N. 11 - Novembre 2008
(XLII)
Amarcord dalla
provincia napoletana
Acquafresca
preferiva il Napoli
e veniva in vacanza
a Giugliano
di Antonio Pisanti
Le traversie della guerra
e dello sfollamento dalla città minacciata dai
bombardamenti erano ancora troppo recenti perché da noi,
a Napoli, si potesse pensare di andare in villeggiatura.
Da Giugliano si era rientrati in città da poco, nella
speranza di ritrovare il lavoro e magari la casa,
abbandonata in tutta fretta nel rione popolare troppo
vicino alla stazione ferroviaria e agli impianti
portuali perché ci si potesse sentire al sicuro dalle
incursioni aeree.
Di lavoro ce n’era ben poco e la casa in via Parma era
stata ormai occupata da un altro gruppo familiare. Si
ripiegò così in un appartamento, o, meglio, nella stanza
di un appartamento, utilizzato anche da altre famiglie,
nell’edificio che al Vasto era stato colpito dalle
bombe, all’angolo di via Ferrara-via Brindisi. Il
palazzo era rimasto in piedi a metà: molto
precariamente, ma quel tanto che servì a risolvere
comunque il problema abitativo di qualche centinaio di
persone.
In quelle condizioni ancora tanto lontane dalla
normalità, aiutava ritrovarsi in una zona popolare, tra
strade larghe e piene di sole, dove gli esercizi
commerciali riprendevano lentamente a rifornirsi e ad
animarsi.
Il cortile del palazzo, scarrupato e aperto a tutti, era
la méta preferita dai ragazzini del posto che ne
utilizzavano gli spazi per i loro giochi. Negli
appartamenti, gli impianti idrici ed elettrici
funzionavano quasi tutti e i comignoli portavano fuori i
fumi del carbone utilizzato nelle cucine per le
parsimoniose esigenze giornaliere.
Per noi, ritornare a Giugliano era come andare in
vacanza. Lo facevamo volentieri nel periodo estivo e
durante le ricorrenze festive più importanti dell’anno.
Nonché, ovviamente, a
Pentecoste, quando per la festa della Madonna della Pace
si registrava il rientro dei non residenti, di parenti
ed amici.
Lì, tra l’altro, c’era il vantaggio di poter saggiare
qualche prodotto fresco e genuino fatto in casa
(rinomate anche le salsicce di piazza dell’Annunziata!)
e di assistere al rito bisettimanale del pane impastato
in cucina e cotto nel forno comune del cortile. In
occasione delle festività, vi si cuocevano anche le
pizze, le torte rustiche della tradizione locale,
dolciumi e biscotti, dei quali eravamo ghiotti noi
bambini, ancor più se provenienti da una perdurante
condizione di privazione del superfluo.
Tra di noi c’era Tonino, detto appunto il “napoletano”
perché abitante a Napoli, sebbene potesse vantare
ascendenze giuglianesi da parte di madre e, un po’,
anche di padre, allevato in paese da una sua “mamma di
latte”… Ma Tonino si guardava bene dal rivendicare tali
sue pur note familiarità e si prestava volentieri al
ruolo del napoletano per antonomasia affibbiatogli dai
cuginetti e dagli altri piccoli amici con i quali si
andava a giocare ‘mmiez’o luogo, nella grande corte del
fabbricato in fondo al vico Sorbo, dietro l’Annunziata.
Lì ammirava con interesse e meraviglia gli attrezzi e i
mezzi dei contadini, le trasformazioni delle piante e di
qualche albero nel corso delle stagioni, i tranquilli
movimenti degli animali, ed ascoltava con il loro verso
i rintocchi delle campane della Chiesa dell’Annunziata,
il cui cupolone sovrastava il caseggiato.
Alberi e piante Tonino ne vedeva molti di più quando da
vico Sorbo si andava dallo zio Renato Iommelli,
capostazione della Ferrovia Alifana, in una piccola
stazione allora alla periferia del paese che si
ritrovava al di qua dei campi. La stazioncina di
Giugliano-Villaricca aveva in bella vista, come tutte le
altre di quella antica linea ferroviaria locale, un
orto-giardino, pieno di accoglienti fiori e di frutti,
luogo preferito dai bambini che lì si attardavano a
giocare, ma anche ad osservare in silenzio gli arrivi e
le partenze del trenino in direzione di Napoli o di
Aversa.
Tonino andava volentieri a Giugliano, dove faceva tesoro
di tutte queste opportunità, insolite per un bambino di
città, e si ritrovava, tra l’altro, in un contesto
abitativo più agiato di quello di provenienza, ancora
segnato dalle evenienze postbelliche e familiari. Ma, al
momento del confronto con i bambini locali, non faceva a
meno di far valere le sue “prerogative” di napoletano,
paragonando immancabilmente a suo favore le due diverse
situazioni ambientali. Egli aveva ben pochi vantaggi
strettamente personali da esibire e quindi orientava le
dispute intorno ad impari paragoni tra la realtà
napoletana e quella giuglianese, che col passare
dell’età tendevano ad estendersi ad aspetti sempre più
ampi e complessi.
