N. 19 - Luglio 2009
(L)
L'immagine della donna nell'Epopea slava
analisi storico-sociale dei dipinti murali di Alfons Mucha
di Leila Tavi
Il
pittore
di
origine
ceca
Alfons
Mucha
fu
uno
dei
principali
rappresentanti
del
movimento,
a
cavallo
tra
la
fine
del
XIX
e
l’inizio
del
XX
secolo,
soprannominato
Art
Nouveau,
che
ha
come
caratteristica
la
ripetizione
di
motivi
stilizzati
utilizzati
a
scopo
decorativo.
All’interno
dell’Art
Nouveau
la
pittura
di
Mucha
ha
come
inconfondibile
segno
di
riconoscimento
una
figura
femminile
eletta
a
soggetto
centrale
dell’immagine,
attorniata
da
un
ensemble
coerente,
quasi
sempre
ispirato
ai
temi
della
natura.
Si è
conclusa
il
mese
scorso
la
mostra
dedicata
al
pittore
ceco
nella
Galleria
Unteres
Belvedere
di
Vienna,
dove
è
stato
possibile
ammirare,
tra
le
duecento
opere
provenienti
da
collezioni
pubbliche
e
private,
due
tele
che
appartengono
al
ciclo
chiamato
Epopea
slava
(Slovanská
epopej),
formato
da
venti
dipinti
murali
monumentali
attualmente
conservati
al
Klementinum
di
Praga,
con
cui
il
pittore
cercò
di
ripercorrere
le
tappe
fondamentali
della
storia
degli
Slavi.
I
dipinti
dell’Epopea
slava
non
sono
semplici
descrizioni
di
momenti
storici,
ma
una
forma
di
meditazione
pittorica
su
alcuni
temi
che
presentano
più
una
dimensione
umana
e
sociale
che
storica.
Gli
insoliti
ed
enormi
quadri
sono
un
unicum
nell’ambito
della
pittura
di
Mucha
che,
iniziata
la
sua
carriera
come
illustratore
e
autore
di
litografie
per
cartelloni
pubblicitari,
raggiunse
la
notorietà
grazie
alle
locandine
teatrali
degli
spettacoli
di
Sarah
Bernhardt.
La
collaborazione
tra
l’attrice
e il
pittore
durò
vari
anni;
le
locandine
che
Mucha
creava
per
la
Bernhardt
erano
tutte
basate
sul
concetto
d’immagine
stretta
e
allungata.
Oltre
alle
locandine
Mucha
disegnò
alcuni
accessori
di
scena
insieme
alla
bigiotteria
che
ornava
l’attrice
nei
suo
spettacoli.
La
funzione
del
ciclo
dell’Epopea
slava
è
didascalica;
il
pittore
intendeva
servirsene
come
modello
di
educazione
morale
per
le
generazioni
future
di
slavi,
attraverso
la
rappresentazione
di
momenti
significativi
di
un
passato
comune
ai
popoli
dell’Europa
centrale
e
orientale.
A
tal
scopo
Mucha
utilizzò
la
storia
nella
sua
accezione
simbolica,
attraverso
una
commistione
di
realtà
e
simbolismo
che
si
ritrova
nei
suoi
dipinti
murali,
in
cui
l’uomo
rappresenta
sempre
la
contingenza
del
tempo,
mentre
le
sue
divinità
ancestrali
incarnano
la
vita
oltre
la
morte.
Il
ciclo
dell’Epopea
slava
segnò
altresì
un’evoluzione
nella
tecnica
pittorica
dell’artista,
che
fece
suo
il
genere
storico,
arricchendolo
di
elementi
che
provenivano
dalla
sua
esperienza
di
artista
decoratore;
come
risultato
ottenne
uno
stile
attraverso
cui
possiamo
leggere
una
risposta
universale
ai
mali
dell’uomo,
contestualizzati
sì
nella
storia
slava,
ma
in
grado
di
creare
empatia
a
prescindere
dall’immedesimazione
storica.
Mucha
dipinse
questo
ciclo
tra
il
1912
e il
1926,
a
due
anni
dal
definitivo
rientro
nella
sua
terra
natale.
Con
l’Epopea
slava
Mucha
abbandonò
quasi
subito
la
vivacità
e la
gaiezza
dei
colori
ispirati
al
folklore
ceco.
