N. 103 - Luglio 2016
(CXXXIV)
Alexander
Hamilton
un
repubblicano
controverso
di
Giovanni
De
Notaris
Alexander
Hamilton
può
essere
annoverato
tra
i
“padri
fondatori”
degli
Stati
Uniti
d’America,
assieme
a
personaggi
del
calibro
di
George
Washington,
Thomas
Jefferson,
James
Madison
e
altri
ancora.
Il
suo
pensiero
politico
si
esplicava
attraverso
un’idea
del
governo
molto
centralistica
in
contrasto
con
il
forte
federalismo
americano.
Sua
priorità
era
indicare
agli
americani
la
necessità
dell’industrializzazione
come
motore
dello
sviluppo
economico.
Era
inoltre
sostenitore
del
rafforzamento
dei
poteri
del
presidente
e
del
governo
federale.
Nato
nel
1755,
di
umili
origini,
da
adulto
si
imparentò
con
una
ricca
famiglia
di
New
York
diventando
un
famoso
avvocato.
Proprio
questa
sua
ascesa
sociale
fu
la
causa
della
sua
avversione
al
potere
decisionale
del
popolo,
a
favore
di
una
visione
più
aristocratica
della
realtà,
con
una
limitazione
per
la
democrazia
a
favore
di
un’oligarchia.
Sosteneva
che
gli
Stati
Uniti
godessero
di
condizioni
geografiche
e
politiche
tali
da
farne
un’unicum
nello
sviluppo
economico
e
sociale.
La
modernizzazione
del
paese
doveva
fondarsi
unicamente
sul
progredire
dell’industria
– e
quindi
sui
mercanti
e
finanzieri
–
espressa
tramite
un
forte
governo
centrale
poco
aperto
alle
proposte
e
decisioni
del
singolo
individuo.
Per
questo
il
governo
doveva
essere
guidato
solo
da
ricchi
e
potenti,
oltre
al
fatto
che
gli
Stati
Uniti
dovevano
preservarsi
da
tutto
ciò
che
li
minacciava
come
le
guerre
e
l’espansionismo
europeo.
Riteneva
che
negli
Stati
Uniti
ci
fosse
una
maggiore
eguaglianza
economica
e
che
quindi
fosse
più
semplice
per
lo
stato
tassare
tutti
senza
pesare
troppo
sulle
classi
più
deboli
come
avveniva
dall’altra
parte
dell’Atlantico.
La
sua
idea
di
un
paese
dove
c’era
lavoro
per
tutti
doveva
però
fungere
unicamente
a un
maggiore
benessere
dello
stato.
Se
tutti
i
cittadini
lavoravano
e
guadagnavano
meglio
sarebbe
stato
un
bene
per
la
preservazione
del
governo
perché
tutti
sarebbero
stati
più
soddisfatti
e
sarebbe
diminuito
il
rischio
di
rivolte
popolari
come
avveniva
sotto
le
monarchie
europee.
Perciò,
auspicando
che
ciò
non
avvenisse
anche
nel
suo
paese,
Hamilton
proponeva
la
trasformazione
della
Confederazione
di
stati
in
un
una
vera
e
propria
Unione
per
sostenere
un
governo
forte
e
autonomo
del
popolo
ma
non
condizionato
da
esso.
Infatti
se
si
fosse
mantenuta
l’autonomia
dei
singoli
stati
prima
o
poi
qualcuno
di
essi
si
sarebbe
ribellato
al
governo
centrale
scindendosi
da
esso
e
minandone
l’autorità
e
quindi
le
fondamenta
di
tutta
l’istituzione
repubblicana.
Nel
1783
elaborò
una
teoria
dove
spiegava
come
un
governo
su
base
democratica
avesse
meno
possibilità
di
sopravvivere
di
un
altro
tipo
di
sistema.
I
diritti
del
popolo
devono
si
essere
tutelati
ma
da
un
governo
forte
che
amministri
senza
consultarlo.
Questi
motivi
sono
il
fulcro
dei
discorsi
contenuti
nei
famosi
Federalist
Papers
composti
tra
il
1787
e il
1788,
scritti
da
lui
e da
altri
padri
fondatori,
per
spiegare
agli
americani
cos’era
lo
Stato
federale
e
per
incitare
tutti
gli
stati
a
ratificare
quanto
prima
la
Costituzione.
