N. 49 - Gennaio 2012
(LXXX)
l'altare della memoria
un ricordo dei caduti di nassiriya
di Giovanni De Notaris
In
un
2011
ricco
di
celebrazioni
per
il
centocinquantenario
dell’unità
d’Italia,
il 2
novembre
un
treno
partito
da
Aquileia
è
stato
accolto
alla
stazione
Termini
di
Roma
dal
presidente
della
repubblica
Giorgio
Napolitano
e da
altre
cariche
dello
stato,
presenti
lì
per
commemorare
il
novantesimo
anniversario
del
viaggio
che
il
treno
con
la
salma
del
milite
ignoto
aveva
compiuto
-
nel
novembre
del
1921
-
per
giungere
fino
alla
capitale.
Il
feretro
sarebbe
stato
poi
tumulato,
con
solenni
onori,
al
Vittoriano,
che
da
quel
momento
avrebbe
assunto
-
nell’immaginario
comune
- il
ruolo
di
altare
della
patria,
simbolo
assoluto
dei
caduti
di
ogni
guerra
e,
chiaramente,
del
lutto
nazionale.
In
realtà,
in
anni
non
troppo
lontani
già
un’altra
importante
commemorazione
si
era
svolta
nel
ventre
del
monumento,
donandogli
tra
l’altro
quel
prestigio
che
gli
spettava,
in
quanto
memoria
storica
della
nazione.
Il
17
novembre
del
2003,
durante
la
presidenza
di
Carlo
Azeglio
Ciampi,
le
alte
cariche
dello
stato
erano
state
chiamate
a
raccolta
al
Vittoriano
per
onorare
altri
caduti,
altrettanto
importanti
come
quelli
della
grande
guerra:
quelli
dell’attentato
terroristico
di
Nassiriya,
nel
sud
dell’Iraq,
ennesime
vittime
della
guerra
al
terrore
globale
varata
dall’ex
presidente
degli
Stati
Uniti
George
W.
Bush.
Come
noto,
all’indomani
dei
disastrosi
attentati
dell’11
settembre
2001,
il
presidente
americano
chiamò
a
raccolta
i
paesi
del
mondo
-
amici
e
nemici
-
per
formare
una
coalizione
necessaria
ad
annullare
la
minaccia
del
terrorismo
internazionale.
Sconvolti
dagli
eventuali
scenari
che
avrebbero
potuto
colpire
chiunque
in
ogni
luogo,
l’Unione
Europea,
la
Russia,
il
Giappone
e
persino
alcuni
stati
mediorientali
decisero
-mettendo
momentaneamente
da
parte
vecchi
rancori
- di
aderire
a
una
prima
coalizione,
che
avrebbe
sostenuto
la
campagna
d’Afghanistan.
Forti
di
questa
prima
vittoria,
del
non
indifferente
consenso
internazionale,
e
della
parziale
latitanza
politica
dell’Unione
Europea,
gli
Stati
Uniti
decisero
di
proseguire
con
l’operazione
Iraqi
Freedom,
con
l’invasione
cioè
del
sempre
odiato
Iraq
di
Saddam
Hussein,
colpevole
a
loro
dire,
non
solo
di
produrre
armi
di
distruzione
di
massa,
ma
anche
di
supportare
il
terrorismo
internazionale,
e di
avere
forti
legami
con
il
leader
del
gruppo
terrorista
al-Qaeda,
Osama
bin
Laden.
Questa
seconda
campagna
militare
però,
non
trovò
lo
stesso
consenso
della
prima,
tanto
che
molti
paesi
aderenti
alla
precedente
coalizione,
decisero
di
negare
il
proprio
supporto
agli
Stati
Uniti,
tranne
alcuni
grandi
paesi
europei,
i
cosiddetti
“willings”,
tra
cui
spiccavano
l’alleato
di
sempre,
cioè
l’Inghilterra,
oltre
che
la
Spagna
e
l’Italia.
L’Italia
inviò
un
contingente
militare
per
una
missione
di
solo
peace-keeping.
Tuttavia
l’operazione
Iraqi
Freedom
così
come
era
stata
prospettata
ai
militari
italiani
giunti
in
Iraq,
mostrò
fin
da
subito
le
sue
anomalie.
La
guerra
non
era
affatto
conclusa,
e
tutte
le
truppe
straniere
erano
considerate,
ovviamente,
dei
bersagli.
