.
Erano gli anni ’50 e noi invece
risentivamo ancora degli effetti della
guerra e così mi sembravano un po’
strani i racconti degli zii “d’America”:
calzini che non venivano mai rammendati
ma buttati nella spazzatura come tanti
altri oggetti che, benché ancora
utilizzabili, venivano presto sostituiti
da modelli più nuovi e più belli, una
casa piena di elettrodomestici, un
televisore a colori con tanti canali,
una pubblicità (molto diversa dal nostro
Carosello) che interrompeva senza alcun
riguardo anche i programmi più seri,
caloriferi così potenti da consentire
l’uso di abiti estivi in casa anche
quando nevicava, la possibilità di avere
tante scarpe e vestiti carini a basso
costo e così via.
Ci
regalavano caramelle coloratissime,
cioccolato, gomme da masticare e
Coca-Cola, cappellini alla Joe Di
Maggio, magliette e blu jeans, e noi ci
sentivamo tanto americani di Kansas
City, come Ferdinando Meliconi, il
personaggio interpretato da Alberto
Sordi nel film
Un
Americano a Roma.
I loro racconti mi affascinavano, ma mi
sembravano un po’ irreali come quel loro
modo di parlare alla Stanlio e Olio
e, con un pizzico di cattiveria, pensavo
che in fondo quei parenti ex-poveri
raccontavano un mucchio di fandonie per
darsi delle arie.
Amavamo, comunque, i cartoni animati di
Walt Disney, il jazz e la musica
rock, i divi americani e i western con i
loro coraggiosi pionieri e intrepidi
soldati dalle giubbe blu che
combattevano contro gli Indiani.
Intanto in Italia bussava alle porte il
Boom Economico e con il nascere
del consumismo le favole dei parenti
americani diventarono realtà anche per
noi: la nostra casa negli anni ’60 si
riempì di elettrodomestici e di tanti
altri oggetti spesso inutili, numerose
industrie fiorivano ovunque, la lingua
inglese sostituì il francese in molte
scuole.
Sempre più alta si levò poi la protesta
dei giovani negli anni ’60 coinvolgendo
tanti paesi. Circolavano nuove idee,
film e libri che ci mostrarono un’altra
faccia dell’America: “Soldato Blu”
di Ralph Nelson ci impressionò
con le orribili e violente scene sugli
Indiani massacrati a Sand Creek; la
sconvolgente realtà della guerra nel
Vietnam ci raggiunse attraverso la
televisione e giornali; i romanzi di
John Steinbeck, come Uomini e
Topi e Furore, misero in
evidenza stenti e lotte dei braccianti
agricoli in California; le dittature
militari del Sudamerica evidenziarono
gli interessi delle potenti lobby
statunitensi, l’assassinio di John
Kennedy e Bob Kennedy, la
strana morte di Marilyn Monroe,
l’uccisione di M.L. King si
portarono via le nostre illusioni
giovanili sul sogno americano.
Nonostante tutto ciò continuavo a
desiderare di fare un viaggio negli USA
e spesso di notte, in un sogno
ricorrente, mi ritrovavo a passeggiare
tra i grattacieli di New York. E alla
fine il sogno divenne realtà negli anni
’80 e vi andai con la mia famiglia e fu
una meravigliosa esperienza. Gli
spettacoli naturali imponenti,
grandiosi, di una dimensione sconosciuta
per noi europei, ci tolsero il fiato.
Tutto ci sembrava nuovo e triplicato in
grandezza. Il Museo dello Spazio
a Washington ci fece stupire con i suoi
missili e le prime navi spaziali, come
l’Apollo 11 arrivato sulla Luna nel
1969. Lungo le strade dei vari Stati che
visitammo, a contatto con la gente,
ritrovai allora il mio antico amore per
un popolo cordiale, aperto, ottimista e
disponibile, sempre pronto ad aiutarci
durante il nostro viaggio.
Quando nel 1985 vedemmo il film C’era
una volta in America, le nostalgiche
note di Amapola, ci indussero a
spiare con il protagonista, attraverso
il buco della serratura, sui quartieri
poveri americani brulicanti di ragazzi
facili prede dei loro giovani istinti e
di una criminalità organizzata sempre
attiva in tutti i tempi e luoghi.
Ripensai allora a quel viaggio negli
USA, un grande paese ricco di aspetti
affascinanti e terribili, dalle mille
sfaccettature non facili da comprendere.
Passava il tempo e nel 1989 la caduta
del Muro di Berlino segnò per sempre la
fine della Guerra Fredda e
l’incontrastato dominio degli USA nelle
politiche internazionali, mentre nella
civile Europa, in Kosovo, ritornavano
gli orrori della guerra.
L’Italia, uscita con difficoltà dagli
anni di piombo e sempre duramente
provata dai conflitti tra i partiti
politici, avanzava insieme all’Europa
verso il 2000 con preoccupazione per il
futuro, mentre in tanti altri paesi del
globo imperversavano guerre e dittature
di vario genere sotto l’incalzare della
globalizzazione.
Tutto potevamo immaginare però tranne
l’apocalittico 11 settembre 2001. Le
immagini delle Twin Towers che si
sgretolano, stravolsero il mondo e lo
fecero ammutolire. Quel giorno anche
nelle strade di Napoli c’era un silenzio
insolito, irreale, e lo spettro del
terrorismo cominciò ad agire con le sue
gelide mani sulle nostre menti col più
potente dei mezzi: la Paura.
E così guerre si aggiunsero ad altre
guerre (guarda caso!) in paesi ricchi di
petrolio e altre risorse. Michael
Moore, regista e attento osservatore
del suo paese e del mondo, in
Fahrenheit 9/11, Sycho, Capitalism, my
love, ha documentato i mali della
nostra difficile epoca.
Nel 2009 arrivò quella magica notte in
cui restammo svegli davanti al
televisore e vedemmo Barack
Obama, un afroamericano, diventare
Presidente degli Stati Uniti davanti
agli occhi pieni di speranza di milioni
di persone rivolti verso di lui.
Purtroppo un uomo solo non può cambiare
un’intera società. |