Ovviamente Tonino metteva in gioco non solo l’esibizione
delle opportunità offerte a lui che stava in città
rispetto a quelle di cui disponevano i suoi coetanei di
Giugliano, che all’epoca era ancora un centro
prevalentemente agricolo, ma anche i disagi ai quali
dovevano far fronte i bambini in paese. Si vantava di
pregi e bellezze della città quasi come se fossero suoi
e il confronto spaziava in tutti i campi, fino ad
inoltrarsi in quello sportivo, dove alle alterne vicende
del Napoli si paragonavano le speranze del Giugliano.
Tonino, tra l’altro, non sapeva ancora che la società di
calcio locale aveva portato il nome di Aurelio Padovani,
il capitano dei Bersaglieri caduto dal balcone di via
Cesario Console a Napoli, con un gruppo di
amici-camerati tra i quali c’era anche suo zio, Antonino
Micillo.
Ma il confronto nel quale Tonino sapeva di poter essere
vincente nelle ricorrenti dispute tra i due mondi che
faceva scendere in campo nelle discussioni di cortile e
poi, ancora, nelle prime passeggiate da ragazzi lungo la
via del corso Campano, non era tanto quello tra le
rispettive squadre di calcio o tra la festa di
Piedigrotta e quella locale di Pentecoste, ma quello tra
le diverse modalità di approvvigionamento delle risorse
idriche, come si direbbe oggi, a Napoli e a Giugliano.
E loro, i ragazzi del posto, sapevano bene quanto fosse
poco agevole procurarsi il prezioso liquido in paese;
anche perché, data la relativa semplicità dell’ingrato
compito, questo finiva quasi sempre per spettare ai più
giovani.
Erano loro che, con fiaschi e damigiane (le bottiglie
erano poco capienti e pericolose e la plastica non
veniva ancora utilizzata per i contenitori), si recavano
a prendere l’acqua all’arrivo delle autobotti in paese o
all’orario previsto, ma non sempre osservato, per
l’uscita del liquido dalle poche fontanine collocate nei
posti strategici prima della costruzione delle forniture
idriche ad uso privato. Erano loro a mettersi in fila
per colmare i vari recipienti da portare a casa per le
riserve quotidiane e ben poco potevano ribattere a
Tonino che vantava la possibilità di approvvigionamenti
domestici senza fatica, nelle quantità e persino nelle
qualità d’acqua desiderate, visto che, diceva, a Napoli
bastava farne scorrere dal rubinetto di casa una certa
quantità perché l’acqua si presentasse più fresca e
gradevole.
La questione, del resto, aveva un fondamento ben noto,
da quando, proprio durante una notte di mezza estate,
ospite, come spesso capitava in quel periodo, a casa dei
cuginetti, Tonino si era svegliato con il desiderio di
bere.
La zia Renata, padrona di casa, non avendo altra fonte
alla quale attingere, si era tempestivamente prodigata
recandosi in cucina ed aveva amorevolmente riempito il
bicchiere dal grande calderone di rame dove era
custodita l’acqua, per portarla al povero assetato. Ma
Tonino l’aveva rifiutata perché dopo l’assaggio iniziale
l’aveva trovata troppo calda. Anche il secondo
bicchiere, riempitogli dalla mamma con qualche vana
speranza di convincimento in più, era stato rifiutato
dopo una puntuale verifica della temperatura ambiente.
Vari ed inutili furono i tentativi di ricerca di
contenitori che potessero esibire una più accattivante
possibilità di esaudire la richiesta che si faceva
sempre più incalzante e inopportuna a quell’ora della
notte, quando ormai tutta la famiglia era stata
svegliata. Il “napoletano” non diceva di avere sete, ma
di volere l’acqua come quella di Napoli e la zia, resa
ancora più premurosa dal disagio arrecato ai vicini
dagli strilli del piccolo che voleva l’acqua fresca,
decise di scendere le rampe di scale in piperno che
conducevano in cortile per raccogliere l’acqua dal
pozzo.
Questa era bensì fresca, ma evidentemente non al punto
giusto immaginato da Tonino che ad ogni sorso continuò a
gridare la sua richiesta di acqua fresca. Riprese poi
finalmente sonno, più per la stanchezza dal lungo
capriccio che per la dichiarata soddisfazione del suo
bisogno, che pur sarebbe dovuta intervenire dopo i
numerosi assaggi, estesi persino alle riserve di qualche
vicino. Non chiese acqua dal frigorifero perché
all’epoca nelle abitazioni i frigoriferi non esistevano.
Tutti avevano sentito “l’acqua fresca, voglio l’acqua
fresca!” e anche quelli che non erano stati svegliati o
non stavano sul posto al mattino seppero e Tonino, che
preferiva il Napoli e veniva in vacanza a Giugliano, per
un bel tempo fu soprannominato “Acquafresca”. |