AMERICA LATINA,
UN CONTINENTE IN FERMENTO
DAL NEOLIBERISMO AL COVID / I
di
Serena Sonaglioni
Per neoliberismo si intende il
modello economico, sperimentato su
vasta scala, per la prima volta in
Cile con la dittatura militare di
Pinochet e che attualmente domina il
mondo globalizzato. Un sistema per
molti intellettuali ed economisti
dedito tanto alla crescita del PIL,
quanto alla creazione di
disuguaglianze sociali, alle
privatizzazioni, alla libertà dei
mercati e alla depredazione delle
risorse naturali.
L’immagine che abbiamo oggi
dell’America Latina, nella quale fu
implementato “il più grande
laboratorio neoliberista” in Cile, è
quella di un Continente indebolito
dal tasso di disuguaglianza più alto
del mondo e che – con le rivolte –
ha cercato di sanare queste ferite.
Da settembre-ottobre 2019, infatti,
le piazze di Ecuador, Venezuela,
Cile, Argentina, Haiti, Colombia e
altre Nazioni hanno iniziato a
ribellarsi contro una gestione della
politica che, dagli anni ‘60/‘70,
viene pensata e imposta a colpi di
golpe dal vicino gigante
nordamericano.
L’emergenza sanitaria da Covid-19 ha
resa ancora più manifesta
l’inadeguatezza di un sistema che ha
privatizzato qualsiasi settore
dell’economia, portando a una
crescita d’élite e a un
peggioramento delle condizioni di
vita delle fasce più svantaggiate.
Sebbene il numero dei detrattori del
neoliberismo sia cospicuo, resta
aperto un problema, che ha le
dimensioni di una voragine: quando
il dibattito si sposta sulla
questione «Quale sistema per il
futuro?», riaffiorano
prepotentemente le parole di Keynes:
«Il
capitalismo non è intelligente, non
è bello, non è giusto, non è
virtuoso e non produce i beni
necessari. In breve, non ci piace e
stiamo cominciando a disprezzarlo.
Ma quando ci chiediamo cosa mettere
al suo posto, restiamo estremamente
perplessi».
Finché la politica e l’economia non
riusciranno a uscire da quest’impasse
e a pensare a una vera
transizione verso un modello più
giusto, egualitario e virtuoso
(caratteristiche che non possono
prescindere dalla sostenibilità
ambientale che, nello scenario
attuale, sembra essere più una
chimera che un obiettivo) è
probabile che il panorama a cui
assisteremo sarà quello della
stagnazione in una situazione di
crisi di gramsciana memoria: «La
crisi politica è il momento in cui
il nuovo non finisce di consolidarsi
e il vecchio non finisce di morire:
in questo interregno si verificano i
fenomeni morbosi più svariati».
Il neoliberismo in America Latina:
Milton Friedman e i Chicago Boys
Nel 1956 venne firmato un accordo
finanziario tra l’Università
Americana e l’Università Cattolica
del Cile, accordo che sarebbe durato
per otto anni, fino al 1964. Nello
stesso anno, gli Stati Uniti
investirono nei due Paesi
considerati prioritari (Cile e
Guatemala) più di 7 milioni di
dollari per frenare l’avanzata del
comunismo nell’America del Sud e
della sua influenza in quest’area.
L’espressione “Chicago Boys” fa
riferimento a un gruppo di
economisti cileni, formati
all’Università di Chicago nei primi
anni ’70 del Novecento, oppositori
di Salvador Allende e consulenti
economici del regime dittatoriale di
Pinochet, che rispondevano alle
misure contenute nel piano
conosciuto come El Ladrillo
(il mattone), divenuto poi il
programma economico della dittatura;
ossia: privatizzare
le industrie pubbliche, smantellare
lo stato sociale (favorendo la
nascita di un sistema pensionistico
e sanitario privato), attrarre
capitale straniero, eliminare le
barriere doganali e frenare
l’inflazione.
