N. 34 - Ottobre 2010
(LXV)
un'altra me
come una pagina di diario
di Laura Novak
Le
Le
loro
parole
risuonano
nel
bagno.
La
voce
acuta
della
maggiore
come
sempre
sovrasta
quella
composta
della
più
piccola.
Oggi
posso
considerarmi
fortunata.
Esprimerò
un’altra
me,
la
interpreterò
cercando
di
sentirmi
a
mio
agio
e
non
pensare
al
prurito.
Vestirò
quella
odiata
e
nel
contempo
tanto
amata
parrucca,
con
un
accenno
di
sorriso
stanco,
dopo
essermela
fatta
acconciare
dalle
loro
giovani
mani.
Lo
specchio
di
certo
non
mi
aiuta.
Le
loro
parole
forse,
o,
forse,
no.
La
pelle
si è
lentamente
allungata,
le
occhiaie
si
tingono
di
nero,
con
venature
intense
di
blu
e
un’ombra
di
viola.
La
luce
del
bagno,
che
come
in
tutti
i
bagni
sempre
troppo
bianca
e
fluorescente,
riflette
impietosamente
su
quella
desolante
calvizie.
Il
giorno
che
ho
saputo
di
essere
malata,
loro
erano
con
me.
Da
subito
“malattia”
è
stato
il
termine
usato
e
spesso
abusato
dai
medici,
dalle
persone
che
mi
erano
tanto
vicine
e
così
lontane,
dalle
mie
stesse
figlie.
Lo
ricordo
quel
giorno;
nonostante
tentassero
di
nasconderlo
dietro
ad
una
ciocca
di
capelli
lunghi
e
ricci
oppure
dietro
ad
un
paio
di
occhiali
da
sole
incredibilmente
scuri,
quella
parola
ha
scarnificato
loro
e la
loro
patina
melliflua
di
quotidianità.
Quel
termine,
così
generico,
asettico,
semplice
e
immediato,
identifica
un
male
contorto,
oscuro,
sconosciuto,
celato.
Si
può
anche
chiamare
brutto
male,
male
incurabile,
“lunga
malattia”,
“male
del
secolo”.
Le
pagine
dei
giornali,
delle
riviste,
le
righe
dei
libri,
ne
sono
piene.
Nel
2010
resistono
ancora
mezze
frasi
e
sinonimi.
Perché
non
chiamarlo
Tumore,
nella
sua
accezione
maligna,
Cancro.
Si
chiama
Cancro.
In
questa
parola
è
racchiusa
la
sua
essenza
di
noiosa
ed
abitudinaria,
lenta
spietatezza.
Un
marionettista
crudele
che
muove
i
fili
della
tua
vita.
Mi
trovo
a
chiedermi
perché
indossare
una
falsa
identità,
una
donna
dal
trucco
più
pronunciato,
i
capelli
dal
colore
sbagliato,
sempre
troppo
scuri,
meno
radi,
semplicemente
sintetici
e
fingere
nella
vita
quotidiana
di
non
conoscere
quel
fatale
marionettista.
Che
domanda.
La
risposta
è
così
banale
da
essere
imbarazzante:
l’esigenza
di
trovare
il
modo
per
convivere
con
quella
percezione
di
vergogna
per
un
segreto,
taciuto
e
nascosto
al
mondo…
ma
poi
per
quanto
ancora?
Io
lo
so,
la
commiserazione,
la
paura
di
uno
sguardo
compassionevole
fa
paura.
Oppure
essere
osservata,
scrutata
come
a
voler
dire.
Non
si
direbbe…
Io
non
lo
sento,
non
sento
nulla.
Nessuno
lo
percepisce.
Eppure
c’è.
Arriva
strisciando,
vivendo
nel
tuo
corpo
un’esistenza
autonoma…cresce
e
poi
rallenta,
si
ferma
e di
nuovo
si
alimenta.
Una
lunga
ed
estenuante
battaglia
contro
una
parte
infame
di
te.
Non
ha
dato
nessun
risultato
la
prevenzione,
il
mio
stile
di
vita
mai
eccessivo.
Così
poco
rock
and
roll.
Nelle
strutture
in
cui
in
questi
anni
sono
stata
curata,
le
storie
personali
diventano
la
storia
di
una
malattia,
compresa
la
mia.
Sei
identificata
con
un
codice,
sei
una
cartella
clinica
necessaria
ad
innumerevoli
e
spesso
svilenti
consulti
medici.
Sei
una
tipologia,
un
caso
clinico.
Durante
quelle
lunghe
ed
interminabili
ore
di
flebo
velenose,
non
c’è
argomento
che
tenga
il
confronto
della
malattia.
