N. 12 - Dicembre 2008
(XLIII)
La
Coppa delle cento
ghinee
Storia del più
antico trofeo dello
sport: la Coppa
America
di
Simone Valtieri
Era il
1948, quando il marchese di Anglesey acquistò dall’orafo
Robert Gerrard una coppa in argento, pagandola cento
ghinee. Pochi anni più tardi il trofeo prenderà, con
poca fantasia, il nome di “Coppa delle cento ghinee” e
verrà consegnata ai vincitori di una regata velica
attorno all’isola di Wight. La sua storia inizia il 22
agosto 1851 in una competizione connessa alla Great
Exhibition, la prima Esposizione Mondiale, tenutasi
al Crystal Palace di Londra. Le intenzioni del principe
Alberto, a capo degli organizzatori, sono chiare:
celebrare la supremazia dell’impero britannico nel
mondo, servendosi dello strumento di maggior prestigio a
propria disposizione, ovvero la flotta navale della
Regina. Alla regata, oltre a quattordici imbarcazioni
inglesi del Royal Yacht Squadron, prende parte anche
John Cox Stevens, commodoro e fondatore del NYYC (New
York Yacht Club), alla guida di una goletta (una
particolare imbarcazione con alberi inclinati verso
poppa) chiamata “America”. La sua agile imbarcazione
transiterà per prima sul traguardo, posto a Cowes,
coprendo in poco più di dieci ore e mezzo le 53 miglia
nautiche del periplo isolano. A 18 minuti di distanza
arriva il cutter “Aurora”, penalizzato dalla rotta più
esterna percorsa all’altezza del battello-faro di Mab.
Qui “America” guadagnerà la vittoria passando
all’interno dello stesso, dove i fondali sono più bassi,
e accorciando di un paio di miglia. Il successivo
ricorso dell’imbarcazione inglese per questo guadagno
viene respinto dal Comitato di Regata e il trofeo prende
la strada dello yacht club d’oltreoceano.
La coppa assume così il nome di America’s Cup e
arriva al NYYC sei anni più tardi, l’8 luglio 1857,
accompagnata da un celebre atto di donazione, il Deed of
Gift, a cui è acclusa una particolare clausola: il
circolo detentore del trofeo ha l’obbligo di rimettere
in palio la coppa in un’amichevole competizione velica
tra nazioni a seguito di una sfida mossa dai soci di un
qualsiasi altro yacht club. Il Deed of Gift verrà in
futuro aggiornato con nuove clausole sempre più al passo
coi tempi e considerato come una sorta di regolamento
ufficiale della competizione, interpretato, a onor del
vero, quasi sempre nella direzione favorevole agli
interessi del detentore. I primi a sfidare le
imbarcazioni dello Yacht Club di New York sono, nel
1870, gli inglesi di “Cambria”, una goletta a gabbia di
proprietà di James Ashbury. I britannici saranno anche i
primi a fallire nel tentativo di riportare in patria la
coppa, che nella sua storia non riprenderà mai più la
via di Londra e resterà per ben 132 anni custodita nella
bacheca del circolo velico newyorkese. Nell’occasione la
piccola goletta “Magic” vince facilmente. Guidata dallo
skipper Andrew J. Comstock e di proprietà dell’armatore
Franklin Osgood, percorre più velocemente di tutte le 38
miglia di regata del Long Island Sound, precedendo altre
otto imbarcazioni americane. Al decimo posto si
classificano gli sfidanti di “Cambria”. L’anno
successivo avviene una prima svolta nella
manifestazione: le regate di flotta vengono sostituite
con una sfida a due tra detentore e sfidante. E’ ancora
Ashbury a sfidare Osgood, in una sfida al meglio delle
sette regate, ossia dove la coppa va al vincitore di
quattro gare su sette. “Columbia”, guidato sempre da
Comstock, vince agevolmente le prime due regate e perde
la terza a causa della rottura del timone. Il fair play
inglese consente la sostituzione della barca agli
americani che con uno scafo chiamato “Sappho” portano a
termine la serie vittoriosamente.