Il
suo
timore
infatti
erano
le
spinte
espansionistiche
dei
paesi
europei
che
avrebbero
potuto
corrompere
e
portare
dalla
loro
parte
qualche
stato
dell’Unione.
L’Europa
invidiosa
avrebbe
cercato
con
tutti
i
mezzi
di
corrompere
con
i
suoi
antiquati
sistemi
politici
la
forza
dell’Unione
e
proprio
per
questo
dunque
non
c’era
spazio
per
una
Confederazione
di
stati
ma
solo
per
un’Unione
che
annullasse
le
differenze
tra
i
singoli
stati
in
modo
tale
da
rafforzare
il
sistema
politico
contro
le
mire
europee.
Tutto
questo
poteva
essere
realizzato
anche
grazie
all’impiego
delle
forze
armate
che
potessero
difendere
gli
Stati
Uniti
da
minacce
esterne
e
interne.
Il
suo
pensiero
politico,
quindi,
aveva
molto
di
monarchico.
Hamilton
era
un
repubblicano
che
pur
di
difendere
gli
Stati
Uniti
riteneva
necessario
privarli
di
alcune
prerogative
tipiche
di
una
repubblica,
dando
più
poteri
al
presidente
e al
Congresso
che
a un
governo
del
popolo.
Memore
infatti
dei
tumulti
europei,
sosteneva
che
il
popolo
con
le
sue
rivolte
poteva
danneggiare
il
governo
del
paese.
Nel
1787
alla
Convenzione
costituzionale
di
Filadelfia
espresse
palesemente
la
sua
ammirazione
per
il
sistema
inglese,
dove
tutto
l’equilibrio
del
sistema
era
imperniato
attorno
all’aristocrazia
che
proprio
in
virtù
di
essere
avulsa
dal
popolo
poteva
meglio
governare
il
paese.
Se
le
classi
inferiori
non
fossero
state
tenute
a
bada,
i
loro
interessi
avrebbero
potuto
danneggiare
le
altre.
L’aristocrazia
infatti
non
poteva
essere
danneggiata
né
dal
popolo
né
tantomeno
dal
re.
Per
questo
Hamilton
riteneva
anche
che
il
presidente
degli
Stati
Uniti
dovesse
essere
una
carica
a
vita,
una
sorta
di
monarca
repubblicano.
A
chi
lo
criticava
per
questa
teoria
sulla
presidenza,
Hamilton
rispondeva
che
a
mantenere
saldi
i
principi
della
democrazia
nel
sistema
americano
restavano
il
principio
elettivo
del
sistema
politico,
l’autonomia
della
branca
legislativa
rappresentata
dal
Congresso,
e il
fatto
che
il
presidente
potesse
essere
soggetto
a
impeachment.
La
sua
idea
era
sostanzialmente
quella
di
una
“democrazia
monarchica”.
Hamilton
temeva
sostanzialmente
i
bassi
interessi
della
natura
umana
che
possono
schiacciare
le
più
alte
vette
raggiunte
dalla
politica.
Il
governo
ha
quindi
il
compito
di
domare
questi
bassi
istinti.
Hamilton
però
non
guardava
all’Inghilterra
soltanto
come
un
modello
politico
da
importare
negli
Stati
Uniti
ma
anche,
e
qui
aveva
ragione,
al
processo
di
industrializzazione
di
cui
l’ex
madrepatria
era
stata
capostipite,
come
un
principio
importante
per
modernizzare
e
rendere
autonomi
gli
Stati
Uniti.
Nel
1791
espose
questa
teoria
nel
”Report
on
manifactures”
che
però
cozzava
contro
l’idea
predominate
di
un
paese
in
cui
ognuno
liberamente
produceva
per
se
singolarmente
senza
una
sovrastruttura
che
creasse
una
cosiddetta
produzione
di
massa
dei
prodotti.
Lo
sviluppo
economico
doveva
basarsi
non
sull’agricoltura
ma
sull’industria,
sul
commercio
e
sulla
finanza.
Hamilton
sosteneva
che
era
interesse
degli
Stati
Uniti
crearsi
un
mercato
interno
libero
da
condizionamenti
economici
esterni.
Bisognava
da
un
lato
dislocare
all’estero
parte
della
produzione
agricola
e
dall’altro
importare
dai
mercati
stranieri
quei
prodotti
che
gli
Stati
Uniti
non
avevano,
ricordando
le
difficoltà
incontrate
durante
la
guerra
di
indipendenza
dalle
giovani
colonie
per
far
fronte
all’approvvigionamento
delle
truppe,
proprio
perché
non
abbastanza
autosufficienti.
