l’Almanacco Letterario Mondadori del
1928
UN'Interessante (ri)LETTURA
di
Francesco Cappellani
Su una
bancarella di libri usati di un
mercatino domenicale scopro
l’Almanacco Letterario 1928 edito da
Mondadori, ancora intonso. Usando il
tagliacarte, oggetto oramai desueto,
mi si spalancano circa 300 pagine di
testo impreziosite da riproduzioni
di xilografie di Publio Morbiducci e
Benvenuto Disertori, e dalle
riproduzioni di disegni di Picasso,
Anselmo Bucci, Telemaco Signorini e
molti altri. Il tutto arricchito
dalle divertenti caricature di
Guglielmo Guastaveglia, in arte
Guasta, vignettista e giornalista,
direttore del giornale satirico “Il
Travaso delle Idee” dal 1921
fino al 1926, quando la direzione fu
affidata a uno scrittore più
allineato al regime fascista. Guasta
tornerà alla direzione del giornale
nel 1946 abbreviando il titolo della
testata che diviene “Il Travaso”
e sarà popolarissimo nel dopoguerra.
Il
momento storico in cui esce questo
almanacco, stampato alla fine del
1927, che è l’anno a cui si
riferisce, cioè quasi un secolo fa,
è caratterizzato dalle violenze
fasciste, come l’assassinio del
sacerdote Don Giovanni Minzoni nel
1923, le aggressioni ad Amendola e
Piero Gobetti e soprattutto
l’uccisione di Giacomo Matteotti il
10 giugno 1924. Mussolini davanti
alle furiose proteste dei giornali
antifascisti, tra cui
particolarmente “Il Becco Giallo”,
promulga le leggi sulla stampa
codificate nelle “Disposizioni
sulla stampa periodica” della
legge del 31 dicembre 1925 e poi le
leggi “fascistissime” per
l’abolizione dei sindacati e dei
partiti, la creazione della polizia
politica segreta (OVRA) e del
Tribunale Speciale, il confino o il
carcere per gli oppositori. Viene
eliminata ogni possibilità di
dissenso ponendo le basi per
l’inizio di una dittatura intesa a
convincere con la propaganda gli
italiani della bontà del regime e
dando inizio al processo di
mitizzazione della figura del Duce.
Non c’è più spazio per i giornali
d’opposizione democratica: negli
anni 1925-1926 vengono soppressi “Il
Popolo”, quotidiano vicino al
Partito Popolare di don Luigi
Sturzo, “il Mondo” di
Giovanni Amendola, morto nell’aprile
del 1925 dopo un pestaggio fascista,
“La Voce Repubblicana”, “Il
Becco Giallo” e “La
Rivoluzione Liberale” di Piero
Gobetti.
Lo
spettro della spietata censura del
regime e della violenza fisica
esercitata dagli squadristi su molti
intellettuali dissidenti, si
riflettono pesantemente anche
sull’almanacco dove manca un
qualsiasi accenno al fascismo e ai
relativi fatti tragici avvenuti solo
qualche anno prima, come se la vita
culturale italiana di allora non
avesse alcuna relazione con
l’incombere di un regime che si
proponeva di orientare, a partire
dalla scuola, la società italiana
verso dettami antidemocratici. Nel
libro troviamo attente analisi della
produzione letteraria, artistica,
teatrale e musicale in Italia e nei
paesi europei, garbate satire su
alcuni letterati, il tutto senza
però alcun riferimento o
correlazione all’attualità
politico-sociale del momento e alle
derive dittatoriali che gravano
sulla nazione. Leggendo l’Almanacco
si ha l’impressione di trovarsi in
una sorta di limbo, un Olimpo
culturale lontano e avulso dalla
opprimente realtà storica italiana
di quegli anni.