Nel
primo
periodo
ceco
tra
il
1910
e il
1912
il
pittore
ritrasse
invece
giovani
donne
in
abiti
tradizionali
moravi,
dalle
gote
rosee
e
dalle
bionde
lunghe
trecce,
ancora
acerbe
e
immuni
dal
dolore.
Queste
figure
allegoriche
lasciarono
ben
presto
il
posto
alle
schiave
dalla
carnagione
scura,
solcata
dalle
rughe
e
dagli
stenti,
delle
contadine
russe
assemblate
davanti
alla
cattedrale
di
San
Basilio
a
Mosca
mentre
ascoltano
la
lettura
dell’editto
che
le
affrancherà
dalla
schiavitù
nel
1861.
Per
raccogliere
materiale
fotografico
su
questo
soggetto
pittorico,
che
realizzò
nel
1914,
Mucha
si
era
appositamente
recato
un
anno
prima
nella
città
russa.
Sul
volto
delle
donne
rappresentate
nella
tela
del
1914
si
ritrova
solo
un’espressione
di
smarrimento;
gettate
sul
ciglio
della
strada
innevata,
si
distinguono
dagli
uomini
non
per
la
freschezza
e la
civetteria
delle
vesti
delle
allegorie
tipiche
del
precedente
periodo
di
Mucha,
ma
per
i
bianchi
veli
che
scendono
fino
ai
fianchi
nascondendone
la
capigliatura
e le
forme.
Restano
sedute
e
indifferenti
al
grande
cambiamento
epocale
che
avrebbe
potuto
rappresentare
l’abolizione
della
schiavitù,
che
fu
concessa
dallo
zar
Alessandro
II,
non
conquistata,
non
agognata.
La
libertà
sui
volti
di
queste
donne
vuol
dire
incertezza,
sgomento.
Come
delle
bestie
avvezze
alla
cattività
che
non
sanno
lasciare
la
loro
gabbia,
restano
ferme
sulla
strada,
ripiegate
su
se
stesse.
Insolita
è la
scelta
del
colore
bianco
per
i
copricapo
femminili,
sembra
richiamare
l’espiazione
dei
secoli
in
cui
la
stirpe
slava
è
stata
costretta
a
servire
altri
popoli.
Chiaro
è il
riferimento
alla
dominazione
dell’impero
austro-ungarico
sulle
terre
ceche
e
slovacche;
un
tema
che
Mucha
rappresentò
qualche
anno
più
tardi
in
tutta
la
sua
crudezza
nel
dipinto
del
1918
intitolato
Il
bacio
della
Francia
alla
Boemia:
una
donna
nuda
e
sofferente,
sempre
con
velo
bianco
su
cui
è
ricamato
lo
stemma
del
leone
di
Praga
e
che
le
copre
la
parte
sinistra
del
corpo,
reclina
il
capo
a
occhi
chiusi.
Un
uomo
con
il
berretto
tipico
dei
Frigi
l’ha
liberata
dalle
corde
che
la
legavano
e le
bacia
delicatamente
la
tempia
sinistra
da
dietro
la
croce;
tutto
intorno
arde
il
fuoco
della
rivoluzione.
Le
donne
del
ciclo
dell’Epopea
slava
non
sono
mai
peccatrici
o
tentatrici;
la
stessa
Eva
del
quadro
Gli
Slavi
nel
loro
sito
preistorico,
realizzato
nel
1912
e
appartenente
al
primo
periodo
del
ciclo
slavo,
è
perseguitata,
non
cacciata.
Con
il
suo
copricapo
bianco,
portato
alla
moda
araba,
è
aggrappata
al
ginocchio
sinistro
di
Adamo,
lo
sguardo
assente,
come
se
si
fosse
estraniata
dal
contesto;
l’oscurità
della
notte
li
cela
alla
vista
dei
predoni,
che
hanno
appena
saccheggiato
e
bruciato
il
loro
villaggio.
A
destra
della
tela
appare
in
cielo
un
prete
pagano
sorretto
alla
sua
destra
da
un
giovane
che
rappresenta
la
guerra
e
alla
sua
sinistra
da
una
fanciulla
che
rappresenta
la
pace.