Nel 1876 è ancora una goletta del NYYC a mantenere il
trofeo, l’ultima prima del cambio di regolamento che
porrà fine alla storia di queste vincenti imbarcazioni.
“Madeleine” risponderà alla sfida dei canadesi di
“Countess of Dufferin” vincendo per due regate a zero.
Le golette vengono sostituite nel 1881 dai “cutter”,
imbarcazioni dotate di una randa (la vela triangolare di
prua) e almeno due fiocchi. Si riparte con i canadesi
dello Yacht Club di Bay of Quinte, sul lago Ontario, che
sfidano al meglio delle tre regate i detentori
americani. “Mischief”, dotato del primo rudimentale
scafo in ferro, vincerà 2-0 su “Atlanta” e con i suoi
298 metri quadrati di superficie velica sarà il più
piccolo scafo della storia a conquistare la Coppa. Il
cutter sarà la barca ufficiale della Coppa fino agli
anni ’20 del Novecento. Con questa tipologia
d’imbarcazione gli americani risponderanno ad altre nove
sfide provenienti dalle isole britanniche, tre inglesi,
una scozzese e quattro irlandesi.
Erano altri tempi, lontani dalle odierne esasperazioni
regolamentari e degni di nota erano anche alcuni
significativi episodi di fair play. Nel 1885 ad esempio
lo sfidante inglese “Genesta” dell’armatore Sir Richard
Sutton, vinse la prima regata contro il defender
“Puritan” danneggiato dalla rottura di una vela. Lo
stesso armatore inglese chiese ed ottenne la ripetizione
della regata sostenendo che “un gentiluomo inglese non
potesse vincere sfruttando le disgrazie altrui”. Perse
le due successive regate, ma non ne uscì sicuramente
sconfitto. Nel 1895 la seconda sfida del britannico Lord
Dunraven, che assapora la vittoria più di quanto il
netto risultato di 3-0, a favore del defender, possa far
pensare. La sua “Valkyrie III” mette a dura prova la
barca americana grazie a un’imbarcazione costruita con
materiali innovativi e progettata per durare il solo
lasso di tempo della competizione. Dal 1899 e per
vent’anni è il celebre magnate del the, il nordirlandese
Sir Thomas Lipton, a sfidare per ben cinque volte il
NYYC. Non vincerà in nessuna delle occasioni sebbene ci
andrà vicino nel 1920 (3-2 per “Resolute” contro il suo
“Shamrock IV”), ma grazie alla notorietà guadagnata,
porterà a termine quello che era il suo secondario (o
forse principale) scopo, ossia pubblicizzare ed
esportare in America il suo prodotto.
Nel 1930 è la volta di una nuova classe velica, la
cosiddetta Classe J, che rivoluziona il tipo
d’imbarcazione e resta in vigore per il breve volgere di
tre edizioni. Barconi di 40 metri di lunghezza si danno
battaglia a colpi di manovre nelle acque di Newport per
conquistare l’antico trofeo. La prima apparizione della
Classe J coincide anche con l’ultima sfida di Sir Thoms
Lipton che varca per la quinta volta l’oceano con una
sua barca, lo “Shamrock V”. Dalla parte americana sono
in quattro i sindacati iscritti, che si sfidano tra loro
per eleggere il defender ufficiale. Vincerà “Enterprise”,
timonato da Harold S. Vanderblit, discendente di una
centenaria stirpe di armatori e autentico mago nel
manovrare tra le onde, oltre che skipper più vincente
della storia con tre edizioni vinte consecutivamente.