All’inizio leggiamo dei versi
ironici sulla poetessa Ada Negri : “Vanno
i libri d’Ada Negri / benchè tristi
più che allegri / e a lei fruttano
quattrini / bigliettiferi e
argentini” e ancora “La Negri
che Capri / soave ti canta /
sull’onda si ferma / si fissa,
s’incanta / in trance sprofonda”,
conclusi dalla morale finale: “La
ricca sull’onda”. Di altro
livello è l’analisi dell’annata
letteraria in Italia scritta da
Fernando Palazzi che comincia
stroncando il romanzo “La città
terrena” scritto dal noto
critico letterario Francesco Flora
che “ci ha lasciati freddi, e
poco o nulla persuasi [...]. Quello
che più ci dispiace nel libro è la
nessuna novità artistica, e la poca
concludenza di un’opera che è invece
macchinosa e immane, come se dovesse
riformare, almeno, il romanzo
italiano”. Toni invece positivi
riguardano il “non giovanissimo”
Riccardo Bacchelli che con “Il
diavolo a Pontelungo”, romanzo
che l’autore rielaborerà fino
all’edizione definitiva del 1957 e
nel 1982 sarà il soggetto di un
serial televisivo, “ha sorpreso
la critica e l’ha maravigliata
piacevolmente: avvezzi ai pezzi di
grosso calibro e alle pesanti truppe
catafratte del neoclassico, questo
romanzo ci è sembrato agevole e
spigliato”.
Si
parla poi di due volumi “pieni di
nobiltà” di Tommaso Gallarati
Scotti e di Orio Vergani che “ci
assalta impetuosamente con
addirittura tre volumi”, opere
oggi completamente dimenticate.
Interessante è il giudizio sul libro
di Sibilla Aleramo “Amo, dunque
sono”, romanzo epistolare
autobiografico, che ha fatto
scandalo ma ha suscitato anche molta
attenzione: “Sibilla Aleramo è
scrittrice d’ingegno e di gran
vigore rappresentativo, e i critici
non han badato che certe crude scene
han lasciato in loro una
forte impressione, ammettiamo magari
disgustosa, appunto per il rilievo
che ha saputo dare loro l’autrice”.
Vengono poi citati Annie Vivanti,
Salvator Gotta, Lucio D’Ambra che
hanno pubblicato “romanzi
appassionanti o passionali che dir
si voglia, dove cioè l’interesse del
libro è affidato in gran parte
all’intreccio”. Luigi
Pirandello, che il giornale satirico
già soppresso “Il Becco Giallo”
aveva ribattezzato Pi-randello per
la sua inziale fervente adesione al
“randello” fascista, ristampa
nel 1927 un suo vecchio romanzo, “L’esclusa”,
che non convince “mancando del
calore di verità, e di simpatia, e
anche di un qualunque significato
umano”, ma pubblica anche un
nuovo romanzo, “Uno, nessuno,
centomila” che è “Pirandelliano
all’eccesso, e quasi anche la
caricatura del pirandellismo [...]
troppo involuto, niente affatto
limpido, artificiosissimo, monotono,
prolisso”. Siamo ben lontani
dagli elogi sperticati che la stampa
tributerà al commediografo
agrigentino quando sarà insignito
nel 1934 del premio Nobel per la
letteratura. Si accenna poi a due
libri non narrativi ma di
meditazione lirica di Ada Negri (Le
strade) e di Angiolo Silvio
Novaro (Dio è qui) per i
quali però “avremmo desiderato
toni più bassi, un’espressione più
semplice e alla mano. Il lirismo non
è nello stile, ma nell’essenza di
un’opera d’arte”. Poca traccia
di questi e di libri di altri autori
citati nell’Almanacco come Marino
Moretti, G.A.Borgese e Guglielmo
Ferrero è rimasta oggi.
