N. 142 - Ottobre 2019
(CLXXIII)
il
Corno
dell'unicorno
alla
ricerca
dell'armonia
dell'infinito
di
Angelo
Viglioglia
Il
Corno
dell’Unicorno,
opera
molto
enigmatica,
è
collocato
all’interno
del
Museo
Civico
Medievale
di
Bologna.
La
Sala
1,
che
lo
ospita
attualmente,
puà
peraltro
apparire
come
un’ubicazione
inopportuna,
fondamentalmente
per
due
motivi.
In
primo
luogo,
la
scultura
è
contenuta
da
una
teca,
che
le
impedisce
di
essere
auratica,
e
la
mortifica
togliendole
ogni
splendore.
In
secondo
luogo,
il
Corno
appare
circondato
da
bacheche
contenenti
reperti
di
vario
genere,
che
confondono
il
visitatore
impedendo
una
corretta
focalizzazione.
Per
comprendere
a
pieno
un’opera
come
il
Corno
dell’Unicorno,
lo
spettatore
non
dovrebbe
essere
distratto
da fattori
interferenti.
Neanche
l’inclusione
della
scultura
in
un
white
cube
sarebbe
stata
la scelta
più
saggia.
In
questo
caso,
il
problema
sarebbe
consistito
nell’assenza
di
contrasto
di
colore.
Non
sarebbe
più
opportuno
porre
il
Corno
in
qualcosa
di
più
simile
alla
Wunderkammer
del
Cardinale
Flavio
Chigi
a
Roma,
in
cui
l’opera
si
trovava
in
origine?
Per
quanto
sia
impossibile
tornare
indietro,
bisogna
quantomeno
cercare
un
luogo
che
restituisca
al
Corno
la
sua
magia,
e
la
visibilità
che
aveva
un
tempo.
Il
Corno
dell’Unicorno
dovrebbe
innanzitutto
suscitare
curiosità
nell’osservatore
affinché
egli
possa
formulare
ipotesi
sul
suo
significato.
Ci
si
potrebbe
interrogare
su
simboli
della
cultura
Classica
cui
esso
potrebbe
alludere
(per
esempio
la
castità),
oppure
fare
appello
alle
teorie
medievali
che
parlavano
di
creature
mitologiche
ritenute
realmente
esistenti
e
identificate
con
animali
veri,
oppure
pensare
all’attribuzione
di
poteri
soprannaturali
a
parti
del
corpo
di
tali
creature.
Insomma,
facendo
appello
ad
antiche
teorie,
effettivamente
verrebbe
da pensare
che
un
Gabinetto
delle
Curiosità
sia
ancora
il
luogo
più
adatto
per
un’opera
di
questo
tipo.
Il
Corno
trasmette
all’osservatore
una
sensazione
che
supera
la
materialità.
Un’altra
delle
sue
caratteristiche
principali
è
quindi
la
meta-spazialità
che
facilita
l’accesso
a
una
dimensione
ultraterrena,
a
una
spiritualità
pura
e
astratta
che
supera
finanche
quella
delle
religioni
tradizionali.
Il
vero
secondo
Comandamento
recita
“Non
fare
immagine
di
me”,
e
può
essere
laicamente
interpretato
come
un monito
contro
la presunzione
dell’uomo
di
raffigurare
lo
spirituale
attraverso
il
materiale
e il
tangibile.
Un
essere
superiore
e
un
mondo
ultraterreno
sono
invece
ineffabili
e irrappresentabili.
Sarà
per
questo
che
il
Corno
è
aniconico?
Potrebbe
essere
associato
a
un’autentica
spiritualità
universale,
una
sorta
di
archetipo
in
grado
di
unire
culture
apparentemente
molto
distanti
tra
loro.
Non
manca
una
forte
componente
poetica
che
ne
fa
un’autentica
raffigurazione
di
un
concetto
astratto
desimbolizzato:
la
purezza,
solitamente
rappresentata
dall’unicorno
stesso,
di
cui
il
Corno
è rappresentazione
sineddotica.
Rivolto
verso
l’alto,
il
Corno
indica
una
dimensione
spirituale
sovrumana,
la vera
essenza
del
mondo
noumenica
cui
solo
i prescelti
e
gli
iniziati
possono
accedere.
Si
potrebbe
dunque
pensare
a una
nuova
ubicazione.
Un
chiostro
silenzioso
o
un
cortile
aperto
sarebbero
l’ideale
per
una
scultura
così
misteriosa
e
affascinante.
Vedere
il
Corno
indicare
direttamente
il
cielo
(senza
mediazioni
di
sorta)
susciterebbe
il
vero
stupore.
Probabilmente,
sarebbe
il
caso
di farlo
tornare
a
Roma,
magari
dentro
i
Musei
Vaticani.
Il
Cortile
Ottagono
potrebbe
essere
un
luogo
adatto?
