N. 146 - Febbraio 2020
(CLXXVII)
Il
cuio
e la
polvere
Nel
mito
delle
Amazzoni
all’assalto
della
Storia
di
Maria
Rosaria
Ambrogio
“Consideriamo
incompleta
una
storia
che
si è
costituita
sulle
tracce
non
deperibili”.
Questa
perentoria,
autorevole
affermazione
compare
insieme
ad
altre
sessantaquattro
sui
muri
di
Roma
e di
Milano
nel
luglio
del
1970:
è
l’affissione
del
Manifesto
di
Rivolta
femminile,
azione
militante
che
segna
e
apre
un’appropriazione
autonoma
di
spazi
d’espressione.
In
questa
azione
“politica”
il
linguaggio
dei
sessantacinque
punti
è
chiaro,
inequivocabile,
essenziale.
Traccia
una
linea
netta
tra
il
Prima
e il
Dopo.
Muove
dall’azione
stessa
e
chiama
contemporaneamente
ad
agire.
Quest’azione
dirompente
coinvolge
il
Passato.
Affronta
la
Storia:
cosa
e
come,
nei
millenni,
è
stato
scritto?
Quale
narrazione
della
Storia
è
stata
“fissata”,
dunque
tramandata?
E
ancora:
per
Storia
s’intende
una
narrazione
unica?
Tra
quelle
tracce
a
rischio
deperimento,
a
rischio
esaurimento
della
loro
energia
nutritiva,
sono,
da
millenni,
i
Miti.
Originari
di
un
mondo
dove
la
parola
non
conosce
ancora
la
dimensione
rigida
della
scrittura,
i
miti
recano
con
sé
l’ampiezza
dell’immaginario
e
del
non-definitivo
che
pertengono
all’oralità.
È
questa
possibilità
di
lettura
e
rilettura,
di
correlazione
degli
elementi
alla
base
del
mito,
che
garantisce
la
vitalità
della
narrazione,
mai
de-finendola
in
una
narrazione
chiusa.
Piuttosto,
la
possibilità,
attraverso
la
narrazione
orale,
di
variare,
diversificare,
aggiungere,
re-interpretare.
Attorno
a
elementi
spesso
rintracciabili
nella
realtà,
ogni
mito
crea
i
suoi
significati
ogni
volta
che
è
narrato.
Non
è il
mito
a
mutare,
ma
il
punto
di
vista
di
chi
legge
o lo
ri-legge.
Tanto
antico
quanto
attuale.
Se
la
narrazione
rimane
mono-narrazione
il
mito
contribuisce
a
stabilire
parametri
e
modelli.
È lì
che
il
mito
perde
“potenza”,
“possibilità”
narrativa.
L’azione
che
precede
la
parola,
l’esistenza
stessa
che
corrisponde
al
diritto
a
uno
spazio
autonomo
di
espressione,
l’importanza
di
un
corpo
libero
di
autodeterminarsi,
la
fierezza
di
un’alterità,
di
non
conformismo
ai
modelli,
alle
norme,
ai
ruoli.
Sono
questi
gli
elementi
alla
base
del
mito
delle
Amazzoni.
Un
tratto
già
distintivo,
questo
nome
collettivo
plurale,
che
colpisce
l’immaginario
e
segna
un
precedente
troppo
poco
ripercorso,
almeno
fino
a
quel
luglio
del
1970
dopo
Cristo:
«Le
donne
saranno
sempre
divise
le
une
dalle
altre?
Non
formeranno
mai
un
corpo
unico?»
si
chiedono
le
parole
di
Olympe
de
Gouges,
non
a
caso
scelte
a
introduzione
dei
sessantacinque
punti
del
Manifesto.
Corpo
unico
e
variegato,
le
Amazzoni
lo
sono.
Vivono
separate
dagli
uomini,
non
abitano
case,
ma
tende.
L’essenzialità
del
proprio
spazio
di
vita,
e
quel
tratto
mobile,
re-movibile,
dell’abitare
in
tenda,
di
chi
non
necessita
centralità
esterne
perché
centrata
su
se
stessa.
E su
una
causa
collettiva.
Tanto
salde
quanto
inarrestabili,
tanto
implacabili
quanto
paritarie,
tanto
analfabete
quanto
sciamane,
tanto
Luna
quanto
marea:
tanto,
da
costituire
Mito.
Le
Amazzoni
giungono
fino
a un
immaginario
lontano,
geograficamente
e
non
solo,
“colpito”
dall’esistenza
di
donne
anche
guerriere:
totalmente
autonome
e
seminomadi.