L’analisi della produzione poetica
si apre con una considerazione
pessimistica: “E’ opinione
corrente, e perciò assai accreditata
presso il pubblico, che la poesia in
Italia stia agonizzando di mal
sottile. Dopo la triade Carducci,
Pascoli, D’Annunzio, e dopo gli
esperimenti futuristici e
avanguardistici, alquanto
interessanti in sede storica, pare
che la poesia, in rima e senza rima,
contraddica lo spirito dinamico dei
tempi moderni, né più si faccia
intendere dai comuni lettori. Cioè,
in altre parole, oggi è tempo di
prosa”. Poi però si cita il
fermento che proviene dalle nuove
leve che sentono l’insufficienza
delle estetiche moderne e anche se
il 1927 non presenta importanti
rivelazioni, qualche buon volume
sarebbe apparso sugli scaffali dei
librai. Ma nel lungo elenco dei
poeti giovani, oltre una decina, non
c’è un nome che oggi sia ancora
ricordato. Né si fa menzione di “Ossi
di Seppia”, il capolavoro
assoluto di Eugenio Montale
pubblicato nel 1925 a Torino per le
edizioni Gobettiane di “Rivoluzione
Liberale” e riedito poi a fine 1928
dai fratelli Ribet di Torino.
Lasciando da parte i giovani viene
commentato positivamente il testo
poetico di Ardengo Soffici, “Elegia
dell’Ambra”, e quello di Arturo
Onofri di ispirazione religiosa, “Terrestrità
del sole”. In questa rassegna si
parla di Curzio Malaparte
nell’insolita veste di poeta che nel
libro “L’Arcitaliano”, a cura
di Leo Longanesi, applica “le sue
teorie letterarie e i suoi gusti
reazionari a un chiassoso e saporoso
tipo di cantar popolano, razzente
come uno stornello o come certa
poesia rusticale del sec. XVII”.
Nella saggistica stupisce di trovare
citata, insieme all’opera omnia di
Carlo Dossi e di Alfredo Oriani,
quella dell’antifascista Piero
Gobetti morto l’anno prima, nel
1926, a 25 anni in esilio in Francia
a causa di problemi cardiaci
aggravati dai ripetuti pestaggi
subiti dagli squadristi fascisti.
L’annata artistica, raccontata da G.
Edoardo Mottini, inizia con le
celebrazioni di Rubens “il più
suntuoso pittore dei trionfi carnali
e delle esuberanze del senso”,
la commemorazione del centenario
della nascita di Arnold Boeklin “pittore
duplice, conteso tra la nebulosità
del simbolismo germanico e le nette
affermazioni del panismo latino, fra
Giorgione e la saga, fra Wagner e
Botticelli” e il ricordo di
Francisco Goya “il maggiore genio
di deformazione e ironia amara che
vanti la pittura”. Prosegue con
i contemporanei il pittore romano
Cipriano Efisio Oppo “d’un ardore
vermiglio alla Rubens”, Anselmo
Bucci, il milanese Aldo Carpi e il
ligure Alberto Salietti. Per la
scultura “perdurano il vecchio
realismo muscolare ed esanime e
l’arcaismo di convenzione
francescano e grecizzante. Queste
tirannidi stilistiche non escludono
le riuscite individuali”. Tra i
salvati vengono menzionati Libero
Andreotti e, per i raffinamenti
squisiti della tecnica e della
forma, Adolfo Wildt. Un elenco di
artisti che godono tutt’ora di
ottima fama e buone quotazioni di
mercato.
L’annata musicale, commentata da
Adriano Lualdi, si apre col ricordo
della splendida esecuzione a fine
1926 a Busseto del Falstaff nel
venticinquesimo anniversario della
morte di Verdi, con la direzione di
Arturo Toscanini. Il maestro dirige
nella stagione 1926-1927, alla
Scala, il Don Carlo e il Fidelio di
Beethoven “purissimo capolavoro
di un genio” la cui esecuzione
ha segnato “le ore di più alto
godimento spirituale per il
pubblico, ed un altro trionfo per
Toscanini, interprete sommo”,
mentre Pietro Mascagni dirige la sua
Cavalleria Rusticana e i Pagliacci
di Leoncavallo. Una serie di
rappresentazioni della Compagnia dei
balletti di Diaghileff “non ha
destato nessun interesse: non per le
esecuzioni d’insieme e per
l’individuale bravura delle
danzatrici e dei mimi, sempre
ammirevolissimi, ma per il programma
che, se si toglie L’oiseau de feu di
Strawinski e Cimarosiana su musiche
di Cimarosa, aveva una barba così
lunga da far invidia a quella di
Mosé patriarca”. Ancora alla
Scala, per il centenario della morte
di Beethoven, Toscanini ne dirige le
nove sinfonie “fonte di godimento
indimenticabile per chi ebbe la
fortuna di assistervi”; quattro
anni dopo, nel 1931, il maestro
lascerà l’Italia per gli Stati Uniti
dopo un’aggressione squadrista a
Bologna per essersi rifiutato di
eseguire l’inno fascista
“Giovinezza” prima di un concerto.