La
notizia
del
turpe
attentato
perpetrato
ai
danni
del
contingente,
il
12
novembre
2003,
nella
città
di
Nassiriya,
giunse
in
un’Italia
ormai
poco
avvezza
al
significato
della
parola
guerra,
triste
ricordo
di
un
lontano
passato,
e
apparentemente
incredula.
Ci
si
domandava
come
fosse
potuto
accadere
che
un
contingente
di
pace
fosse
stato
così
barbaramente
colpito,
quando
il
governo
italiano
aveva
più
volte
riferito
ai
giornali,
alle
televisioni
e in
parlamento,
che
l’Italia
era
lì
per
portare
la
pace,
e
non
per
fare
la
guerra.
La
risposta
a
questo
dilemma
non
era
nel
modo
in
cui
quella
missione
veniva
intesa
da
parte
dei
willings,
ma
da
parte
degli
iracheni,
che
consideravano
la
presenza
italiana
parte
attiva
di
una
campagna
militare
d’invasione
in
piena
regola.
Quando,
finalmente,
si
apprese,
in
maniera
chiara
e
trasparente,
che
ben
diciannove
bare,
con
le
salme
martoriate
di
altrettanti
militari
e
civili,
avrebbero
fatto
al
più
presto
ritorno
in
patria,
la
nazione
sconvolta
scoprì
nuovamente
quale
fosse
il
significato
- da
anni
ormai
perduto
nella
memoria
collettiva
-
dell’essere
italiani.
Un
coro
di
condanne
da
quasi
tutte
le
capitali
del
mondo,
da
Washington
a
Mosca,
passando
per
Parigi,
accompagnarono
il
ritorno
in
patria
del
presidente
della
repubblica
Ciampi,
assente
perché
in
visita
ufficiale
proprio
negli
Stati
Uniti.
Ancora
una
volta,
come
il 4
novembre
del
1921,
il
big
bang
del
lutto
nazionale
fu
il
Vittoriano;
da
quella
data
mai
una
cerimonia
funebre
era
stata
celebrata
all’altare
della
patria,
caduto
ormai
tristemente
in
disuso.
Simbolo
perenne
del
dolore
nazionale,
aveva
però
smesso
da
tempo
di
comunicare,
con
il
suo
patrimonio
di
marmo,
i
valori
che
definirono
- e
definiscono
tuttora
-
l’identità
italiana.
Fu
lì
infatti
che,
nel
Sacrario
delle
bandiere,
si
decise
di
commemorare
i
caduti
allestendo
una
camera
ardente,
dove
il
17
novembre
vennero
esposte
le
diciannove
bare
dei
defunti.
Dopo
il
saluto
del
capo
dello
stato,
il
Sacrario
fu
dischiuso
al
pubblico,
con
l’ordine
di
restare
aperto
a
oltranza,
mentre
piazza
Venezia
venne
completamente
chiusa
al
traffico.
Il
lutto
nazionale
-
previsto
per
il
giorno
seguente
-
iniziò
però
già
prima
che
le
salme
giungessero
al
monumento.
Cittadini
giunti
da
ogni
regione
-
quasi
a
voler
ricreare
quel
momento
di
commossa
partecipazione
che
accompagnò
la
salma
del
giovane
soldato
caduto
durante
la
prima
guerra
mondiale
- si
erano
radunati
al
Vittoriano
fin
dal
sabato
15
novembre,
per
testimoniare
il
loro
dolore
con
preghiere
e
fiori;
per
gli
italiani,
in
pratica,
i
funerali
erano
già
iniziati.
Il
18
novembre
le
salme
furono
poi
trasferite
nella
chiesa
di
San
Paolo
fuori
le
Mura,
dove
vennero
celebrati
i
funerali
di
stato,
con
tutto
il
paese
che,
nello
stesso
momento,
si
fermava
per
dieci
minuti.
Questo
triste
avvenimento
ebbe
quindi
un
risvolto
epocale:
il
senso
della
patria
ritornò
prepotentemente
alla
ribalta.
La
camera
ardente
al
Vittoriano
e i
funerali
di
stato
rappresentavano,
per
Ciampi,
“un
attimo
di
concordia
nazionale”,
e il
17
novembre
2003
– al
pari
del
4
novembre
1921
- un
“ricordo
degli
eroi
e
delle
battaglie
della
nostra
storia.”