L’AMERICA LATINA, UN CONTINENTE IN
FERMENTO
DAI “CHICAGO BOYS” ALLE PROTESTE DEL
2019 - Parte II
di Serena Sonaglioni
Non ci sono altre macroregioni del
globo in cui l’agenda neoliberale è
stata implementata con la stessa
forza devastatrice come in America
Latina: questo accadde soprattutto
perché in nessun altro luogo del
mondo i movimenti di opposizione,
nella particolare forma dei
movimenti sociali, hanno avuto la
stessa tenacia e resilienza.
L’idea di dover liberare le forze
del mercato dai vincoli regolatori
del welfare statale, con
l’obiettivo di tenere lo stato fuori
dal processo di sviluppo, si diffuse
a partire dal Cile in maniera
capillare negli anni ’70 del
Novecento, dapprima nel cono
meridionale e poi nella maggior
parte del Continente: furono le
sconfitte politico-militari della
sinistra in Brasile, Uruguay, Cile,
Argentina e Bolivia a lasciare
spazio all’affermazione delle prime
fasi dei programmi neoliberali.
Tuttavia, la svolta neoliberale si
impose definitivamente quando il
Messico e altre nazioni si
dichiararono incapaci di far fronte
al debito pubblico. In particolare,
la fine del modello di sostituzione
delle importazioni, a causa della
crisi del debito estero del 1982, fu
il passaggio definitivo verso un
nuovo tipo di gestione economica:
questa occasione diede infatti alla
Banca Mondiale e al Fondo Monetario
Internazionale la possibilità di
incalzare per un intervento di
Washington nelle economie dei Paesi
latino-americani fortemente
indebitati.
Questa recessione trasse origine
dagli anni ‘70 quando Brasile,
Argentina e Messico iniziarono a
indebitarsi a causa, da una parte,
dell’aumento esponenziale della
spesa pubblica e, dall’altra, della
disponibilità di prestiti
provenienti da banche internazionali
che, prima dello scoppio della
bolla, sembrava infinita.
La decisione del Messico di
interrompere i pagamenti del suo
debito estero scatenò il panico tra
le banche private, che rifiutarono
le richieste sia di nuovi prestiti
che di rinegoziare quelli vecchi
trascinando le economie
latinoamericane in una spirale
discendente. Di fronte alla crisi
della bilancia dei pagamenti, paese
dopo paese iniziò a firmare accordi
di stabilizzazione con il FMI,
seguiti (dalla metà degli anni ‘80)
dagli accordi di aggiustamento
strutturale con la Banca Mondiale.
In questo clima di panico e di crisi
trovarono, negli anni ‘90, terreno
fertile le politiche del
Washington Consensus che, tra le
altre misure, includevano la
liberalizzazione del commercio e un
vasto programma di privatizzazioni.
Con Washington Consensus si
faceva inizialmente riferimento a un
insieme specifico di politiche di
liberalizzazione del mercato,
sostenute e sponsorizzate dal mondo
politico e tecnocratico di
Washington insieme con le
Istituzioni Finanziarie
Internazionali (IFI - in
particolare, il Fondo Monetario
Internazionale e la Banca Mondiale),
agenzie economiche del governo degli
Stati Uniti, il Consiglio USA della
Federal Reserve e i think tank
di Washington.
Tuttavia, con il tempo il
significato è stato sempre più
esteso e, a oggi, comprende una
gamma notevolmente più ampia di
politiche. Spesso il termine
Washington Consensus viene anche
utilizzato in maniera
interscambiabile con neoliberismo,
dal momento che a Washington ci fu
un’adesione ideologica molto forte
nei confronti del libero mercato,
nella sua versione più
fondamentalista.
Se ne parlò per la prima volta in un
paper dell’economista John
Williamson del 1989, che utilizzò
l’espressione per riferirsi a un
piano di 10 politiche che erano
state pensate per risollevare i
paesi in via di sviluppo – in
particolare l’America Latina – e
profondamente influenzate dalle
istituzioni e dalla politica di
Washington. Williamson riassunse
queste politiche in tre principi:
globalizzazione, economia di
mercato, disciplina fiscale.
Secondo molti critici, queste misure
non produssero i risultati
ipotizzati e la gloria del
Washington Consensus durò giusto
la decade degli anni ‘90, per
iniziare poi repentinamente a
declinare quando la stagnazione
economica, le ripetute crisi
finanziarie (Messico 1994/95,
Brasile 1999, Argentina 2001) e la
crescente disuguaglianza diedero
prova delle inadeguatezze di tali
riforme economiche. Inoltre, sono
state sollevate molte critiche sulla
marginalità attribuita ai temi della
povertà e della disuguaglianza,
nonché sul fatto che non si sia
ricorso a un intervento statale per
aggiustare le imperfezioni del
mercato. La letteratura critica nei
confronti del Washington
Consensus è molto ampia, così
come quella riguardante i suoi
sostenitori e, a oggi, il dibattito
è ancora molto acceso.