Per
qualche
motivo
nessuno
ha
il
coraggio
di
parlare
con
gli
altri
accanto
a sé
delle
piccole
cose
delle
vita.
Le
più
belle.
I
discorsi
sono
inevitabilmente
tristi,
fatalisti
e
crudeli.
Forse
in
qualche
modo
è
una
forma
di
rispetto
per
l’altro.
Forse,
più
verosimilmente
è il
voler
condividere,
solo
per
qualche
minuto
quelle
domande,
che
ti
assillano
la
mente.
Come
a
dire…mal
comune
mezzo
gaudio.
Eppure
dentro
di
me
continuo
a
ripetermi.
Io
sono
altro,
sono
stata
altro.
Lo
strazio
psicologico
è
l’aspetto
più
complesso.
Ti
paralizza
il
timore
di
divenire
solo
un
campione
medico.
Rimango
in
silenzio.
Ti
inquieta
la
preoccupazione
di
divenire
un
cappio
al
collo
per
tutte
le
persone
che
ti
amano.
Di
nuovo
silenzio.
I
dubbi
sono
tanti.
So
quanto
il
mio
corpo
sia
ancora
un
ottimo
strumento
nelle
mie
mani.
I
medici
non
mi
ripetono
altro.
La
mia
forma,
oltre
questo
“irrilevante”
disastro
umano,
è
perfetta.
Diventerò
nonna
un
giorno.
Di
certo.
Me
ne
rassicurano
sempre
le
mie
due
bambine,
anche
se
nessuna
delle
due
mi
sembra
al
momento
in
procinto
di
rendermi
tanto
felice.
Le
mie
bambine,
ai
miei
occhi
così
belle
e
cresciute,
colme
di
avvenire,
sono
anni
che
costruiscono,
con
fatica,
come
piccole
api
operaie
silenziose
e
taciturne,
un
involucro
in
cui
custodirmi,
in
cui
cullarmi,
quando
il
male
diventa
di
nuovo
pungente
e io
languo
tra
il
letto
e il
bagno.
La
preoccupazione
di
utilizzare
le
giuste
parole,
le
giuste
movenze
ed i
giusti
sguardi
le
schiaccia
nella
paura
di
non
fare,
dire
o
essere
abbastanza
per
la
mia
consolazione.
Mi
chiamo
Amelia.
Nel
mese
di
dicembre
compirò
65
anni
e
sono
malata
di
Cancro.
Non
credo
nella
presunta
delicatezza
di
non
chiedere
mai
l’età
ad
una
donna;
la
mia
non
l’ho
mai
nascosta.
Le
mie
rughe
di
certo
non
posso
cancellarle.
Ieri
ero
un
nome,
una
storia
umana,
a
tratti
anche
avvincente
e
appassionata;
ero
un
tracciato
lungo
più
di
messo
secolo.
Oggi
sono
un
numero,
una
statistica.
Questo
mio
piccolo
stralcio
di
diario
si
deve
ad
un
attimo
di
imprudenza
umana,
una
concessione
di
libertà,
un
improvviso
e
violento
squarcio
sulla
mia
vita
apparentemente
qualunque,
che
custodisce
con
gelosia,
intimo
imbarazzo
e
profonda
malinconia,
un
segreto.
La
mia
esistenza
è
ormai
passata,
sorvolata
su
anni
di
normalità,
rallentata
da
attimi
di
profonda
e
confortante
felicità
ed
accelerata
da
momenti
di
paura,
sconforto
e
amarezza.
18
anni
fa
ero
una
donna,
che
si
sentiva
tale.
I
miei
lunghi
capelli
biondi,
curati,
abbandonati
morbidamente
sulle
spalle,
il
mio
aspetto
avvenente
e
sofisticato,
i
miei
vestiti
ricercati
e la
mia
bellezza
piacente
e
giovanile,
erano,
ipocritamente,
simboli
indiscussi
di
uno
status
sociale.
I
malumori,
le
riserve
emotive
per
una
vita
familiare
chiusa
ed
isolata,
per
le
disattenzioni
di
un
marito
affascinante,
inquieto
e
spietato,
l’incapacità
a
volte
di
gestire
doppi
-
tripli
ruoli
erano
solo
delle
componenti
di
una
mescolanza
eterogenea,
una
donna
adulta
in
continua
evoluzione.
Le
mie
bambine,
rigorosamente
opposte
una
all’altra,
con
sconcertante
e
deliziosa
ingenuità
hanno
spesso
reso
il
mio
ruolo
di
genitore
complesso.