Dalla
lontana
Scizia,
il
mito
delle
Amazzoni
irrompe
come
un
sommovimento
tellurico
fino
alle
fondamenta
“politiche”
e
sociali
di
quel
lontano,
lontanissimo
mondo
che
si
definisce
“culla
della
civiltà”:
l’antica
Grecia.
Qui,
il
mito
delle
Amazzoni
non
è
più
deperibile,
perde
le
caratteristiche
“fulminee”,
istantanee,
vincola
chi
“legge”.
“Fissato”
in
una
narrazione
ossessiva
di
immagini
scolpite,
“dipinto”
su
forme
ceramiche
con
tratti
che
non
appartengono
alle
Amazzoni,
nella
cottura
che
rende
non
deperibile
l’argilla
di
quelle
forme
ceramiche,
“si
consuma”
anche
e
arde
a
fuoco
vivo
il
confronto
con
l’Altro
da
sé:
l’“eccentricità”.
Ciò
che
esce
dai
canoni,
che
non
trova
posto
in
uno
spazio
mentale
de-finente.
Con
suono
martellante
una
parte
del
genere
umano
scolpisce
stereotipi;
nel
fuoco,
per
secoli,
si
“arma”
la
reazione
verso
chi
conduce
fuori
dal
centro
di
gravità
comune,
ri-tracciando
traiettorie
d’esistenza
e
pensiero.
È
nel
rogo
di
“eccentriche”
ed
“eccentrici”
che
il
genere
umano
manifesta
il
sentimento
che
reagisce
al
non-convenzionale:
la
paura.
Una
paura
ereditata
trasmessa
e
ritrasmessa
su
tracce
non
deperibili,
allo
stesso
modo
delle
forme
ceramiche,
plasma
l’immaginario
collettivo.
Costituisce
eredità,
da
millenni.
La
narrazione
rigida,
immobile
e
immobilizzante,
diviene
l’unica.
L’Ipse
dixit.
Quel
“L’ha
detto
proprio
lui”,
allora
deve
essere
così,
incontestabile.
Su
quali
basi
generali
e
universali,
ancora
oggi,
tuttavia,
non
è
dato
sapere.
Il
passaggio
dalla
narrazione
orale
alla
fissità
della
scrittura
sancisce
le
norme,
le
categorie,
i
parametri,
i
ruoli,
il
conforme
e il
non
conforme.
Su
quei
segni
scritti
e
accuratamente
trascritti
nei
secoli,
su
quell’alfabeto
che
–
escludendo
–
modula
e
scandisce
parole,
desinenze,
lingua
e
linguaggio,
irrompono
le
Amazzoni.
Travolgono
ogni
Ipse
Dixit.
Su
quelle
affermazioni
che
rappresentano
il
“sapere”
antico,
le
Amazzoni
sollevano
la
polvere
di
una
battaglia
collettiva
e
millenaria
delle
donne,
al
punto
da
annebbiare
il
significato
della
parola
“civilità”.
Quella
stessa
“civiltà”
che
afferma
–
scrive
e
trascrive
e
tramanda
–
che
“nella
relazione
del
maschio
verso
la
femmina
l’uno
è
per
natura
superiore,
l’altra
è
comandata,
ed è
necessario
che
fra
tutti
gli
uomini
sia
proprio
in
questo
modo”.
Ipse
dixit:
Aristotele,
nella
sua
Politica,
con
la
cura
di
elencare
le
“qualità”
e le
“virtù”
che
renderebbero
la
donna
conforme
al
modello
ideale.
L’elenco
delle
“qualità”
parte
citando
un
verso
di
Sofocle:
«Alle
donne
il
silenzio
reca
grazia».
Tutt’altro
che
in
silenzio,
tutt’altro
che
immobili,
impetuose
tanto
nel
grido
quanto
nella
furia,
le
Amazzoni
tutte
re-agiscono
con
la
possenza
dei
corpi
e di
ogni
gesto
di
rivolta,
in
un’energia
che
traccia
un’altra
narrazione
dei
corpi
e
dell’ingegno
delle
donne.
Respingono
ai
millenari
mittenti
ogni
narrazione
unica
e
dominante.
Tra
le
tracce
deperibili
che
non
ci
giungono,
ci
sono
l’indignazione
e il
disprezzo
per
quella
Storia
che
non
trasmette
ogni
esistenza
delle
Donne
co-protagoniste
nella
Storia.
Tra
le
tracce
deperibili
che
non
ci
giungono,
ogni
sputo
di
indignazione
sulla
Storia
scritta
e
tramandata
da
millenni
che
insiste
nella
narrazione
di
inferiorità,
imparità,
incapacità
delle
Donne
nel
partecipare
della
vita
politica,
pubblica,
relegate
al
ruolo
procreativo
e
nient’altro
se
non
abitare
lo
spazio
chiuso
della
dimensione
domestica.
