N. 82 - Ottobre 2014
(CXIII)
la Regula Pastoralis di Gregorio Magno
La traduzione di alfredo il grande - Parte I
di Silvia Mangano
La Regula Pastoralis fu la prima opera a essere tradotta da Alfredo il Grande, tra l’890 e l’895. La traduzione della Cura Pastoralis sopravvive in sei manoscritti. Due di questi vennero probabilmente scritti durante il regno di Alfredo: il B. L. Cotton Tiberius B.xi (copia danneggiata dal fuoco) e l’Hatton 20 (ancora intatto), conservato a Oxford nella Bodleian Library. Il lavoro si concentra sulle qualità intellettuali e spirituali che ogni uomo investito di un’autorità deve avere.
Il testo di Gregorio era destinato ai principi della Chiesa e ai presbiteri, ma le sue parole possono essere spesso applicabili ai detentori del potere secolare. Di notevole importanza ai fini del nostro discorso è la prefazione della Cura, in cui Alfredo si rivolge al vescovo Wærferth ed enuncia i motivi che lo hanno spinto a tradurre l’opera di Gregorio Magno e il piano della sua riforma. Per la sua rilevanza, è giusto analizzarla molto approfonditamente.
Dopo
il
saluto
iniziale,
Alfredo
rimpiange
un
passato
di
alto
livello
culturale
e
spirituale,
“nelle
gerarchie
ecclesiastiche
e
laiche”,
dove
i re
“obbedivano
a
Dio
e ai
suoi
messaggeri”,
senza
lasciarsi
corrompere
dal
potere
e
dalla
superbia.
Ai
suoi
occhi,
il
passato
è un
tempo
di
felicità,
di
pace
e di
moralità;
un
tempo
in
cui
gli
ordini
religiosi
erano
zelanti
nell’insegnamento
e
nella
dottrina,
nonché
nelle
“sante
funzioni”
di
loro
competenza.
Quando
ricorda
come
“genti
provenienti
dall’estero
cercassero
sapienza
e
istruzione
in
questa
terra”,
è
probabile
che
gli
vengano
in
mente
nomi
di
personalità
come
Alcuino
o
Winfried
Bonifacio,
ed è
con
molta
amarezza
che
conclude
la
sua
riflessione
pensando
“come
oggigiorno,
volessimo
tali
risorse,
dovremmo
cercarle
fuori”.
Alfredo
allude
all’opera
di
ricerca
che
compì
per
fronteggiare
l’assenza
di
insegnanti
competenti
all’interno
del
Wessex.
“La
cultura
aveva
subito
un
tale
declino
che
c’erano
pochissimi
uomini
al
di
qua
dell’Humber
in
grado
di
capire
la
liturgia
in
inglese,
o
tanto
più
tradurre
una
sola
sillaba
dal
latino
all’inglese:
e
suppongo
non
ce
ne
fossero
un
gran
numero
neppure
oltre
l’Humber.
Ce
ne
erano
tanto
pochi
che
non
riesco
a
ricordarne
neppure
uno
a
sud
del
Tamigi
al
momento
di
succedere
al
trono”.
La
riflessione
sembra
alludere
a un
generale
declino
dell’apprendimento,
che
–
peraltro
–
dovremo
rintracciare
in
un
lasso
di
tempo
molto
più
lungo
di
una
o
due
generazioni.
Il
depauperamento
della
lingua
parlata
e
della
comprensione
del
latino
è un
processo
che
avrà
sicuramente
richiesto
almeno
un
secolo
per
giungere
ai
livelli
descritti
da
Alfredo.
Attraverso
l’indicazione
geografica,
il
re
suggerisce
che
la
situazione
del
Wessex
era
di
gran
lunga
più
preoccupante,
rispetto
ai
territori
della
Mercia
(a
nord
del
Tamigi,
ma a
sud
dell’Humber)
e
della
Northambria
(nord
dell’Humber).
I
toni
utilizzati
dal
re
potrebbero
indurre
uno
storico
a
domandarsi
quanto
di
vero
ci
sia
nelle
sue
affermazioni,
ma
l’analisi
di
un
documento
redatto
dall’arcivescovo
di
Canterbury
nell’873,
avvalora
quanto
viene
affermato
nella
prefazione
dell’opera.
Nicholas
Brooks
parla
di
un
documento
“miseramente
scritto”,
che
riporta
per
ben
due
volte
una
lista
di
testimoni
appartenente
a
una
carta
ben
più
antica,
omettendo
i
nomi
dei
reali
testimoni
dell’873;
“suggerendo
che
lo
scriba”,
il
più
esperto
nella
redazione
di
documenti
ufficiali
in
quel
momento
a
Canterbury,
“poteva
a
malapena
vedere
cosa
stava
scrivendo”.