Del primo gruppo fa parte anche
Joeseph E. Stiglitz, premio Nobel
per l’economia nel 2001, che ne
La globalizzazione e i suoi
oppositori ha ampiamente
analizzato le falle delle due grandi
istituzioni che hanno sede a
Washington: il Fondo Monetario
Internazionale e la Banca Mondiale,
colpevoli, a suo dire, di aver
imposto il neoliberismo come dogma
mondiale e sotto la forma di una
dottrina molto rigida:
«Il
FMI ha commesso errori in tutti i
campi in cui ha operato: sviluppo,
gestione delle crisi e transizione
delle economie nazionali dal
comunismo al capitalismo. Tali
errori sono riconducibili per
l’appunto al fondamentalismo di
mercato, vale a dire a una rigida
dottrina secondo la quale il mercato
è dotato di poteri di
autoregolazione, a patto che
l’economia sia affidata ai privati,
il commercio non trovi ostacoli
protezionistici e i capitali siano
lasciati liberi di operare scelte
d’investimento sulla base della
logica loro propria, che è il
profitto».
Il continente oggi: proteste e
disuguaglianze
Considerando i dati del report
Realities and Perspectives - Social
Pulse in Latin America and the
Caribbean 2016 pubblicato dall’Inter-American
Development Bank, si può
affermare che l’America Latina, più
che avere problemi con la povertà,
li ha con la disuguaglianza. Negli
ultimi anni, infatti, si è assistito
a un’espansione della classe media
(gruppo sociale che vive con un
reddito compreso tra US 12.4 e 62 $/day)
che, in termini assoluti, è stata la
parte della popolazione ad aver
sperimentato il più grande
cambiamento tra il 2002 e il 2014;
allo stesso tempo, il numero delle
persone povere (ossia che vivono con
un reddito inferiore a US 5$/day;
mentre i vulnerabili sono quelli il
cui reddito è tra i US 4 e 12.4 $/day
e che quindi sono a rischio povertà)
è diminuito di almeno un terzo,
scendendo di 67 milioni e il numero
delle persone vulnerabili ha
registrato lo stesso trend perdendo
almeno 57 milioni di individui.
Nel report si sottolinea come la
crescita economica avvenuta tra il
2002 e il 2014 abbia prodotto
incrementi di reddito in tutti i
gruppi i sociali, ma non in modo
uniforme: infatti, per ogni punto
percentuale di crescita del GDP
per capita, il tasso di povertà
è stato ridotto dello 0.86%, ma la
classe media è aumentata dello
0.88%. Si osserva anche che i
cambiamenti nei segmenti dei redditi
sono stati più pronunciati tra il
2002 e il 2008 piuttosto che tra il
2008 e il 2014.
Generalmente tra il 2002 e il 2014,
la maggioranza di Paesi ha mostrato
miglioramenti nella riduzione del
tasso di povertà e nell’espansione
della classe media, anche se con
risultati eterogenei. Nello
specifico, in nove Paesi la povertà
è stata ridotta più della metà e, in
sei di questi (Argentina, Bolivia,
Ecuador, Paraguay, Peru e
Venezuela), l’ampiezza della classa
media è raddoppiata. In altri Paesi,
invece, come il Guatemala ed El
Salvador, i progressi sono stati
minimi o addirittura inesistenti.
I dati mostrano tre tipi di
performance diversi durante questi
due periodi:
- Paesi come Argentina, Costa Rica e
Venezuela hanno raggiunto risultati
significativi tra il 2002 e il 2008,
ma poi questi risultati hanno subito
un importante declino;
- Paesi con risultati relativamente
bassi o nulli durante i due periodi
(Repubblica Dominicana, Guatemala,
Honduras, Messico, Nicaragua ed El
Salvador);
- Paesi che hanno sperimentato
progressi significativi durante
tutto l’arco temporale considerato
(Brasile, Bolivia, Cile, Colombia,
Ecuador, Panama, Paraguay, Perù e
Uruguay).
Per quanto riguarda la distribuzione
del reddito, si può affermare che
anche l’ineguaglianza sia diminuita
significativamente, ma ciononostante
l’America Latina rimane uno dei
continenti più diseguali del mondo.