“Sputiamo
su
Hegel”:
un
altro
dei
punti
del
Manifesto
Femminile
che
traccia
la
traiettoria
dello
sputo
nel
Tempo
fino
ad
Aristotele,
e
rifiuta
ogni
sistema
sociale
e
“culturale”
discriminante:
non
ne
riconosce
l’autorità.
Resistono,
le
Amazzoni.
E
con
loro
ogni
narrazione
che
di
nuovo
libera
l’immaginario,
che
reagisce
senza
paura,
anzi
ri-conosce
il
diritto
all’espressività
di
un’identità,
a
partire
dalla
persona,
nel
rispetto
dei
corpi,
senza
alcuna
aspettativa
sociale,
travolgendo
ogni
“conformità”.
Respingono
le
Amazzoni,
la
lettura
interpretativa
che
proprio
sui
corpi
esercita
la
discriminazione.
Quella
lettura
greca
dell’origine
del
loro
nome,
che
le
segna
come
“prive
di”,
necessariamente
“mancanti”:
perché
indomabili,
perché
libere,
perché
energiche
nei
corpi,
perché
coraggiose,
perché
non
mogli,
perché
consapevoli
del
proprio
corpo
e
del
proprio
piacere.
Amazzoni,
che
nei
significati
più
prossimi
alle
loro
terre
d’origine
tracciano
invece
nuovi
immaginari,
nuove
possibilità:
se
il
mito
delle
Amazzoni
avesse
tramandato
“le
donne
robuste”
come
etimologia
del
loro
nome
collettivo,
avremmo
forse
immaginato
e
narrato
nei
secoli
un’altra
Storia
a
partire
dai
corpi
delle
donne?
È
nel
coraggio,
tratto
distintivo
delle
Amazzoni,
l’importanza
del
mito
come
“riflesso
individuale
e
collettivo”:
in
quella
possibilità
di
narrare
ciascun*
la
propria
storia,
decostruendo
un’eredità
collettiva
e
ri-narrando
una
Storia
collettiva
con
nuovi
linguaggi
e
nuove
pratiche
realmente
civili:
non
colonizzanti,
non
escludenti.
“Nulla
o
male
è
stato
tramandato
della
presenza
della
donna:
sta
a
noi
riscoprirla
per
sapere
la
verità”.
Punto
–
fondante
–
del
Manifesto
che
chiama
a
un’azione
collettiva,
a un
Noi
capace
di
individuare,
ricercare,
trasmettere
la
presenza
significante
e
significativa
delle
Donne
nella
Storia.
Qui,
ancora,
il
mito
delle
Amazzoni
conduce
in
un
viaggio
tutto
da
esplorare.
In
quella
Storia
prima
che
la
guerra
diventasse
il
linguaggio
dominante,
in
quella
Storia
estromessa
che
il
mito
riflette,
che
se
narrato
e
ri-narrato,
moltiplica
in
eco.
È la
Storia
di
un
mondo
matriarcale,
paritario,
fluido,
non
giudicante
e
non
costringente,
pacifico.
Non
antropocentrico,
non
dominante
sulla
natura
e
sugli
animali.
Quella
Storia
estromessa
che
ha
tracciato
segni
e
non
scritture,
che
riflette
un
abitare
il
mondo
in
ascolto.
Come
avviene
in
una
narrazione
orale,
dove
chi
racconta
e
chi
ascolta
hanno
pari
importanza.
Abbiamo
bisogno
di
conoscere
un’altra
Storia,
abbiamo
bisogno
di
altre
narrazioni,
di
nuove
storie,
di
nuovi
sguardi,
di
nuovi
linguaggi.
Di
narrazioni
che
si
formino
nella
cura
di
alimentare
l’immaginazione.
Nella
cura
di
considerare
anche
ciò
che
non
si
conserva
scritto,
ma è
traccia,
segno,
materiale,
memoria.
Senza
pretesa
di
consegnare
“manuali
dell’esistenza”
ma
strumenti
di
espressività;
senza
saturare
lo
spazio
dell’immaginazione,
piuttosto
nella
coraggiosa
capacità
di
porre
e
porsi
domande
per
conoscere
e
capire:
“Vogliamo
essere
all’altezza
di
un
universo
senza
risposte”.
Riferimenti
bibliografici:
M.R.
Ambrogio,
Il
cuoio
e la
polvere,
con
la
prefazione
di
Rosy
Paparella,
GBEditoria,
Roma
2020.