Un
lungo articolo di Silvio D’Amico
traccia il profilo dell’annata
teatrale in Italia e all’estero.
Parla del Congresso Internazionale
del Teatro tenutosi sotto le ali
della Società delle Nazioni, con
delegati di tutti i paesi europei,
riportando tra le altre le pungenti
dichiarazione del regista e critico
teatrale russo Alexandr Tairoff, che
reputa il teatro europeo putrefatto
e che le grandi opere di Shakespeare
sono oggi incomprensibili all’anima
del popolo russo “presso il quale
le teorie comuniste sono state
applicate anche all’altra vita:
l’anima umana sopravvive alla morte
ma non personalmente, bensì tornando
nel seno dello Spirito Universale
[...] L’amore oggi non è più
passione romantica per cui si debba
morire e la gelosia è un’impura
sopravvivenza atavica”. Passando
al bilancio del 1927 per l’Italia,
D’Amico premette che capolavori non
se ne sono visti ma parla bene della
novità di Pirandello “L’amica
delle mogli” e dei “Vestiti
che ballano” di Rosso di San
Secondo.
Tra
gli autori nuovi viene citato
Telesio Interlandi, che diventerà
tristemente noto per avere fondato
nel 1938 il quindicinale “La
difesa della razza”, pilastro
della campagna antiebraica del
fascismo, che, con Corrado Pavolini,
ha scritto la nostalgica commedia “Croce
del Sud”. Nel commento finale il
critico D’Amico, parla di sfacelo
spirituale e di nichilismo nello
spirito del teatro italiano: “A
noi pare che cotesta arte novissima
rispecchi senza dubbio il tormento
più o meno comune a una certa élite
di tutti i paesi, ma per la folla le
cose van diversamente. La folla ha
sete di certezza e di fede. E non
ultima fra le cause della cosiddetta
malattia del Teatro d’oggi è il
fatto che, in contrasto col
dichiarato spirito di rinnovamento,
una certezza, una fede, o almeno una
parola capace di risonare nel cuore
di tutti, non c’è quasi mai”. E
conclude sostenendo che la
desolazione e la disperazione
nell’arte drammatica contemporanea,
evidenzia il travaglio di una crisi
profonda. Una crisi, verrebbe da
aggiungere oggi, che contribuirà
all’instaurazione di dittature che
promettendo ordine e sicurezza,
mineranno le democrazie europee nel
decennio successivo.
L’analisi dell’annata letteraria in
Gran Bretagna è affidata
all’anglista e scrittore Mario Praz
che considera uno degli avvenimenti
più notevoli la pubblicazione del
diario di Katherine Mansfield, morta
di tisi a 35 anni a Fontainebleau
nel 1923, già nota in Italia grazie
alle traduzioni dei suoi libri di
novelle che erano state paragonate
come ispirazione e livello
letterario a quelle di Anton Cecov.
Praz sostiene che “la letteratura
inglese possiede solo un altro libro
che possa stare alla pari di questo
diario per la somma di umano dolore
espresso: le lettere di Keats. Ma
questa donna aveva forse un’anima
più indomita: sa di avere i giorni
contati, pure vince il dolore, la
nausea, lo sconforto, e vive solo
per l’espressione della sua arte
[...]. All is well (tutto è bene)
sono le ultime parole del diario”.
