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[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 157 / GENNAIO 2021 (CLXXXVIII)


filosofia & religione

I FALÒ DI SANT’ANTONIO

LA CELEBRAZIONE DEL FUOCO AD ALFEDENA

di Alfredo Incollingo

 

Per secoli, fino agli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, ad Alfedena (AQ), ogni famiglia del paese lasciava il ciocco più grande della propria provvista di legna nei pressi della locale cappella di Sant’Antonio Abate, per alimentare i falò che si accendevano in occasione della ricorrenza liturgica del santo (17 gennaio).

 

Ogni rione aveva il suo fuoco e, la sera, i loro abitanti si riunivano intorno a esso per riscaldarsi e per mangiare carne di maiale e piatti tipici alfedenesi. I falò erano accesi al tramonto, quando i sacerdoti, sfilando in processione, li benedivano insieme con gli animali d’allevamento. Il santo egiziano, infatti, era invocato da secoli in Occidente quale patrono dei macellai, dei contadini e degli allevatori.

 

Diverse settimane prima la festa di Sant’Antonio Abate, gli alfedenesi acquistavano un maialino che accudivano lasciandolo libero di girare per il paese. Sfamato dalla popolazione, il 17 gennaio l’animale era ucciso e macellato e si consumavano le sue carni intorno ai falò, accompagnate da patate arrostite sotto la cenere e dal cic’ rinat’, una zuppa di granturco.

 

Proveniente da una famiglia contadina benestante dell’antica Come, in Egitto, Sant’Antonio aveva venduto tutti i suoi beni per donare il ricavato ai poveri. Il suo attributo, “Abate”, è indicativo del ruolo fondamentale che ha avuto nella diffusione del monachesimo nel mondo cristiano, costituendo le prime comunità di monaci poste sotto la guida di un padre spirituale, l’Abbà.

 

Nel rito dei falò di Alfedena, simile a tante altre manifestazioni celebrate lo stesso giorno in Abruzzo e nell’Italia centrale e meridionale, si riscontrano molti rimandi alle antiche culture indoeuropee.

 

Come ha ben evidenziato Alfredo Cattabiani: «Si tratta probabilmente di residui sincretistici di feste precristiane, riti che celebravano all’inizio dell’anno la crescita del nuovo sole alle “Feriae Sementinae” durante le quali si lustravano campi e villaggi mentre buoi e giovenche venivano inghirlandati di fiori e lasciati in riposo».

 

D'altronde, proseugue Cattabiani, «nella storia dell’evangelizzazione è sempre successo che i convertiti trasferissero all’interno della nuova fede usanze e riti della precedente, perché si trattava di tradizioni a cui non potevano rinunciare, pena la perdita della loro identità».

 

L’accensione dei fuochi in onore di Sant’Antonio Abate ha conservato implicitamente una funzione magica. I falò riscaldano la terra e gli esseri viventi dal gelo dell’inverno, rivitalizzandoli in vista della primavera. Si è ipotizzato, infatti, che siano state attribuite al santo alcune prerogative religiose di divinità pagane legate ai cicli di rinnovamento cosmico.

 

Scrive Cattabiani che in area francese, ad esempio, Sant’Antonio era stato associato al dio Lug, «colui che risorgeva assicurando la resurrezione dell’uomo e, ogni anno, il ritorno della primavera, della “luce”: dunque garante di fecondità e di nuova vita».

 

Il fuoco è anche un simbolo di purificazione nella tradizione cristiana. Oltre a vivificare il creato, monda l’umanità dal peccato, metaforizzabile nel buio e nel freddo invernale.

 

La fiamma benedetta, illuminando le tenebre, preannuncia così la vittoria finale di Dio su Satana e sui malvagi.

 

Scrive Alfredo Cattabiani, citando l’antropologo Alfredo Maria Di Nola, che «la tipologia del rito di accensione dei fuochi invernali di Sant’Antonio è ricca poiché esprime insieme la funzione lustratoria attribuita al fuoco e gli effetti apotropaici dell’allontanamento delle streghe, delle influenze invernali, dei morti, delle malattie».

 

Secondo Laura Fenelli, invece, l’usanza di allevare un maiale in occasione della festa di Sant’Antonio ha origini medievali. Nei villaggi e nelle città francesi, infatti, gli abitanti erano soliti sfamare i suini di proprietà dell’Ordine degli Ospedalieri Antoniani che giravano liberamente per le strade e nelle campagne.

 

I frati devoti a Sant’Antonio Abate assistevano i malati di herpes zoster o fuoco di Sant’Antonio, curandoli con unguenti ricavati dal grasso del maiale. Per questo motivo, i suini allevati dagli antoniani erano rispettati e accuditi. Nessuno li maltrattava né osava rubarli. A Sant’Antonio, infatti, gli si attribuivano anche poteri taumaturgici e lo si invocava di conseguenza per guarire chi era affetto da malattie molto gravi, come l’herpes zoster.

 

 

Bibliografia di riferimento:

 

A. Cattabiani, Calendario. Le feste, i miti, le leggende e i riti dell’anno, Mondadori, Milano 2014.

L. Fenelli, Dall’eremo alla stalla. Storia di sant’Antonio Abate e del suo culto, Laterza, Roma-Bari 2011.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]