Considerando come indicatore il
Coefficiente di Gini, si vede che è
rimasto stazionario nella regione
tra il 1996 e il 2002, anno in cui
ha iniziato a declinare – fino al
2008 – di 4 punti e di 2.7 tra il
2008 e il 2014. Tra il 1996 e il
2002, l’indice di Gini è diminuito
in Brasile, Messico ed El Salvador.
Tra il 2002 e il 2008, invece si è
manifestata una riduzione della
disuguaglianza in tutto il Paese,
con la sola eccezione del Messico
che è rimasto stabile. In Argentina,
Bolivia, Ecuador, Perù e Nicaragua
l’indice di Gini si è ridotto
addirittura di più di 10 punti e in
nove Paesi è comunque arrivato oltre
ai 5. Durante questo periodo, sono
stati registrati decrementi anche
minimi, soprattutto in Costa Rica,
Colombia e nella Repubblica
Dominicana. Dal 2008 al 2014,
l’ineguaglianza ha continuato a
declinare in tutti i Paesi a
eccezione del Venezuela e della
Costa Rica.
Alcuni studi hanno cercato di
spiegare la caduta dell’Indice di
Gini in America Latina e nei
Caraibi. In particolare, Azevedo et.
al in Decomposing the Recent
Inequality Decline in Latin America,per
esempio, mostra che il declino in 14
Paesi tra il 2000 e il 2010 è
avvenuto fondamentalmente a causa di
tre fattori:
- un incremento degli stipendi tra i
lavoratori più poveri che è stato
maggiore rispetto all’aumento di
altri salariati;
- trasferimenti alle famiglie (21%
provenienti da programmi sociali e
9% dalle pensioni);
- cambiamenti demografici (maggiore
presenza nella composizione
famigliare di persone in età
lavorativa piuttosto che di
bambini).
Un altro studio – The Rise and
Fall of Income Inequality in Latin
America – ha invece attribuito i
cambiamenti nelle disuguaglianze,
tra il 1992 e il 2006, all’aumento
nella media di adulti scolarizzati.
Nonostante questi progressi
indubbiamente significativi, il
problema dell’elevato tasso di
disuguaglianza nella regione
persevera, essendo questo uno dei
più elevati al mondo: l’Indice di
Gini complessivo supera di 4 punti
percentuali quello dell’Africa, di
16 quello dell’Europa e dell’Asia
Centrale e, infine, quello della
Cina di più di 11.
Nel grafico, sono stati sintetizzati
alcuni indici di Gini dell’America
Latina e dei Caraibi,
tenendo come parametri di
riferimento l’indice di Gini più
basso
e quello più alto al mondo.
I dati sono stati inseriti in
maniera progressiva, partendo dai
Paesi che hanno l’indice di Gini più
vicino a quello più basso del mondo
(la Slovenia) per finire con quelli
che più si avvicinano all’indice più
alto del mondo, quello del Sud
Africa. Il dato più lontano nel
tempo è quello del Venezuela che
risale al 2006; Nicaragua, Guatemala
e Honduras risalgono, invece, al
2014; Cile, Slovenia, Italia sono
del 2017. Ecuador, Messico,
Nicaragua, Paraguay, Venezuela,
Costa Rica, Guatemala – 2018; El
Salvador, Uruguay, Argentina,
Bolivia, Perù, RepubblicaDominicana,
Panama, Colombia (2019). Personale
rielaborazione di dati della Banca
Mondiale a cura dell’autrice.
Tra la fine di settembre 2019 e
l’inizio di ottobre, un’ondata di
proteste ha iniziato a distendersi a
macchia d’olio in quasi tutto il
continente, partendo dalle strade
dell’Ecuador. La rivolta è sfociata
in una repressione violenta che ha
causato 13 morti, centinaia di
feriti e migliaia di arresti; nelle
stesse settimane, le insurrezioni si
sono propagate anche a Haiti, dove
la popolazione ha manifestato un
asprissimo dissenso contro le
politiche del Fondo Monetario
Internazionale e la conseguente
austerità, approvate dal Presidente
Jovenel Moïse: un tasso di
disoccupazione maggiore del 50%, una
corruzione dilagante, un continuo
impoverimento delle risorse comuni,
l’eliminazione dei sussidi
all’energia per pagare il debito
pubblico hanno portato la popolazione
a insorgere. Il governo ha risposto
con un’azione repressiva che ha
causato 42 morti.
A ottobre è stata la volta del Cile,
in cui l’aumento del prezzo del
biglietto nelle ore di punta della
metro di Santiago ha fatto esplodere
la ferocia della popolazione che
arranca sempre di più a causa di un
costo della vita pressoché
proibitivo per la maggior parte di
essa: “non sono 30 pesos, sono 30
anni”, recitava uno striscione
diventato il simbolo delle proteste.