Grande è il successo del libro “Revolt
in the Desert”, l’epica
narrazione della campagna d’Arabia,
durante la guerra europea, scritto
da T. E. Lawrence che fu l’anima di
quella impresa. Classificare
Lawrence, dice Praz, è difficile: “è
un condottiero, o un artista, o un
bluffista di genio? In verità c’è in
lui un po’ di tutto, e, in fondo,
non si andrebbe errati vedendo in
lui un tipico esempio di dilettante
di prim’ordine”. Altra novità è
il libro di Virginia Woolf “To
the Lighthouse”, che sarà
tradotto in italiano nel 1934 col
titolo “Gita al faro”, dove
la scrittrice descrive minutamente i
pensieri di gente comune. “Caratteri
presentati attraverso una minuta
registrazione delle infinitesime
vibrazioni psichiche che non sono
una novità dopo l’Ulysses di Joyce”,
però, prosegue Praz “il Joyce,
quello che voleva dire non poteva
dirlo in altro modo; ma la Woolf
avrebbe facilmente potuto,
probabilmente con vantaggio, dacchè
quel suo continuo riportare in forma
indiretta i pensieri dei suoi
personaggi riesce a una monotonia
che altre qualità del libro,
specialmente il profondo senso dello
scorrere del tempo, a stento
compensano”. Per la poesia
vengono citate varie opere tra cui “The
Land” di Victoria Sackville-West,
e, gemma comparsa nei fascicoletti
degli Ariel Poems, “The Journey
of the Magi” di T.S.Eliot.
Parla
poi di G.B.Shaw di cui “gli
italiani avranno visto su tutti i
giornali il suo più intelligente
contributo per quest’anno: le
lettere sul fascismo”.
L’articolo apparve sul Daily News
del 24 gennaio 1927 ed era un inno
al regime e un osanna incredibile a
Mussolini. Gli risponderà
ironicamente Gaetano Salvemini, già
rifugiato in Francia, sul Manchester
Guardian del 19 ottobre 1927 dove
tra l’altro scrive che Shaw “dopo
avere colpito con la sua satira
spietata tutte le istituzioni
sociali, politiche e religiose e
tutti i canoni morali e
intellettuali del nostro tempo,
finalmente ha trovato nel fascismo
il suo ideale di vita civile.
Mussolini è l’uomo al quale il suo
spirito ribelle si arrende”.
Praz
conclude la rassegna citando il
grande successo editoriale in
Inghilterra, oltre 12 ristampe dal
novembre del 1926, del libro dello
scrittore ebreo tedesco Lion
Feuchtwanger “Jew Süss” (Süss
l’ebreo). Ispirandosi liberamente a
questo testo e infarcendolo di
stereotipi negativi sui giudei, nel
1940 Goebbels si impegnerà per la
realizzazione di una pellicola col
medesimo titolo che divenne il più
visto e acclamato film antisemita
della propaganda nazista.
L’annata letteraria in Germania è
magistralmente presentata dalla
scrittrice e traduttrice Lavinia
Mazzucchetti. Si apre con un
accorato ricordo della morte,
avvenuta il 29 dicembre del 1926,
del grande poeta Rainer Maria Rilke
“il più puro e profondo lirico in
lingua tedesca, uno degli spiriti
più nobili e rari dell’aristocrazia
intellettuale d’Europa. Tanto era
schivo da ogni mondano rumore, tanto
era alieno da ogni vanità [...] che
sembra profanazione parlare di lui
mentre si celebra la fiera di vanità
dei viventi”. Ne ricorda gli
indimenticabili “Sonetti a orfeo”
e le “Elegie di Duino”. Dopo
avere citati vari scrittori i cui
nomi oggi non dicono molto, si
sofferma sul libro del cinquantenne
Hermann Hesse “Steppenwolf”
(Il Lupo delle Steppe) che definisce
una grandiosa confessione
fantastico-psicologica chiaramente
autobiografica, “libro complesso
e meno perspicace degli altri di
questo autore: estremo sforzo di
verità di un figlio dei tempi che
vive in ostile esasperazione contro
i tempi”. Tra gli altri autori
più noti, parla con modesto
entusiasmo del libro “Madre Maria”
di Heinrich Mann, fratello del più
noto Thomas, e della “Morte di un
piccolo borghese” di Franz
Werfel. Per la poesia il giudizio
della Mazzucchetti è molto
tagliente: “si scrivono persino,
come Alfred Döblin nel suo “Manas”,
dei poemi cosmici che sanno già di
non avere molti lettori, ma di
segnare tuttavia per una piccola
comunità di fedeli l’unico grande
evento letterario adeguato al
presente in un mondo di cadaveri
ambulanti che ancora si trastullano
con l’analisi e la psicanalisi di
piccoli cuori umani”.