Seppur
da
madre
io
conosca
con
presunta
certezza
il
cammino
giusto
per
loro,
devo
arrendermi
alla
loro
evidente
e
trascinante
esigenza,
comune
a
ciascun
individuo,
di
imboccare
sempre
e
comunque
la
deviazione
sbagliata.
Spesso
anche
palesemente
tormentata.
Con
il
tempo
il
loro
ruolo
familiare,
quello
di
figlie,
si è
potentemente
capovolto;
mentre
prima
essere
figlia
significava
una
costante
e
forsennata
ricerca
della
approvazione
genitoriale,
ora,
mentre
anche
la
secondogenita
si
affaccia
al
30°
anno,
vuol
dire
preoccuparsi,
gestire
ed
passare
al
setaccio
affettivo
le
scelte
dei
genitori.
Per
una
donna
perdere,
lentamente,
il
potere,
la
responsabilità
e
l’immensa
gioia
che
il
ruolo
materno
porta
con
sé,
conduce
ad
un
doloroso
punto
di
arrivo.
Per
le
mie
giovani
donne
ormai,
posso
essere
solo
un
luogo
di
rifugio,
accogliente,
caldo,
amorevole.
A 65
anni
giro
su
me
stessa
e do
un
doloroso
ma
doveroso
sguardo
alle
mie
spalle,
per
rendicontare
nel
mio
passato
presenze
ed
assenze.
Mi
chiedo
che
cosa,
quale
evento
o
circostanza
o
conoscenza
o
momento,
nell’ingranaggio
della
mia
vita
non
abbia
davvero
funzionato.
Un
interminabile
effetto
domino
ha
travolto
tutto,
la
mia
condotta
tanto
ordinaria
e
compostamente
borghese.
Le
mie
figlie,
con
tenacia
e
perseveranza
continuano
a
farmi
da
chiassosa
e
multicolore
colonna
sonora,
un
lato
A ed
un
lato
B di
uno
stesso
disco.
Le
loro
due
anime
diventavano
adulte,
senza
che
io
potessi
arrestarne
il
processo,
accompagnate
da
melodie,
rammarichi
e
delusioni
diversi,
da
gioie
e
pazzie
del
momento,
ematomi
evidenti
e
cicatrici
invisibili.
Le
loro
personalità
sono
sempre
state
per
me
un
magico
osservatorio
sulle
caratteristiche
umane,
una
ruota
panoramica
che
abbraccia
una
stessa
casa,
uno
stesso
nucleo
familiare,
una
stessa
educazione
ed
uno
stesso
tenore
di
vita,
condizioni
che,
per
uno
strano
e
macchinoso
scherzo
del
destino,
rendono,
senza
spiegazione
evidente,
due
soggetti
tragicamente
diversi.
Nella
loro
altalenante
e
battagliero
rapporto
assisto
ogni
tanto
ad
una
tregua,
un
incontro
pacificatore
come
a
Teano,
in
cui
promesse
di
un
futuro
di
unità
e
democrazia
superano
le
mie
aspettative
di
semplice
spettatrice.
Mi
chiedo
allora
se
come
la
mia
mamma,
anche
io
ho
mancato
con
loro
un
tassello.
Ma
di
tasselli
ce
ne
sono
così
tanti
per
costruire
l’armonia
di
una
giovane
donna,
foglio
di
carta
leggero
ed
innocente…come
capire
quale
non
sei
riuscita
a
collocare
nel
tuo
ingrato
lavoro
di
madre,
se
cominci
dal
bianco?
E
quando
o
come
terminare,
se
il
foglio
continua
a
dilatarsi,
restringersi,
modificarsi
o
accartocciarsi?
E’
questo
forse
il
cruccio
che
mi
porterò
via
con
me,
alla
fine
del
percorso?
Poi
arriva,
di
nuovo,
quel
giorno.
Ti
chiamano
a
voce
alta,
in
mezzo
ad
una
stanza
di
un
azzurro
spento
ed
opaco.
Ti
chiamano
per
cognome,
quello
che
si
dice
mantenere
la
dignità
e la
privacy
di
un
individuo.
Percorro
il
corridoio
da
sola,
lo
ripercorro,
di
nuovo,
nel
senso
opposto,
più
confusa
ed
affaticata.
Come
biasimare
chi
ti
attende
all’uscita
e
chi
invece
no?
Seppur
con
gli
anni
le
priorità
sembrano
cambiare
od
evolversi,
nessuno
smette
mai
di
guardare
al
futuro
ed
aspettare,
pazientemente,
tra
le
pieghe
di
una
giornata
qualsiasi,
la
svolta
ad
un’esistenza
tradizionale.
La
mia
non
può
essere
una
diagnosi.