Il
quadro
è
una
rappresentazione
simbolica
dei
continui
attacchi
da
parte
di
popoli
nomadi
e
bellicosi
alle
tribù
slave
dedite
alla
pastorizia
e
all’agricoltura
tra
il
III
e il
V
secolo.
La
tradizione
slava
ci
ha
tramandato
figure
femminili
mitizzate,
come
l’invincibile
e
ambigua
polenica,
la
guerriera,
o la
fiera
Boïana,
a
capo
di
un
gruppo
di
banditi
dall’animo
nobile
(voivodka)
o
ancora
la
dea
Lada,
sorgente
e
simbolo
dell’irresistibile
attrazione
sessuale
esercitata
dalle
donne.
Si
tratta
di
eroine
che
incarnano
un
modello
di
donna
slava
intraprendente,
coraggiosa
e
priva
di
tabù
in
amore,
come
testimoniato
dalle
cronache
del
X
secolo
del
mercante
Ibrahim ibn
Yakub.
Eppure
le
donne
dell’Epopea
slava
sono
pavide,
insignificanti,
mortificate
nei
loro
abiti
modesti
e
sudici,
dipendenti
e
timorose
dell’uomo.
Portano
su
di
loro
i
chiari
segni
di
un
retaggio
culturale
che
trae
il
suo
humus
da
un
sostrato
sociale
intriso
di
patriarcato,
nonostante
i
tentativi
nelle
tribù
agricole
slave
del
primo
periodo
di
garantire
una
certa
eguaglianza
di
trattamento
tra
figli
maschi
e
femmine.
Ecco
la
donna
dell’ultimo
periodo
di
Mucha,
la
contadina
russa
di
Una
notte
d’inverno
del
1925,
in
un
atteggiamento
rassegnato
e
sereno
allo
stesso
tempo,
consapevole
dell’inevitabile
destino
che
la
vuole
libera
nella
vastità
della
tundra
siberiana,
ma
prigioniera
nell’anima.
L’austerità
delle
vesti
e
del
volto
contrasta
con
la
posizione
scomposta
e
mascolina,
intorno
solo
neve.
Attende
inerme
l’arrivo
dei
lupi
che
la
sbraneranno.
Negli
anni
del
Comunismo
di
guerra,
tra
il
1918
e il
1921,
in
Russia
ci
fu
la
guerra
civile
e
un’economia
della
sussistenza
caratterizzata
dalla
scarsità
di
beni
di
prima
necessità.
Numerosi
furono
i
decessi
per
fame,
soprattutto
nella
popolazione
rurale.
Mucha,
attraverso
la
rappresentazione
di
questa
contadina
russa,
esprime
tutta
l’ammirazione
per
il
popolo
russo
e
per
la
fierezza
con
cui
ha
affrontato
gli
orrori
della
Prima
Guerra
Mondiale
prima
e
della
Rivoluzione
poi.
Ma
lo
stesso
destino
che,
inesorabile,
lascerà
i
lupi
sbranare
la
contadina
russa
si
era
manifestato
a
Mucha
nel
1920
in
tutt’altra
veste,
nei
panni
di
una
giovane
slava
dallo
sguardo
dolce,
ma
fisso,
e
dal
sorriso
enigmatico.
Nella
tela
Il
destino
sotto
al
copricapo
bianco
appaiono
le
vesti
candide
e
ricamate
della
Boemia.
Nella
mano
sinistra
la
giovane
donne
tiene
una
ciotola
di
vetro
decorata
con
cuori
rossi
che
contiene
una
candela,
mentre
la
mano
destra
solleva
il
tessuto
del
velo
bianco
in
un
gesto
di
benedizione;
sembrerebbe
quasi
essere
una
citazione
della
Madonna
Annunziata
di
Antonello
da
Messina.
La
luce
fioca
della
candela
guida
il
viaggiatore
verso
la
donna,
la
mano
destra
lo
invita
a
ripararsi
sotto
il
suo
velo;
il
destino
spingeva
Mucha
tra
le
braccia
della
giovane
Cecoslovacchia.
Il
pittore
vi
vedeva
riflessa
tutta
l’ingenua
freschezza
di
una
cultura
e di
un
popolo
alla
ricerca
delle
proprie
radici.