Ettore
Lo Gatto racconta le novità della
letteratura russa nel 1927: tra i
nomi citati emerge quello di Massimo
Gorkij col suo libro “Gli
Artamonov” che “potrebbe
essere qualificato come romanzo
storico in un senso largo della
parola, come cronaca della vita di
varie generazioni”. Gli
scrittori russi, scrive Lo Gatto,
tendono sempre a romanticizzare la
realtà “ma è proprio questo
elemento cha pare non soddisfi la
critica ufficiale, in quanto la
letteratura si allontana così dai
canoni del perfetto marxismo. In
questa discussione si può dire
compendiata la crisi teorica del
romanzo russo nell’Unione sovietica”.
Le
novità francesi sono presentate da
Enrico Piceni. Dopo avere riportato
alcune considerazioni di Anatole
France sulla disperata smania degli
scrittori francesi di arrivare a un
seggio alla “Académie”, che in
passato però era stato negato a
personaggi del livello di Gautier,
Flaubert e Balzac, Piceni spiega che
il clou dell’annata è stato, per il
1927, il centenario del romanticismo
“giacché, a torto o a ragione, la
prefazione al “Cromwell” di Victor
Hugo, che ha visto la luce appunto
nel 1827, è considerata l’atto di
nascita delle “littérature
épileptique”“. Tralasciando le
celebrazioni e i relativi scritti,
si parla della recente produzione di
Jean Giradoux che con “Eglantine”
ha ritrovato “un pretesto per
scrivere pagine di una qualità
delicatissima, e per disegnare a
giochi di ombre e di luci quanto mai
abili una delle sue predilette
figure di giovinetta” e di
François Mauriac che con “Thérèse
Desqueiroux ci ha dato un acuto e
patetico esame di una psicologia
d’avvelenatrice”. Tra gli
scrittori di grande successo
popolare primeggia Maurice Dekobra
con “Flammes de velours”. Nei
libri storici eccelle André Maurois
con “La vie de Disraeli”, un
libro molto bello che rilancia la
moda delle biografie romanzate, dove
si coniuga “lo humour inglese con
l’ésprit francese”.
Per la
poesia si cita di Jean Cocteau con “Opera”
dove “raccoglie i suoi più
recenti funambolismi lirici, piccole
cose ingegnose ma nulla più” e
la raccolta completa delle opere di
Pierre Louys. “Il novissimo
accademico, e poeta-filosofo di moda
Paul Valery non ha pubblicato nulla
di notevole”, mentre la
tradizione francese dei Mémoires e
dei Souvenirs si arricchisce dei tre
volumetti di “Si le grain ne
meurt” di André Gide dove “la
spietata sincerità verso gli altri e
soprattutto verso se stesso,
dell’autore dell’”Immoraliste”, ha
fatto ancora una volta scandalo, ma
al di sopra e al di fuori di ogni
valutazione morale, in terreno
puramente letterario, bisogna
riconoscere che vi sono alcune tra
le più belle pagine non solo di
Gide, ma di tutta la letteratura
francese contemporanea”. Tra le
tante altre opere citate c’è “De
Montmartre au quartier latin” di
Francis Carco che rievoca anche la
geniale e sfortunata vicenda di
Amedeo Modigliani, e le memorie
della ballerina e cantante di
varietà Josephine Baker arrivata nel
1925 a Parigi dagli Stati Uniti.