Nell’edizione del 1934 un’ottima figura la fa il
britannico “Endeavour I”, in pratica il vecchio
“Shamrock V” di Sir Lipton, acquistato e rimodernato dal
noto costruttore aeronautico Thomas O.M.Sopwith. Perde
4-2 con un equipaggio di dilettanti autore di molti
errori di interpretazione del vento durante le regate,
dando comunque del filo da torcere a Vanderblit e al suo
“Rainbow”.
Dopo il 1937, passano 21 anni e una guerra mondiale
prima di rivedere in mare due imbarcazioni a contendersi
la Coppa delle cento ghinee. E’ il 1958 quando
l’America’s Cup assiste ad un’altra rivoluzione. Alle
boe di partenza si presentano non più gli ingombranti e
costosi barconi Classe J, ma le agili e veloci “12
metri”. La classe ufficialmente adottata dagli
organizzatori è la 12M J.I., derivata dalla 12 metri già
classe olimpica a inizio secolo e molto diffusa
soprattutto nell’Europa settentrionale. Forti di una
classe velica pressoché sconosciuta agli americani, gli
inglesi del Royal Yacht Squadron lanciano la sfida con “Sceptre”,
fiduciosi di riportare la coppa in patria. Le speranze
dei britannici si infrangono però ben presto contro il
“Columbia”, imbarcazione timonata da Briggs S.Cunningham.
Quattro anni dopo lo skipper dei defender è Emil
Mosbacher Jr, che sconfigge una imbarcazione
proveniente, per la prima volta, dall’emisfero australe,
ossia “Gretel” del Royal Sydney Yacht Squadron. Gli
australiani assaggiano la competizione per la prima
volta in quell’anno, perdendo 4-1 e senza ancora poter
immaginare che, grazie all’esperienza che accumuleranno
in altre sei partecipazioni nel ventennio successivo,
saranno loro i primi a riuscire nell’impresa di portar
via la coppa dalla sua casa di New York. Andando con
ordine, nel 1964 è la volta dell’ultima sfida inglese: “Sovereign”,
che ammaina il suo colorato spinnaker (la vela usata con
il vento di poppa) bianco-rosso dopo sole quattro regate
e altrettante sconfitte. Nel 1967 inizia il lungo
assalto australe alla coppa. “Dame Pattie” da Sydney
sfida “Intrepid”, a detta di tutti il più bel 12 metri
mai varato, e forse anche uno dei più performanti.
“Intrepid” ripeterà il successo nell’edizione successiva
ancora contro una barca proveniente dallo Yacht Club di
Sydney, il “Gretel II”. In questa occasione, ossia nel
1970, viene inaugurata una nuova e importante
tradizione. Per la prima volta il NYYC accetta di essere
sfidato da più nazioni contemporaneamente. Infatti
“Gretel II”, prima di perdere la coppa, aveva
agevolmente sconfitto, nello spareggio tra i due
sfidanti, “France F1”, imbarcazione transalpina del
barone Marcel Bich.
Dall’edizione del 1974 i progettisti degli scafi
abbandonano definitivamente il legno preferendo le più
performanti leghe leggere, soprattutto in alluminio. “Courageous”,
12 metri americano progettato da Olin Stephens, già
matita di “Intrepid”, vince agevolmente contro
l’australiano “Southern Cross”, del Royal Perth YC, e si
ripete tre anni dopo contro “Australia”. Nel 1980 al
timone di “Freedom”, il defender americano che si
aggiudica la coppa, c’è un giovane timoniere proveniente
dalle classe olimpiche, Dennis Conner. Il suo nome
resterà legato per sempre a quello della competizione.
Ne vincerà tre e parteciperà a tutte le edizioni
successive vestendo dal 1995 anche i panni
dell’armatore. Altro nome importante dell’edizione del
1980 è quello dell’armatore australiano Alan Bond, che
alla seconda partecipazione continua a raccogliere
esperienza, vincendo le selezioni degli sfidanti con la
sua “Australia”, rimodernata per l’occasione, e perdendo
la Coppa 4-1 contro la barca di Conner.