“Sia
ringraziato
Iddio
onnipotente
che
oggi
disponiamo
affatto
di
insegnanti.
Pertanto
vi
esorto
a
fare
come
credo
sia
peraltro
nelle
vostre
intenzioni:
più
spesso
che
potete,
liberatevi
delle
faccende
mondane
affinché
possiate
così
impiegare
la
sapienza
nella
misura
in
cui
il
Signore
ve
l’ha
concessa
ovunque
possiate.
Ricordate
che
punizioni
ci
siano
capitate
in
questo
mondo
quando
non
abbiamo
noi
stessi
amato
la
cultura
né
l’abbiamo
trasmessa
ad
altri
uomini.
Eravamo
cristiani
soltanto
di
nome,
e
pochissimi
tra
noi
praticavano
le
virtù
cristiane”.
Stando
a
quanto
scritto
da
Alfredo,
la
situazione
sembra
essere
migliorata
nell’890-95,
ma
lo
spettro
delle
invasioni
vichinghe
continua
ad
aleggiare
sopra
la
sua
penna,
e
come
molti
autori
cristiani
–
precedenti
e
successivi
–
attribuisce
questo
tipo
di
accadimenti
all’ira
divina,
siamo
di
fronte
a un
vero
e
proprio
topos
della
letteratura
giudaico-cristiana.
Per
evitare
di
incorrere
di
nuovo
in
simili
ammonimenti
divini,
raccomanda
il
corretto
uso
della
sapienza,
tema
onnipresente
in
tutti
gli
scritti
di
Alfredo.
Keyne
e
Lapidge
segnalano
una
citazione
indiretta,
nella
quale
il
re
dimostra
inoltre
di
possedere
un’ampia
conoscenza
dell’opera
di
Agostino,
infatti
la
frase
“eravamo
cristiani
soltanto
di
nome,
e
pochissimi
tra
noi
praticavano
le
virtù
cristiane”
non
è
nient’altro
che
l’adattamento
in
lingua
inglese
antica
di
“nunc
se
autem
glorietur
Christianum,
qui
nomen
habet
et
facta
non
habet”,
sententia
agostiniana
frequentemente
citata
nel
Medioevo.
“Avendo
su
questo
letto
e
riflettuto,
pensavo
a
come
–
prima
che
tutto
fosse
saccheggiato
e
bruciato
– le
chiese
in
tutta
l’Inghilterra
fossero
ricolme
di
tesori
e
libri.
Analogamente,
vi
era
una
grande
moltitudine
di
persone
impegnate
nel
servizio
di
Dio.
E
traevano
ben
poco
beneficio
da
tali
libri,
poiché
non
ne
capivano
nulla,
dato
che
non
erano
scritti
nella
loro
lingua.
È
come
se
avessero
detto:
'i
nostri
antenati
che
si
presero
precedentemente
cura
di
questi
luoghi,
amavano
la
sapienza,
e
per
suo
mezzo
ottennero
la
ricchezza
che
ci
hanno
trasmessa.
Qui
si
può
ancora
scorgere
il
sentiero,
ma
non
siamo
in
grado
di
seguirlo'.
Pertanto
abbiamo
ora
perduto
la
ricchezza
nonché
la
sapienza,
poiché
non
abbiamo
voluto
prestare
attenzione
al
sentiero”.
Il
ricordo
dell’Inghilterra
prima
delle
invasioni
vichinghe
assume
tinte
amaramente
nostalgiche:
le
chiese
erano
“ricolme
di
tesori
e
libri”
e
molte
persone
erano
al
servizio
di
Dio,
ma
non
potevano
apprezzare
i
tesori
che
possedevano,
perché
non
riuscivano
nemmeno
a
comprenderli
“dato
che
non
erano
scritti
nella
loro
lingua”.
Ancora
una
volta,
la
sapienza
antica
torna
a
risplendere
come
una
luce,
che
gli
anglosassoni
potevano
vedere,
ma
non
potevano
seguire.
È
probabile
che
questo
continuo
richiamo
alla
sapienza
degli
antichi
fosse
dovuto
alla
riscoperta
dei
classici
in
lingua
latina,
promossa
proprio
dalla
corte
di
Alfredo.
Gli
uomini
del
settimo
e
dell’ottavo
secolo
amavano
la
sapienza
e
grazie
a
questa
passione
erano
riusciti
a
raccogliere
tesori
e a
trasmetterli
ai
loro
successori,
ma,
già
agli
inizi
del
nono
secolo,
essi
non
erano
più
in
grado
di
utilizzarli.
Fu
proprio
la
loro
negligenza,
secondo
Alfredo,
che
venne
punita
da
Dio
con
l’arrivo
dei
vichinghi.
La
diretta
conseguenza
fu
che
le
devastazioni
e i
saccheggi
danesi
privarono
l’Inghilterra
sia
dei
tesori
sia
dei
libri.