In quegli anni, l’economista Milton
Friedman era il maggior esponente
della scuola economica
dell’Università di Chicago.
Monetarista e neoliberale, venne
insignito del premio Nobel nel 1976.
Sebbene negò sempre un suo
coinvolgimento diretto con il regime
dittatoriale di Pinochet, non evitò
di esternare una certa soddisfazione
per i risultati economici raggiunti
in quel periodo.
In particolare, in un suo intervento
del 1991 dichiarò di non essere mai
stato un consigliere né un
sostenitore di Pinochet, ma
sottolineò anche l’impossibilità di
poter negare che «Il
Cile sia stato un caso in cui un
regime militare, capeggiato da
Pinochet, era disposto a cambiare
l’organizzazione dell’economia da
una performance discendente a una
ascendente. […] Il vero miracolo in
Cile non è stato il funzionamento
delle riforme, sebbene il Cile, a
oggi, sia – con buona probabilità –
la storia di maggior successo
dell’America Latina, piuttosto il
fatto che una giunta militare
permise di farlo. Ho visitato il
Cile, ho conosciuto il signor
Pinochet, ma non ho mai ricevuto
soldi dalla giunta militare.
Tuttavia, dirò che lì vi è stato un
processo che ha condotto a elezioni
democratiche e che ha posto fine
alla dittatura militare: sicuramente
non potete citare nessun altro caso
simile in un Paese socialista.
Quindi, pur non essendo mai stato un
consulente del governo cileno, sono
più che disposto a condividere il
successo del lavoro fatto dai nostri
studenti laggiù».
Pinochet arrivò ai vertici del
potere politico l’11 settembre 1973,
a seguito di un colpo di stato le
cui trame vennero tessute dalle
élite economiche nazionali che
si sentivano minacciate dalle
politiche socialiste promosse da
Salvador Allende, assieme a Henry
Kissinger (consigliere per la
sicurezza nazionale e segretario di
stato degli Stati Uniti), Richard
Nixon (Presidente degli Stati Uniti
d’America dal 20 gennaio 1969 al 9
agosto 1974) e Richard Helms
(Direttore della CIA) per
assicurarsi che il Cile, con
Allende, “non diventasse una fogna”.
Tali affermazioni sono supportate da
una serie di documenti
declassificati e pubblicati – nel
giorno del cinquantesimo
anniversario dell’insediamento di
Salvador Allende – dalla National
Security Archive che
ricostruiscono le trame della
politica di destabilizzazione
attuata in Cile e che avrebbe dovuto
creare le migliori condizioni
possibili per il golpe dell’11
settembre.
La figura di Allende preoccupava – e
non poco – gli Stati Uniti, in
quanto, nel pieno della Guerra
Fredda, dovettero assistere al primo
Presidente marxista democraticamente
eletto della storia dell’umanità.
L’obiettivo era scongiurare il
cosiddetto effetto domino, ancor più
alla luce del fatto che in Italia e
in Francia si stavano affermando i
due grandi Partiti Comunisti
d’Europa Occidentale. Allende era il
simbolo del fatto che la costruzione
del socialismo poteva avvenire anche
a prescindere dalla rivoluzione
armata: per gli Stati Uniti, questo
era un messaggio da arginare nel
minor tempo possibile.
Nella letteratura internazionale, è
molto diffusa l’idea che
l’implementazione delle politiche
neoliberiste in Cile fu un vero e
proprio esperimento: infatti,
l’esecuzione pratica del
neoliberismo economico ebbe inizio
proprio da lì, precedendo
addirittura il caso inglese di
Margaret Thatcher e quello americano
di Ronald Reagan.
Allende arrivò al potere il 3
settembre del 1970 con il 36,2%
delle preferenze e, fin da subito,
accelerò il processo per la
costruzione di una realtà
socialista; gli Stati Uniti, dal
canto loro, misero in campo una
strategia di destabilizzazione
promossa a colpi di embargo,
scioperi pilotati e manipolazioni
dei prezzi del rame (risorsa
strategica del Cile, le cui miniere
vennero nazionalizzate subito dopo
l’elezione di Allende): nello
scenario di un’economia
completamente distrutta, con un
1000% di inflazione e con una forte
carenza di alimenti, fu realizzato
il colpo di Stato.