L’anno in cui la Coppa America cambia padrone coincide
con la prima sfida italiana nella manifestazione.
“Azzurra”, dallo Yacht Club Costa Smeralda, debutta tra
le acque di Newport con un ottimo risultato,
rivaleggiando quasi alla pari con i più quotati yacht
rivali. L’edizione del 1983 è però quella della
rivoluzione non soltanto per l’esordio di una nazione
come l’Italia, che segnerà passi importanti nella storia
recente della manifestazione, ma soprattutto per un
ulteriore cambio di classe, la 12 internazionale, e per
un secondo aspetto: per la prima volta sarà un munifico
sponsor a patrocinare l’evento, la Louis Vuitton (che
darà anche il nome al torneo di qualificazione dei
challenger, ossia gli sfidanti, mettendo in palio la
omonima coppa, la Louis Vuitton Cup). Il torneo, diviso
in più fasi chiamate “Round Robin”, e in una fase finale
di sfide a due, desta grande interesse per via delle
sette barche al via in rappresentanza di cinque paesi. A
qualificarsi per la sfida valevole per la Coppa America
contro il defender “Liberty”, anch’esso uscito da un
agguerrito torneo di qualificazione e guidato da Dennis
Conner, sarà “Australia II”, di Alan Bond con il giovane
John Bertrand, già tattico di “Australia” tre anni
prima, al timone. In una tiratissima serie finale la
barca australiana ha la meglio per 4-3 sul defender e
per la prima volta nella storia dopo 132 anni la coppa
cambia domicilio. L’Italia chiude la sua prima
partecipazione accumulando esperienza e terminando al
terzo posto tra gli sfidanti. Il più grande risultato
che “Azzurra” e il suo equipaggio, guidato da due bravi
velisti come Mauro Pelaschier e Cino Ricci, ottengono in
quell’anno è però un altro: riuscire a coinvolgere e a
far crescere negli italiani l’interesse per la vela, che
si riscoprono un popolo di navigatori.
L’edizione seguente (1987) vede due barche italiane al
via della Louis Vuitton Cup e ben tredici sfidanti
complessivi. Si naviga nelle acque di Fremantle, vicino
Perth, e l’australiana “Kookaburra III” è il defender
ufficiale. A sfidarla ci sono sei barche statunitensi
ansiose di riportare in patria la Coppa, “Azzurra” e
“Italia” a difendere i colori italiani, “Canada II”,
“French Kiss”, “Challenge France” e “New Zealand” di cui
si intuiscono facilmente le nazionalità e gli inglesi di
“White Crusader”. A dominare i tre Round Robin è “New
Zealand” guidata da Chris Dickson che, dopo aver
dominato in lungo e in largo, perde la finale contro
“Stars & Stripes” della vecchia volpe Conner. La finale
di coppa sarà a senso unico, un monologo a stelle e
strisce, un 4-0 che riporta in America il trofeo,
stavolta nella bacheca del San Diego Yacht Club.
E’ del 1988 la pagina più triste, sportivamente
parlando, di oltre un secolo e mezzo di Coppa America.
Il fair play dei tempi di Sir Richard Sutton è purtroppo
roba d’altri tempi. I neozelandesi, finanziati dal
magnate dell’editoria Michael Fay, trovano un cavillo
interpretativo nel Deed of Gift e fondano uno yacht club
senza fissa dimora, il Mercury Bay Boating Club, armando
un maxi yacht di 133 piedi (circa 40 metri). Come
risposta, il team “Stars & Stripes”, non potendo
competere con un “piccolo” 12 metri né avendo il tempo
di costruire un’imbarcazione di dimensione pari a quella
neozelandese, interpreta anch’esso a suo modo il
regolamento e partecipa con un catamarano ad ala rigida
da 60 piedi. I due consorzi non trovano l’accordo
neanche sul percorso di gara, quindi si decide di
seguire alla lettera il regolamento antico e le due
barche si sfidano al meglio delle tre regate. Non c’è
storia a causa del divario di prestazioni netto tra le
due tipologie di imbarcazione: vince “Stars & Stripes”
2-0 in un’edizione che copre di ridicolo i due
partecipanti, tanto quanto il vergognoso strascico in
tribunale che si conclude nel 1990 con la conferma della
vittoria del team di Dennis Conner che mette in bacheca
la sua terza, non certo la più brillante, America’s Cup.