Al
suo
centro,
coi
quattro
sarcofagi
a
fargli
da
cornice,
il
Corno
avrebbe
un
che
di
spettacolare
e,
per
via
delle
sue
dimensioni
non
proprio
colossali
(1,37
metri
di
altezza),
creerebbe
un
notevole
contrasto
con
le
enormi
sculture
in
marmo,
rappresentanti
ogni
sorta
di
dio
ed
eroe
classico,
ospitate
dalle
arcate
gigantesche.
Sebbene
abbia
analizzato
affascinanti
contrasti
a livello
di
significato
fra
il
Corno
dell’Unicorno
e le
sculture
effettivamente
alloggiate
lì
(iconico
contro
aniconico,
morte
contro
resurrezione,
grande
contro
piccolo,
classico
contro
cristiano),
qualcosa
potrebbe
mandare
a
monte
il
mio
progetto
di
allestimento.
Infatti,
in
mezzo
al
cortile
c’è
una
vasca
decisamente
ardua
da
rimuovere,
e
in
cui
una
scultura
galleggiante
non
avrebbe
alcuna
ragion
d’essere.
E
poi
il
Corno,
privato
della
teca
protettiva,
in
uno
spazio
aperto,
esposto
così
alle
intemperie,
non
avrebbe
vita
facile.
Questo
progetto
di
allestimento
si
poteva
rilevare
una
fantasticheria
irrealizzabile.
Ho
constatato
(dopo
averlo
presentato
ai
miei
colleghi)
che
si
trattava
di
una
fantasticheria
irrealizzabile.
Per
di
più,
gli
archi
del
Cortile
Ottagono
avrebbero
impedito
il
dialogo
dell’opera
con
sculture
colossali
del
calibro
dell’Apollo
del
Belvedere,
del
Perseo
di
Canova
o,
peggio,
della
notissima
Morte
di
Laocoonte.
L’antinomia
grande/piccolo
giocava
decisamente
a
sfavore
del
Corno.
Non
sarebbe
stato
tanto
un
contrasto,
quanto
una
vera
e
propria
sproporzione.
Non
ci
sarebbe
stata,
inoltre,
una
visione
simultanea
di
tutte
le
opere.
Chi
avrebbe
notato
un
nano
in
mezzo
a
tanti
giganti?
Anche
se
gli
archi
non
ci
fossero
stati,
l’osservatore
avrebbe
faticato
moltissimo
a
cercare
il
Corno
in
mezzo
a
tante
statue
alte
almeno
il
suo
doppio.
Non
sempre
il
nano
è
sulle
spalle
del
gigante.
L’ipotesi
che
ho
trovato
provvisoriamente
più
convincente
riguardava
la
Palazzina
dei
Giardini
di
Modena,
una
struttura
chiusa.
Il
Corno
non
avrebbe
avuto
però
molta
visibilità
lì,
confuso
di
nuovo
tra
tante
opere,
disposte
in
una
successione
poco
accattivante.
Si
va
allora
su
un
luogo
che
è
esso
stesso
un’icona:
la
Tribuna
degli
Uffizi,
nucleo
della
più
antica
galleria
d’arte
tuttora
esistente.
Ho
visto
gli
ultimi
due
allestimenti
della
Tribuna:
quello
antecedente
il 2012
e
quello
attuale.
Ricollocando
due
dipinti
che
sarebbero
in
grado
di
dialogare
perfettamente
col
Corno
(Angelo
musicante
di
Rosso
Fiorentino
e
San
Giovannino
nel
deserto
di
Raffaello)
e
ponendoli
rispettivamente
nel
registro
superiore
e
quello
inferiore
della
parete,
creerei
un
percorso
verso
lo
spirituale
analogo
a quello
suggerito
dal
Corno,
che
potrei
collocare
sul
tavolo
ottagonale
di
Ligozzi,
in
una
posizione
decisamente
valorizzante.
Il
tavolo
è da
sempre
all’interno
della
Tribuna.
L’effetto
curioso
che
la
nuova
disposizione
ha
prodotto
in
me
è
che
sembra
che
il
Corno
sia
sempre
stato
lì.
Cioè
che
quel
posto
fosse,
da
sempre,
la
sua
naturale
collocazione.
La
posizione
del
Corno
crea
nuove
connessioni
e
quindi,
per
dirla
con
Obrist,
nuove
conoscenze.
Bisogna
che
una
mostra
o
un’esposizione
creino
nuove
conoscenze
per
essere
efficaci.
Lascerei
al
loro
posto
le
statue
ubicate
intorno
al
tavolo
(copie
romane
da
originali
Ellenistici).
Poiché
esse
rappresentano
divinità
classiche
da
cui
sgorga
un
pathos
che
le
umanizza
totalmente,
l’idea
del
contrasto
con
la
vera
spiritualità,
suggerita
dalla
nostra
scultura,
aniconica
e
protesa
verso
l’alto,
sarebbe
resa
perfettamente.