L’industria
doveva
poi
essere
diversificata
secondo
le
diverse
esigenze
del
paese.
Ovviamente
un
moderno
e
competitivo
sistema
industriale
richiedeva
un’interferenza
e
controllo
più
stretti
del
governo
portando
a un
rafforzamento,
tramite
l’economia,
del
potere
di
condizionamento
politico
che
gli
Stati
Uniti
avrebbero
potuto
esercitare
in
patria
e
all’estero.
Hamilton
inoltre
non
riteneva
che
le
differenze
tra
il
Nord
industriale
e il
Sud
agricolo
potessero
sfociare
in
contrasti
perché
gli
interessi
dell’agricoltura
e
dell’industria
convergevano.
Sempre
nel
1791
propose
pure
l’istituzione
di
una
Banca
Nazionale
Centrale,
sostanzialmente
con
il
fine
di
privare
di
autorità
i
governi
dei
singoli
stati,
cosa
che
poi
il
Congresso
approvò.
Fino
a
quel
momento
infatti
la
Costituzione
non
prevedeva
una
Banca
Centrale,
ma
Hamilton
spiegò
che
a
suo
parere
l’Articolo
I –
Sezione
8 –
garantiva
come
impliciti
quei
poteri
del
governo
federale
non
esplicitamente
dichiarati
nella
Costituzione,
proprio
per
poter
permettere
alla
Costituzione
stessa
di
esprimere
appieno
le
sue
funzioni.
Questa
teoria
fu
poi
inserita
nei
“Bill
of
Rights”,
emendamenti
alla
Costituzione,
varati
nello
stesso
anno.
Nel
1794
poi,
si
realizzò
pure
la
tanto
temuta
paura
del
sovvertimento
dell’ordine
costituito
quando
scoppiò
la
cosiddetta
“ribellione
del
whiskey.”
Hamilton
era
all’epoca
segretario
al
Tesoro
dell’Amministrazione
Washington
quando
accadde
che
circa
3.000
lavoratori
della
Pennsylvania
si
rifiutarono
di
pagare
la
tassa
sulla
produzione
del
whiskey,
giudicata
troppo
esosa,
per
ripianare
il
debito
pubblico.
Una
parte
del
Congresso,
seppur
minoritaria,
votò
contro
la
tassa.
Ma
il
segretario
riteneva
che
non
bisognasse
dare
ai
cittadini
l’idea
che
una
minoranza
parlamentare
potesse
mettere
in
pericolo
l’autorità
assoluta
del
governo,
spingendo
così
il
presidente
a
ordinare
la
soppressione
della
rivolta.
Hamilton
giustificò
poi
il
tutto
sostenendo
appunto
che
delle
forze
popolari
avevano
tentato
di
sovvertire
l’ordine
costituito
dal
governo
e
che
quindi
andavano
fermate
con
la
forza.
Continuava
a
vivere
nella
paura
che
una
sorta
di
rivolte
a
valanga
avrebbe
coinvolto
pian
piano
altri
stati
provocando
una
scissione
dal
governo
federale.
Ovviamente
questi
atteggiamenti
continuavano
a
renderlo
inviso
agli
occhi
di
Jefferson
e
dei
seguaci
della
sua
teoria
di
un’America
pienamente
democratica
fin
dal
basso.
Per
loro
era
una
negazione
dei
principi
della
repubblica
a
favore
di
un
sistema
statale
di
stampo
tipicamente
europeo.
Concludendo
si
può
dire
che
il
pensiero
politico
di
Hamilton
fu
considerato
anomalo
perché,
seppur
guardava
all’Europa
dal
punto
di
vista
politico-istituzionale
e
industriale,
lo
faceva
per
rendere
gli
Stati
Uniti
indipendenti
dalle
mire
europee,
e
più
forti.
Bisognava
insomma
sfruttare
ciò
che
di
buono
l’Europa
poteva
dare
per
usarlo
poi
contro
di
lei.
E la
sopravvivenza
del
governo,
anche
a
costo
di
limitare
i
diritti
del
popolo
con
la
forza,
era
principio
necessario.
Alexander
Hamilton
morirà
nel
1804,
in
un
duello,
ucciso
da
un
colpo
di
pistola
sparato
da
Aaron
Burr,
vicepresidente
di
Jefferson.