Dal 1992, dopo la sfortunata parentesi di quattro anni
prima, si cambia ancora. I vari consorzi riescono a
mettersi d’accordo e nasce la IACC, ossia la classe
velica America’s Cup che definisce minuziosamente le
caratteristiche delle imbarcazioni. In pratica si tratta
di barche lunghe 23-24 metri, più agili, veloci e
leggere delle precedenti, costruite in leghe di
materiale composito. Parte l’era della tecnologia, delle
sperimentazioni e dei conseguenti reclami per trovate
ingegneristiche al limite del consentito: appendici
vietate, bompressi irregolari, vele o alberi troppo
leggeri. Vengono introdotti anche gli “umpires”, ossia i
giudici che seguono le barche durante le regate e hanno
il compito di comminare le eventuali penalità in tempo
reale. Nella Louis Vuitton Cup sono otto gli sfidanti,
provenienti da sette nazioni, tra cui una barca
italiana, armata dall’imprenditore Raul Gardini. “Il
Moro di Venezia”, questo il nome della barca dello Yacht
Club “Compagnia della Vela”, fa innamorare gli italiani.
Milioni di persone restano incollate al televisore fino
a tarda notte riscoprendosi esperte di vela. Parole come
boma, tangone, bolina, randa, gomena, lasco, entrano nel
gergo comune dei discorsi da bar, la barca italiana fa
sognare un Paese intero, soprattutto nella finale della
Louis Vuitton Cup, quando in svantaggio di tre regate a
zero sugli esperti neozelandesi timonati da Rod Davis,
riescono a ribaltare il risultato e a vincere per 5-3.
Gli artefici di questa clamorosa rimonta sono il baffuto
timoniere americano Paul Cayard e il tattico Tommaso
Chieffi. Il sogno finisce pochi mesi dopo quando nelle
acque di San Diego il “Moro” non riesce ad avere la
meglio su “America Cube”, armato e guidato da Bill Koch,
perdendo per 4-1.
Nel 1995, a causa della tragica scomparsa di Raul
Gardini, nessun consorzio italiano si presenta al via.
La novità più importante è il cambiamento di regole sul
percorso da affrontare che rimarranno tali anche in
futuro. Scompaiono infatti i lati di lasco e di
traverso, ossia quelli caratterizzati dal vento
prevalentemente laterale, rimangono in un percorso
“andata-ritorno” da fare tre volte, le andature di poppa
e di bolina, ossia a favore e contro vento. I sette
consorzi sfidanti vedono quattro barche australi sulle
sette totali alla partenza, che si sfidano nelle acque
del Pacifico con spinnaker e jennaker griffati dai loro
sponsor: il prezzo da pagare con l’avvento della
televisione. A trionfare nella Louis Vuitton Cup sarà
“Black Magic”, guidata dal bravissimo neozelandese
Russel Coutts, proveniente dalle classi olimpiche.
Parallelamente e nelle stesse acque si svolge la Citizen
Cup, ossia la selezione tra i defender. A prevalere è la
vecchia imbarcazione di “Stars & Stripes”, grazie
specialmente all’abilità e ai rischi corsi
dall’equipaggio guidato da Paul Cayard. Grazie ad alcune
pieghe del regolamento, viene consentito all’equipaggio
di Cayard di cambiare barca e di schierare nella finale
di coppa la più veloce “Young America”, su cui avevano
trionfato nella sfida decisiva della Citizen Cup.