E con esso si avviò la
trasformazione economica basata
sulle idee di Friedman e Von Hayek:
si aprì alla libertà dei mercati,
l’inflazione fu dominata, si
implementarono misure per la
protezione della proprietà privata,
si diede il via a un vastissimo
programma di privatizzazioni e alla
riforma del sistema pensionistico,
così da ottenere un sensibile
incremento nel breve termine sia del
PILche del PIL pro capite. Per i
neoliberisti, infatti, dall’aumento
del PIL dipendono sia l’aumento del
benessere degli individui che
l’incremento di ricchezza. L’idea di
base è che i benefici derivanti da
un PIL elevato si diffondano su
tutta la popolazione, creando un
maggior benessere per tutti.
L’esperienza dell’America Latina
racconta, però, un’altra storia: i
settori sociali più vulnerabili,
infatti, sono stati esclusi dalla
crescita economica e, mentre alcuni
gruppi sociali vivono in modo
occidentale, vi sono vastissime aree
in cui dilaga la povertà. Il 40%
della popolazione del continente si
considera povera e quasi il 20%
estremamente povera. Inoltre, le
società latino-americane si
contraddistinguono per una
distribuzione del reddito
estremamente polarizzata.
Bisogna inoltre considerare un altro
fattore: i benefici della crescita
non furono appannaggio di tutta la
popolazione. Infatti, l’indice di
Gini (indicatore che dà una misura
della concentrazione della ricchezza
in un determinato Paese e compreso
tra zero e uno: 0 indica massima
uguaglianza, mentre 1 massima
disuguaglianza) – sulla base dei
dati della Banca Mondiale – nel
Cile del 1987 era pari a 56,2.
Infine, il grado di libertà del
mercato era inversamente
proporzionale alla libertà degli
individui, al rispetto dei diritti
umani e a qualsiasi forma di
dissenso nei confronti del regime.
Il grafico sintetizza la crescita
percentuale del PIL dal 1976 al
1989. In questi anni,
la variabile considerata è cresciuta
del 3,83% medio annuo. Con la sola
eccezione degli anni 1982 e 1983,
la
crescita è stata tendenzialmente
costante. A oggi, il Cile è l’unico
Paese dell’America Latina
a far parte dell’OCSE e quello che
registra il PIL pro capite più alto
del continente.
Rielaborazione di dati (<data.worldbank.org>)
a cura dell’autrice.
Il Cile del neoliberismo rimane,
ancora oggi, il Cile delle grandi
disuguaglianze: considerando di
nuovo i dati della Banca Mondiale e
l’indice di Gini, nel 2014-2015, il
Cile era la nazione dell’America
Latina a poter vantare del valore,
riferito a questa variabile, più
alto. Ed è proprio nell’asprezza di
queste disuguaglianze, del costo
della vita pressoché proibitivo per
la maggior parte della popolazione e
nello smantellamento dei servizi
pubblici (misura figlia di quelle
politiche neoliberiste) che va
ricercato il cardine delle proteste
di ottobre 2019.
Tuttavia, a oggi, il Paese è
impegnato in un consistente
cambiamento di rotta: nelle scorse
elezioni del 2021, è stato, infatti,
eletto il nuovo presidente Gabriel
Boric, leader della coalizione
Apruebodignidad, che ha battuto
l’avversario filo-pinochettista
con una maggioranza del 55,8%.
Nel nuovo programma, uno degli
obiettivi più ambiziosi risulta
essere proprio la lotta alle
disuguaglianze. Dopo 32 anni dalla
fine dell’impietoso regime, l’ombra
di Pinochet sembra ormai destinata a
svanire.