Il regno di Alfred Kubin
L’altra parte, tra realtà
e inconscio
di
Alessio Guglielmini
Il romanzo dell’austriaco Alfred
Kubin, L’altra parte, nacque
di getto, in poche settimane, nel
1908, per esorcizzare la sofferenza
dovuta alla morte del padre e lenire
le ansie procurate dalla malattia
della moglie. Questa genesi
psicanalitica, che rimane d’altro
canto prioritaria per comprendere
anche la produzione del Kubin
visuale, non ne esclude il valore
letterario: per Ernst Jünger
quell’unico romanzo, corredato da 52
disegni dell’autore, bastò ad
assicurare a Kubin un ruolo
privilegiato all’interno della
letteratura fantastica di lingua
tedesca, accanto a E.T.A. Hoffmann,
come suggerito dallo stesso
scrittore ad Antonio Gnoli e Franco
Volpi nelle conversazioni del 1995
pubblicate con il titolo di I
prossimi Titani.
Il primo, e ultimo, romanzo di Kubin
è situato a Perla, una misteriosa
città dell’Asia Centrale, che
presenta tuttavia le fattezze di una
stadt mitteleuropea, in cui
imperversano la visione e la volontà
di un oscuro deus ex machina
di nome Patera: costui manipola la
popolazione, tenendola in una sorta
di appannato dormiveglia. Al
fatalismo tetro di Patera si oppone
il vitalismo dell’americano Hercules
Bell, prototipo neo-prometeico del
self-made man di stampo
occidentale venuto a spodestare il
sovrano di quell’ipnotico regno.
Il nome di Hercules Bell dice tutto:
la forza ostinata, veemente di
Ercole avviluppata al cognome Bell,
sintomatico dell’inventiva
capitalista che produce nuove storie
di successo. Alla fine del romanzo
si leggerà che «l’americano è
ancora vivo ed è noto in tutto il
mondo». Si tratta in fondo anche
di una profezia sull’influenza
statunitense che i piani di
ricostruzione Dawes e Young
porteranno nel cuore dell’Europa, in
seguito alla prima guerra mondiale,
dopo il tramonto degli imperi più
recenti (quello guglielmino) e più
antichi (quello austriaco insieme a
quello zarista, che confina, come
ricordato in alcuni passaggi del
romanzo, proprio con Perla).
Il fatto di essere un vivo tra gli
zombie è, del resto, una delle
principali recriminazioni di Bell: «È
un mattino tetro. L’americano
Hercules Bell è ancora a letto, a
metà sollevato, con le braccia
conserte e un’espressione di
profonda meditazione. “Vincerò!”,
mormora, e una luce d’orgoglio
illumina il suo volto non bello,
troppo energico. “Vincerò” ripete a
voce alta, e si alza. “Io sono
sano!” pensa trionfante, e si mette
nudo davanti al grande specchio».
È la libido che si oppone al
transito notturno, è l’ego che
rivendica il suo dominio sul giorno
appena sfuggito alle sgrinfie della
notte, benché a Perla il salto tra
le due fasi risulti piuttosto
farraginoso.
In questo slancio vitale si coglie
forse anche la ribellione ottusa di
chi non vuole posare il suo sguardo
sulla crisi imminente, sui fantasmi
di un mondo in disfacimento, ad
esempio quello della vecchia Austria
e della borghesia guglielmina, come
ebbe modo di notare sempre Jünger
nelle interviste rilasciate a Gnoli
e Volpi. Quella società felice, nel
momento in cui scriveva Kubin
(1908), si percepiva evidentemente
più sana di quanto lo fosse in
realtà, non curandosi
dell’incombente catastrofe della
Grande Guerra che ne avrebbe sancito
la ritirata.
Si capisce come l’unico romanzo
concepito da Kubin possa essere
interpretato da vari punti di vista:
ad esempio, come parto estemporaneo,
esito di uno Zwischenzeit, un “tempo
di mezzo”, un passaggio intermedio
tra passato e futuro che finisce per
coincidere con un “regno di mezzo”,
sospeso tra sonno e veglia (DI NOI
2023, p. 148). In questo incerto
rifugio, aperto come una cerniera
dallo shock personale, Kubin crea un
mondo capovolto che dà libero sfogo
alle sue tensioni.
Se a questa lettura individuale, e
interiorizzata, va aggiunta la
visione profetica di una vicenda
europea prossima al baratro, bisogna
pur notare che Kubin nella prosa di
L’altra parte trascina anche i
motivi ricorrenti di molte delle sue
opere visive. Massimo Cacciari,
introducendo nel breve saggio Kenosi
del simbolo lo studio di Alessandro
Nigro, Alfred Kubin profeta del
tramonto, insiste su un tema
ossessivo nelle figure kubiniane,
quello della Madre, della
sostanza-Madre. Una Madre intesa
come agglomerato materiale, matrice
della procreazione, autosufficiente,
bastante a sé stessa: Cacciari nota
l’impossibilità della
polarizzazione, la lancinante
assenza della reciprocità. La Madre
non ammette la presenza del Padre,
si auto-conclude, «il simbolismo
kubiniano della Grande Dea appare
bloccato al suo carattere elementare
negativo. In ciò consiste, per
l’appunto, la violenza che Kubin
infligge alla struttura tradizionale
del simbolo: esso non vale più come
coincidentia oppositorum. Il suo
lato negativo è irreversibile».
Questa irreversibilità viene
perlomeno alleggerita dalla
complementarietà proposta dal
romanzo: Patera e Bell sono immagini
ambivalenti, “l’altra parte”
presuppone inevitabilmente un altro
polo, quello della vita cosciente,
attuata nel dominio del sé
raziocinante. Hercules Bell, che è
di Filadelfia come la democrazia
statunitense, nel suo desiderio
ostinato di salute e di vittoria non
incarna per questo l’istanza
filosofica di un’essenza superiore,
limitandosi a rappresentare
un’alternativa necessaria, il
tentativo irriducibile del
figlioccio ambizioso che non vuole
essere divorato dalla madre oscura
che è la Perla di Patera.