L’epilogo è però un monologo neozelandese, 5-0 in una
finale al meglio delle nove regate, e la Coppa si sposta
ad Auckland.
Le ultime edizioni della Coppa America sono
caratterizzate da un sempre più costante utilizzo della
tecnologia, fortunatamente ancora oggi vietata a bordo
delle imbarcazioni. Le regate, notoriamente difficili da
seguire in tv a causa della mancanza di punti di
riferimento in mare aperto, sono rese di immediata
comprensione anche per il pubblico televisivo. Vengono
inventate nuove tecnologie, come il Virtual Spectator,
un programma informatico che grazie al segnale
satellitare restituisce, come in un videogioco,
l’immagine delle imbarcazioni in gara sullo schermo,
aggiungendo parametri grafici in tempo reale che rendono
immediata la percezione dell’andamento della regata. La
tecnica sempre più affinata dei timonieri e il fiuto,
quello davvero antico, dei marinai più navigati, rendono
le gare estremamente combattute. La fase di partenza
diventa cruciale e gli skipper si specializzano sempre
di più nel “corpo a corpo”, tentando tramite manovre
complicate e spettacolari, di far comminare penalità
agli avversari fin dalla partenza.
In questo contesto rifiorisce per una terza volta la
passione degli italiani per la vela. La protagonista
delle notti in tv si chiama “Luna Rossa”. La barca dello
Yacht Club Punta Ala di Livorno, armata da Ernesto
Bertelli e timonata dal napoletano Francesco De Angelis,
vince l’edizione 2000 della Louis Vuitton Cup perdendo
la finale di Coppa America 5-0 contro i neozelandesi di
“Black Magic”, e battagliando da protagonista anche
nelle due successive edizioni, dove sarà affiancata da
altre due imbarcazioni italiane: “Mascalzone Latino”
prima e “+39” poi. Nel 2003 Russel Coutts diventa il
terzo timoniere a vincere tre America’s Cup, stavolta in
modo ancor più storico, perché alla guida di una barca
svizzera, “Alinghi”, armata dall’imprenditore italiano
Ernesto Bertarelli e con sede sul lago elvetico di
Ginevra. La coppa, non potendosi disputare per
regolamento in un bacino chiuso, trova casa a Valencia
nel 2007, dove “Alinghi”, guidata dall’esperto americano
Ed Baird, vince il secondo titolo consecutivo sui
neozelandesi dello skipper Dean Barker.
La Coppa America appare oggi agli occhi di tutti come un
circo milionario, che al pari dei più seguiti sport del
globo è alla ricerca di consensi sempre più ampi in giro
per il mondo. All’ultima edizione hanno partecipato
anche imbarcazioni di yacht club cinesi, spagnoli e
sudafricani, e nel periodo intercorso tra l’edizione
precedente e quella del 2007 è stato disputato una sorta
di campionato del mondo itinerante della Coppa America,
in stile Formula 1, con tappe in vari Paesi, punti
assegnati e classifica finale. La data definitiva della
prossima edizione di questa prestigiosa manifestazione è
ancora incerta, a causa di un contenzioso dovuto a
molteplici cause, soprattutto economiche, sorto tra
“Alinghi” e il team americano di “BMW Oracle” che si è
protratto a colpi di avvocati per oltre un anno.
Scongiurato il rischio di una seconda edizione-farsa
dopo quella del 1988, le barche di classe IACC hanno
ripreso gli allenamenti in vista della prossima Coppa.
In una disciplina fatta di passione e di amore per il
mare, dove una carriera non dura il breve volgere di una
giovinezza, ma accompagna i suoi naviganti per una vita
intera, è bello notare come la componente umana sia
ancora fondamentale, e come l’assenza a bordo di
dispositivi elettronici di comunicazione e
localizzazione, faccia sì, oggi come allora, che il
merito del successo vada esclusivamente ad esperti
marinai da sempre alla ricerca del vento. |