I militari sono tornati a occupare
le strade; i carabinero sa
sparare sulla folla: repressioni,
torture e coprifuoco hanno fatto, di
nuovo, da padrone. Questa situazione
ha dimostrato quanto l’ombra della
dittatura militare sia stata
ingombrante fino a pochissimo tempo
fa su questa parte di mondo,
considerata il “paradiso del
neoliberismo”, e quanto la
transizione democratica sia, in
realtà, ancora un progetto in
divenire.
Il risultato più importante
scaturito dalle rivolte di ottobre
2019 è stato l’approvazione di un
referendum costituzionale in cui il
popolo è stato chiamato a rispondere
alla domanda: «Quiereusted una
Nueva Constitución?». Il
referendum, dopo alcuni rinvii
causati dall’emergenza da Covid-19,
si è tenuto il 25 ottobre 2020.
Il risultato non ha lasciato spazio
a disquisizioni politiche di nessun
tipo: passato alla storia come “il
plebiscito nazionale”, il 78,2% dei
votanti si è espresso in favore del
sì, decidendo dunque di tagliare
definitivamente una delle pagine di
più tristi della storia del Paese.
Le elezioni boliviane e il golpe nei
confronti di Evo Morales hanno
aperto, a novembre 2019, un’altra
voragine nella politica del
continente che sembra essere tornato
indietro nel tempo tra repressioni,
ingerenza statunitense e colpi di
stato.
Tra le nazioni insorte non è mancata
la Colombia, scossa il 21 novembre
2019 da grandi mobilitazioni di
massa, in cui la scintilla è stata
accesa dalle privatizzazioni delle
imprese pubbliche e dalla
persecuzione, mai davvero terminata,
degli indigeni e degli ex
guerriglieri delle FARC, nonostante
la firma degli accordi di pace.
In Argentina, a differenza dei
precedenti esempi, la rivolta si è
concretizzata attraverso le elezioni
con la vittoria del peronista
Fernandez sulle discutibili
politiche economiche di Mauricio
Macri.
Altre crisi hanno investito anche la
Costa Rica, il Messico e il Perù.
Può essere individuato un comune
denominatore che lega quest’ondata
di rivolte nella frustrazione per le
disuguaglianze e la rabbia per un
modello economico iniquo. In
particolare, è emersa la
disillusione per i governi nati nei
primi anni del nuovo secolo e
generati da potenti movimenti di
massa: mentre infatti nella
propaganda si definivano
progressisti o post neoliberali, si
sono rivelati, nella pratica, dei
cambiamenti meramente formali, ma
non sostanziali.
Prima che le misure ristrettive
connesse alla situazone pandemica da
Covid-19 fermassero gran parte del
mondo, l’America Latina era un
continente in fermento da molto
tempo, in cui si sono succedute
proteste, colpi di Stato, violenze e
crisi cicliche, sia politiche che
economiche. Questo clima in
ebollizione si è dovuto arrestare a
marzo 2020, quando il dilagarsi del
virus e le misure di contenimento
hanno raggiunto anche il continente
sudamericano che, come altre parti
del mondo, è ricorso a chiusure più
o meno totali.
Il virus ha inasprito la crisi
politica e ha sottolineato ancor più
l’inadeguatezza di un sistema
privato esteso nella maggior parte
della regione e in quasi tutti i
settori: dalla sanità
all’istruzione, dalle pensioni alle
risorse naturali.
Uno dei dati più spaventosi
riguardante il Covid-19 in America
Latina riguarda soprattutto la
provenienza sociale dei deceduti: il
tasso di letalità del virus
(morti/positivi) è stato
significativo soprattutto per le
fasce più povere della popolazione
che non hanno accesso alla sanità e
che vivono in condizioni
estremamente precarie.
L’incapacità del gigante del
continente, il Brasile, di gestire
la crisi in modo opportuno – a causa
di molteplici fattori come
l’inadeguatezza dell’ex Presidente
Bolsonaro, la vastità della Nazione,
l’altissima densità demograficae la
presenza di conglomerati urbani,
grandi metropoli e favelas dove la
gente vive in un costante
assembramento – è stato posto sotto
accusa a livello mondiale.
Sono consistenti le evidenze per
poter ragionevolmente pronosticare
un futuro dominato ancora dalle
grandi proteste di strada: la crisi
sanitaria ha, infatti, accentuato
ancor più le disuguaglianze di un
modello economico che ha
inginocchiato e infiammato un
Continente intero.
Sulla partita dell’uguaglianza si
giocherà il futuro dell’America
Latina.
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