Il Pater in declino, che si appresta
a cedere il posto, è il padre
scomparso di Kubin, ma anche un
Padre “matrigno”, incubato nella
passiva decadenza della città di
fine impero. Il concetto
dell’assenza del Padre, che non può
essere contemplato nella materia
oscura, nei nodi e nei grovigli dei
disegni analizzati da Cacciari, si
riabilita in maniera incerta
all’interno di Perla dove due
contendenti maschi finiscono (quasi)
per annullarsi a vicenda.
L’influsso del matriarcato ostile e
divorante, per come l’ha restituito
Cacciari negli estremi stilistici di
Kubin, si riconnette allo stesso
stile di vita di Kubin, per come
l’ha ricordato Jünger, in una forma,
a dire il vero, molto più
rassicurante. Dopo un rapporto
epistolare durato anni, il primo e
unico incontro tra i due capitò
nell’autunno del 1937. Kubin era un
corpulento sessantenne che viveva in
un castello e che «(…) amava gli
agi della vita, e riteneva che il
matriarcato fosse la migliore forma
di organizzazione della convivenza
sociale. A casa sua, in assenza
della moglie fummo serviti per tutto
il tempo da due domestiche che si
presero cura di noi» (GNOLI,
VOLPI 1997, p. 35).
L’ennesimo ricordo di Jünger è utile
a recuperare un ulteriore tassello
della visione kubiniana: «Kubin
mi mostrò una fotografia nella quale
si vedeva una manifestazione di
massa con migliaia di persone che
acclamavano un oratore. I singoli
partecipanti erano così minuscoli da
sembrare senza volto. Mi disse: “Qui
si potrebbero incollare, una vicino
all’altra, molte altre copie della
stessa foto, all’infinito…”» (GNOLI,
VOLPI 1997, p. 36). Cacciari
allude anche a questa ossessione di
Kubin: «Diviene massa lo stesso
groviglio delle figure, l’addensarsi
dei loro nodi, trattati (…) non in
quanto espressione del ‘religioso’
filo che collega tutti gli strati
dell’essere, ma, all’opposto,
intermittenza violenta, soluzione di
continuità, catastrofe. La caduta
della pienezza del simbolo genera
allucinazioni di massa (Anarchie) –
di queste Kubin è grande visionario»
(CACCIARI 1983, cit. p. 17).
L’informe massa delle cose diventa
informe massa umana, l’anarchia è in
questo senso l’altra parte del
populismo esemplificato dalla foto
mostrata da Kubin a Jünger, un moto
compresso che annulla
l’individualità, che attua in
maniera implacabile la
sovrapposizione degli individui,
svuotandoli, per rientrare sempre
all’idea di madre-divoratrice, di
ogni personalità e identità. Il
dormiveglia perenne che incombe sui
cittadini di Perla è una versione
“al rallenty” di questa agitazione
propagante: «I vecchi stavano per
delle ore con gli occhi fissi e
immobili, guardando lontano,
passavano giornate intere curvi su
minuzie qualsiasi, pietre, ossi,
piume» (KUBIN 2001, p. 153). Non
andava meglio con le case, ricoperte
dalla polvere, o con i mobili,
divorati dalle tarme.
Lo stesso narratore del romanzo, che
rimane giustamente anonimo dietro il
titolo di “artista”, inquadra alla
perfezione il ruolo dello spettatore
che non ha alcun potere sugli
eventi: è invitato nel regno di
Patera, in quanto suo vecchio
compagno di scuola, assiste al
travolgente esito della battaglia
tra Patera e Bell, come in un sogno;
ritorna in Germania e non accetta
più la realtà come tale, ridotta a
una “ripugnante caricatura”. La sua
lapidaria sentenza – Il Demiurgo
è un ibrido –chiude il sipario.
Tutto è ibrido, e mescolato, nel
Traum reich di Perla. Il Demiurgo
Patera è Kubin, ma anche
l’artista-narratore chiamato a
testimoniare la caduta di quel regno
è Kubin: chi governa viene
governato; chi crea subisce gli
effetti della sua stessa creazione.
Trent’anni dopo la nascita e la fine
di Perla, Jünger ricavava di Kubin
questa impressione: «un baco che
si abbozzola nella sua seta» (GNOLI,
VOLPI 1997, cit. p. 35), un
individuo isolato dal mondo, ma
ancora assalito dai sogni e dalle
fantasie, ancora connesso, a
piacimento, a “quell’altra parte”
materializzata dal suo unico
romanzo.
Riferimenti bibliografici:
Alfred Kubin, L’altra parte,
Adelphi, Milano 2001
Antonio Gnoli, Franco Volpi, I
prossimi Titani. Conversazioni con
Ernst Jünger, Adelphi, Milano 1997
Barbara Di Noi, Il malefico
sortilegio del vintage
nell’antiutopia. Die andereSeite di
Alfred Kubin in La città e
l’inconscio nell’era globale.
Germanistica in dialogo
multidisciplinare, Milano University
Press, Milano 2023
Massimo Cacciari, Kenosi del simbolo
in Alessandro Nigro, Alfred Kubin
profeta del tramonto, Officina
Edizioni, Roma 1983, pp. 11-23.
Eliah Bures, Ernst Jünger and Alfred
Kubin: a Friendship on “the Other
Side” in Poetik und Praxis der
Freundschaft (1800-1933),
Universitätsverlag WINTER,
Heidelberg 2019, pp. 203-223