N. 112 - Aprile 2017
(CXLIII)
LA CULTURA DELL’AMBIENTE NEL MONDO
ANTICO
LE RANE, LO STAGNO, LA TERRA - PARTE
V
di Paola Scollo
Nel
corso
del
V
secolo,
con
l’oltrepassamento
del
limes
da
parte
di
popolazioni
germaniche
nei
territori
dell’impero
romano
d’Occidente,
ossia
nella
penisola
iberica,
in
Gallia,
in
Britannia,
in
Italia
e
nell’Africa
settentrionale,
ebbe
inizio
una
nuova
epoca.
Franchi,
Visigoti,
Burgundi,
Ostrogoti,
Vandali,
Angli
e
Sassoni
dettero
vita
progressivamente
ai
cosiddetti
regni
romano-barbarici
che,
di
fatto,
sostituirono
l’antica
auctoritas
imperiale.
La
società
che,
al
termine
di
questo
periodo,
ne
derivò
fu,
almeno
alle
origini,
dicotomica:
profonde
differenze
di
carattere
linguistico,
religioso,
sociale
e
culturale
intercorrevano
tra
dominatori
e
dominati.
L’integrazione
fu
un
processo
lungo
e,
spesso,
complesso.
La
Chiesa
ebbe
un
ruolo
centrale
nell’incentivazione
o
meno
dell’integrazione
tra
barbari
e
popolazioni
locali,
soprattutto
nei
territori
delle
Gallie
e
della
penisola
iberica.
Qui,
infatti,
poteva
esercitare
maggiori
pressioni
sui
sovrani
di
stirpe
germanica,
prevalentemente
ariani,
e
Franchi,
in
prevalenza
pagani.
Con
la
diffusione
del
cristianesimo
e,
in
particolar
modo
del
monachesimo
nelle
regioni
rurali
dell’Occidente,
tale
mutamento
fu
irreversibile.
Mentre
il
mondo
romano,
così
come
in
precedenza
quello
greco,
si
era
interrogato
sul
problema
del
rapporto
tra
l’uomo
e la
realtà
che
lo
circondava,
quindi
su
quale
fosse
il
modo
più
adeguato
di
convivere,
l’uomo
del
medioevo
era
coinvolto
in
altre
riflessioni.
Con
ogni
probabilità,
all’origine
di
tale
divergenza
è da
porre
la
precarietà
dell’epoca.
L’Europa
tra
VI e
VII
era
indubbiamente
meno
florida
del
periodo
precedente.
Le
invasioni
barbariche
avevano,
infatti,
determinato
una
crisi
della
produzione
agricola
con
l’immediata
conseguenza
della
diminuzione
del
volume
degli
scambi
commerciali.
Inoltre,
la
crisi
politica
generata
dalla
frantumazione
dell’autorità
imperiale
pose
un
freno
alle
relazioni
tra
Occidente
e
Oriente,
determinando
un
impoverimento
della
parte
occidentale.
Tratto
caratterizzante
del
paesaggio
dell’Alto
Medioevo
era
la
foresta,
ambiente
incolto
dove
la
vegetazione
cresceva
spontaneamente.
Il
termine
deriva
dall’espressione
latina
forestis
silva,
usata
all’epoca
di
Carlo
Magno
per
designare
luoghi
riservati
al
sovrano
per
la
caccia.
Il
termine
silva
indicava
propriamente
la
selva,
dunque
un
ambiente
selvaggio.
L’unione
al
qualificativo
foresta,
connesso
a
sua
volta
a
foras,
fuori,
suggeriva
l’idea
di
uno
spazio
inaccessibile
per
chiunque
non
fosse
autorizzato
dal
sovrano.
Nell’immaginario
collettivo,
la
foresta
divenne
simbolo
di
un
luogo
impenetrabile,
a
tratti
oscuro,
abitato
da
presenze
inquietanti
e
temibili.
Tuttavia,
si
trattava
di
una
risorsa
indispensabile
per
i
contadini
per
il
reperimento
del
legname
utile
per
la
costruzione
di
abitazioni
e di
utensili,
per
il
riscaldamento
e la
preparazione
di
cibi,
per
la
lavorazione
di
ceramica,
mattoni,
vetro
e
metalli.
A
tal
proposito,
è
bene
ricordare
che
Carlo
Magno
emanò
leggi
finalizzate
alla
protezione
e
alla
tutela
del
patrimonio
forestale
e
boschivo.
Fu
dunque
compito
degli
stati
provvedere
allo
sfruttamento
di
foreste
e
boschi.
In
seguito,
a
partire
dalla
seconda
metà
del
IX
secolo,
si
giunse
a
una
situazione
di
sostanziale
equilibrio
tra
zone
coltivate
e
zone
boschive.