Nella
sala
la
presenza
del
Corno,
ancora
più
di
prima,
fonde
sogno
e
realtà,
materiale
e
spirituale,
antico
e
moderno,
vivente
e
inanimato.
Un’organizzazione
siffatta
mostra
come
l’arte,
al
pari
della
fantasia,
non
ubbidisce
a
coordinate
spazio-temporali
precise
e
come
solo
la
rottura
delle
barriere
può
farci
percepire
il
mondo
come
effettivamente
è:
infinito.
E
verso
l’infinito,
simboleggiato
dall’aria
della
volta,
il
Corno
si
protende,
e
con
esso
i
due
dipinti
fortemente
allusivi
alla
spiritualità,
che
entrano
nella
coda
dell’occhio
dei
visitatori.
San
Giovannino,
indicando
l’alto
(e
includendo
nel
gesto
anche
il
putto)
mostra
la
via
verso
la
musica
divina.
Sono
stato
ispirato,
nella
decisione
di
utilizzare
i
due
dipinti,
dalla
volta
della
cupola
del
Duomo
di
Spoleto,
nella
quale
Signorelli
ha fatto
riferimento,
attraverso
una
complessa
simbologia,
alla
possibilità
di
vedere
la
perfezione.
Se
la
Tribuna
fosse
nuovamente
accessibile
ai
visitatori,
essi
potrebbero
godere
a
pieno
della
spettacolarità
onirica
che
il
nuovo
allestimento
offrirebbe.
Per
costruire
un
nuovo
ordine
di senso
e
guidare
il
visitatore
a
comprenderlo,
aggiungerei
quattro
“pietre
di
inciampo”
sul
pavimento
con
su
scritte
frasi
legate
alla
percezione
del
tempo
e
al
sogno,
pronunciate
da
filosofi,
scrittori
e
artisti
vissuti
in varie
epoche,
così
come
risalgono
a
fasi
storiche
apparentemente
separate
anche
le
sculture
ospitate
dalla
Tribuna.
La
scelta
delle
pietre
di
inciampo
al
posto
di
pannelli
verticali
mi
consentirebbe
di
non
occultare
alcun’opera
e
rendere
la
visione
del
nuovo
allestimento
effettivamente
simultanea.
La
questione
che
le
“pietre”
porrebbero
all’attenzione
dello
spettatore
ha a
che
fare
con
l’ampliamento
della
sua
prospettiva
in
termini
percettivi
innanzitutto.
Si
può
godere
dell’atemporalità
di
questa
nuova
combinazione
facendo
appello
a
un
senso
del
tempo
diverso
da
quello
cronologico,
che
rimanda
al
cuore
e
al
sogno:
“un
cuore
per
percepire
il
tempo”
(Michael
Ende).
Si
può
godere
anche
di
un’opera
aniconica
se
la
nostra
percezione
è
in
grado
di
abbattere
ogni
barriera
per
proiettarsi
verso
l’infinito:
“se
le
porte
della
percezione
fossero
purificate,
tutto
apparirebbe
all’uomo
come
in
effetti
è:
infinito”
(William
Blake).
La
nuova
combinazione
di
opere,
col
Corno
troneggiante
sul
tavolo,
può
consentire
al
visitatore
di
aspirare
alla
purezza,
e
l’obiettivo
gli
viene
esplicitato
dalla
prima
delle
“pietre”
che
porrei,
sulla
quale
comparirebbe
una
frase
di
Talete:
“non
è
sufficiente
avere
le
mani
pure,
bisogna
avere
lo
spirito
puro”.
In
conclusione,
il
ritorno
di
un’antica
Wunderkammer
(quale
la
Tribuna
degli
Uffizi
era
alla
fine
del
XVI
secolo)
al
suo
significato
originario
sarebbe
un
modo
per
avvicinare
il
visitatore
alla
vera
essenza
dell’arte:
l’approccio
a un
mondo
onirico
dove
il
tempo
avvolge
senza
essere
scandito.
Che
dire
di
questo
esperimento
di “curatore
per
un
giorno”?
Che
ha
ragione
ancora
Obrist,
quando
afferma
che
le
sistemazioni
possono
essere
sempre
provvisorie
e
vaghe.
Collocando
il
Corno
su
un
celebre
tavolo
Manierista,
si
può
fare
quel
che
lui
suggerisce:
“(…)
mettere
incessantemente
in
discussione
le
convenzioni,
cambiare
le
regole
del
gioco”.
Nessun
ordine
può
essere
mai
dato
per
sempre.
Citando
Perec,
Obrist
afferma
per
l’appunto,
in
“Fare
una
mostra”,
che
l’ordine
è
sempre
effimero,
e
che
l’arte
è
un
viaggio
senza
destinazione.