I
libri italiani tradotti e pubblicati
all’estero comprendono autori come
Ada Negri, Luigi Pirandello, Guido
da Verona, Italo Svevo e Margherita
Sarfatti, all’epoca amante del Duce,
col suo trionfale “Dux” che
esce in Francia col titolo
“Mussolini, l’homme et le chef”“
e in Inghilterra più sommessamente
come “The life of Benito
Mussolini”.
Godibili sono infine gli inserti
pubblicitari, separati dal testo e
raccolti in quinterni di poche
pagine di carta sottile giallina
inframmezzati nel libro, che forse
meglio di ogni scritto ci danno
l’idea di quanto e come sia evoluta
in poco meno di un secolo la civiltà
industriale e i relativi annunci
commerciali. Vediamo una splendida
Isotta Fraschini in competizione con
un cavallo che corre a perdifiato,
la macchina da scrivere Olivetti
Rapidissima che sfreccia su un
binario parallelo a quello dove
corre un treno con la sua maestosa
locomotiva, il grammofono portatile
della Voce del Padrone che
garantisce “riproduzione perfetta
e fruscio nullo”, e poi il
Laboratorio Liquori Berengo Gardin
che, oltre allo zabaione Giovinezza
“vero ricostituente inalterabile”,
presenta il “Liquore antiblasfemo”
approvato dalla Associazione
Nazionale Antiblasfema!
Viene
presentata l’edizione nazionale di
tutte le opere di Gabriele
D’Annunzio in due edizioni di lusso,
una di soli 209 esemplari al prezzo
di 18.000 lire per tutti i 40 volumi
e un’altra di 2501 copie a 6.000
lire. Interessanti sono le molte
pubblicità librarie o di giornali
come “La Fiera Letteraria”
dove “vi scrivono i migliori
autori contemporanei di tutte le
tendenze”, o la réclame della
casa editrice “La Voce”
diretta da Curzio Malaparte “il
più vivace scrittore fascista”.
C’è la pubblicità della rivista
culturale mensile “Il Baretti”
fondata nel 1924 da Piero Gobetti, a
cui collaborarono tra gli altri
Benedetto Croce, Eugenio Montale,
Augusto Monti, Luigi Einaudi e
Giuseppe Prezzolini. Le scelte di
quel periodico erano di carattere
politico e quindi da subito
fortemente condizionate dall’assillo
della censura, come già Gobetti nel
1924 sulla sua rivista “La
Rivoluzione Liberale” aveva
previsto: “In regime di stampa
imbavagliata il vero articolista è
il lettore: egli deve leggere tra le
righe”. Stupisce quindi che
questa rivista antifascista che sarà
soppressa dal regime alla fine del
1928, venga presentata come “La
rivista più indipendente, più
spregiudicata, più intelligentemente
europea d’Italia. Continua nel mondo
delle lettere la tradizione di
serietà e di cultura del suo
fondatore [...] Usa la sferza della
critica senza pietà e senza
pregiudizi”, parole che appaiono
un tardivo e sorprendente
riconoscimento dell’opera di Piero
Gobetti a un anno dalla sua
scomparsa.
Alla
fine dell’almanacco si legge una
intervista al senatore Borletti,
l’imprenditore e poi politico
fondatore nel 1917 de “La
Rinascente”, nome suggerito da
D’Annunzio, che spiega il suo
interesse per l’editoria in quanto “in
Italia non si legge, ciò che vuol
dire che il pubblico, in generale,
rinunzia, spontaneamente o
incoscientemente, al nutrimento
spirituale che gli darebbe la
lettura: il che avviene perché,
finora, nessuno glie ne ha creato il
bisogno. Ecco il problema: creare il
bisogno della lettura [...];
distrutta la miseria, l’elevazione
culturale del nostro popolo, così
segnatamente progredita in questi
ultimi decenni, provocherà il
bisogno della lettura, cioè del
libro, cioè del prodotto industriale
dell’editoria”. Questo diceva
nel 1927, cioè 97 anni fa, un
industriale di successo; a oggi le
sue parole appaiono ancora attuali.