Dall’XI
secolo
in
poi
la
geografia
della
vegetazione
europea
venne
progressivamente
modificata
dall’ampliamento
delle
zone
coltivate
a
discapito
di
quelle
lasciate
incolte.
In
sintesi,
mentre
l’oriente
bizantino
appariva
florido
e
ricco,
la
pars
Occidentis
affrontava
una
fase
di
decrescita
anche
demografica.
In
particolare
il
calo
demografico
dovette
influire
sullo
sfruttamento
dell’ecosistema
le
cui
risorse,
al
contrario,
in
epoca
romana
erano
state
ampiamente
sfruttate.
Immediata
conseguenza
fu
la
diffusione
di
un
atteggiamento
di
chiusura
nei
confronti
di
chi
non
apparteneva
alla
propria
città
o al
proprio
villaggio.
Per
tali
ragioni,
è
plausibile
immaginare
che
l’uomo
medievale
avesse
attenzioni
nei
confronti
dell’ambiente,
pur
essendo
immerso
nell’ambiente
stesso.
Anzi,
dato
il
dilagante
senso
di
precarietà,
è
probabile
che
egli
percepisse
la
realtà
circostante
come
una
forza
ostile.
In
questo
periodo
le
gerarchie
ecclesiastiche
furono
impegnate
su
più
fronti:
evangelico,
volto
alla
diffusione
dei
precetti
del
cristianesimo;
politico-amministrativo,
in
qualità
di
veri
e
propri
funzionari
dell’amministrazione
imperiale;
culturale,
ossia
nella
conservazione
e
nella
trasmissione
della
cultura
classica.
Uno
studio
attento
delle
testimonianze
in
nostro
possesso
indica
chiaramente
che
ogni
riferimento
al
“creato”,
quindi
alla
natura,
non
è da
intendere
come
riflessione
sul
rapporto
tra
uomo
e
natura
ma,
piuttosto,
sull’azione
creatrice
divina.
Si
può
dunque
affermare
che
lo
sguardo
dell’uomo
medievale,
fortemente
influenzato
dal
cristianesimo,
fosse
rivolto
verso
l’alto,
non
verso
la
Terra.
Illuminanti,
a
tal
proposito,
sono
le
parole
di
Agostino:
«La
pagina
sacra
sia
il
libro
che
ti
consente
di
vederle.
Nei
codici
le
possono
trovare
soltanto
coloro
che
sanno
leggere;
nella
totalità
del
mondo
può
leggere
anche
l’ignorante»
(Enarratio
in
psalmos
45,
7).
È
evidente
qui
come
la
natura
sia
vista
quale
espressione
di
una
Verità
che
la
precede.
Il
mondo
si
presenta,
infatti,
come
un
libro
capace
di
svelare
segni
di
significati
trascendentali.
Ben
interpreta
dunque
Leclerq
quando
scrive:«[…]
Nel
Medioevo,
come
nell’antichità,
a
differenza
di
oggi,
si
legge
abitualmente
non
tanto
con
gli
occhi,
ma
con
le
labbra
e
con
le
orecchie,
pronunciando
cioè
la
parola,
esprimendola
e
ascoltando
quel
che
si
pronuncia,
intendendo
così
le
voces
paginarum.
In
questo
modo
la
lettura
è
una
vera
audizione:
legere
significa
nello
stesso
tempo
audire;
non
si
comprende
se
non
quello
che
si
sente».
Il
cristianesimo,
in
buona
sostanza,
pensava
alla
natura
come
all’insieme
dell’habitat
biologico
e
cosmico
che
costituiva
l’ambiente
dell’uomo,
nel
quale
egli
era
immerso
e
con
cui
entrava
in
simbiosi
con
il
suo
corpo
in
una
relazione
viva
e in
costante
dialogo.
Discorsi
sull’importanza
della
natura
e,
più
in
generale,
sull’ambiente
vennero
inevitabilmente
visti
come
privi
di
senso
per
il
fine
ultimo
dell’umanità
tutta,
che
era
quello
di
tendere
a
Dio.
Per
concludere,
vivere
immersi
nella
natura
e
far
parte
di
essa
non
furono
temi
al
centro
dell’attenzione
né
delle
gerarchie
ecclesiastiche
né
dei
cristiani.
Essi
dovevano
perseguire
la
salvezza:
si
sentivano
parte
integrante
del
Corpo
Mistico
più
che
della
natura.
Le
questioni
inerenti
all’ambiente
sarebbero
riemerse
nel
basso
Medioevo,
quando
Francesco
d’Assisi
vide
nella
natura
una
meravigliosa
creazione
di
Dio.