N. 98 - Febbraio 2016
(CXXIX)
SULL'IMMAGINE
DI
ALESSANDRO
MAGNO
RESOCONTI
DAL
MEDIOEVO
EUROPEO
di
Vincenzo
La
Salandra
“Il
nome
dell’Arabia
prima
di
Maometto
veniva
appena
pronunziato,
avvegnachè
ella
sofferto
avesse
molte
invasioni
dai
re
di
Persia,
di
Assiria,
e
dal
grande
Alessandro,
il
quale
erasi
tanto
invaghito
della
contrada,
ch’era
detta
felice,
che
se
morte
immatura
non
l’avesse
rapito,
ivi,
siccome
credesi,
avrebbe
stabilita
la
sede
dell’impero”.
Così
il
Principe
di
Scordia
Pietro
Lanza
nella
sua
Memoria,
Degli
Arabi
e
del
loro
soggiorno
in
Sicilia
(Palermo
1832,
pp.
11-12).
Giovanni
di
Salisbury
nel
1159
scriveva
nel
suo
Policraticus,
un’opera
notevole
che
segnala
il
cambiamento
di
concezione
nella
monarchia
medievale,
sull’importanza
dell’erudizione
nel
re
medievale
e
antico,
tra
gli
altri
exempla
menzioniamo
la
citazione
da
Aulo
Gellio:
“Ricordo
che
in
quella
parte
delle
Notti
Attiche
che
tratta
della
virtù
di
Filippo
il
Macedone,
il
suo
amore
per
le
lettere
è
descritto
con
lo
stesso
calore
delle
sue
vicende
di
guerra,
dei
suoi
trionfi,
della
liberalità
della
sua
mensa,
della
sua
umanità,
o di
qualunque
altra
cosa
egli
disse
o
fece
di
piacevole
o di
cortese.
Riconosciutosi
superiore
agli
altri
in
questa
passione,
Filippo
si
preoccupò
di
trasmetterla,
quasi
a
fondamento
del
suo
patrimonio
ereditario,
a
quell’unico
figlio
che
sperava
avrebbe
avuto
il
suo
regno
e la
sua
felicità.
Per
questa
ragione,
appena
nato
Alessandro,
egli
pensò
di
scrivere
ad
Aristotele,
che
confidava
ne
divenisse
il
maestro,
quella
famosa
lettera
il
cui
contenuto
è il
seguente:
‘Filippo
saluta
Aristotele.
Sappi
che
mi è
nato
un
figlio:
ed
io
rendo
grazie
a
Dio,
non
tanto
perché
mi è
nato,
quanto
perché
ha
avuto
la
fortuna
di
nascere
nel
tempo
in
cui
tu
vivi.
Spero
infatti
che,
educato
ed
istruito
da
te
crescerà
degno
di
noi
e di
grandi
imprese’”.
(Policraticus,
pp.
76-77,
Milano
1985)
L’immagine
di
Alessandro
è
nel
XII
secolo
utile
nelle
fonti
a
definire
una
nuova
concezione
della
regalità
medievale:
il
re
deve
attenersi
al
modello
classico
della
regalità
greco-romana
che
emerge
dagli
specula
principum.
Tra
l’XI
e il
XII
secolo
si
assiste
in
letteratura
europea
al
piccolo
umanesimo
incipiente
ed
erudito
dei
poeti
neolatini
che
iniziano
a
riscrivere
le
opere
classiche:
quello
che
è
forse
il
migliore,
assieme
alla
prosa
raffinata
della
Historia
Regum
Britanniae
di
Goffredo
di
Monmouth,
tra
i
poemi
epici
colti
e il
più
influente
e
imitato
e
letto
è l’Alexandreis
(1178-1182
ca.)
di
Walter
di
Châtillon,
un’opera
deliberatamente
virgiliana
in
dieci
libri,
basata
con
ogni
attenzione
sulle
più
affidabili
fonti
antiche
(specialmente
Quinto
Curzio,
con
prestiti
sparsi
da
Giustino,
Giulio
Valerio
e
Giuseppe)
favorevoli
ad
Alessandro.
Walter
narra
tutte
le
vicende
del
suo
eroe,
dalla
giovinezza
alla
morte,
inclusa
la
sua
educazione
per
mano
di
Aristotele.
Non
descrive
mai
Alessandro
come
‘nostro’
antenato.
Piuttosto
egli
è
visto
come
una
sorta
di
modello
morale
eroico,
l’incarnazione
secolare
del
valore
e
delle
liberalità
cavalleresche,
e
come
il
nobile
protettore
della
cultura
e
una
sorta
di
re-filosofo.
Un
certo
distacco
umanista
è
presente
in
questo
poema,
elemento
del
tutto
nuovo
per
l’epoca.
Sicuramente
la
necessità
di
ingraziarsi
il
suo
mecenate,
Guglielmo,
arcivescovo
di
Rheims,
spinge
Walter
a
implorare
Dio
perché
assicuri
alla
Francia
un
re
come
Alessandro
che
avrebbe,
una
volta
per
tutte,
(nientemeno
che)
sconfitto
e
quindi
convertito
i
Saraceni.
Si
sarebbe
così
raggiunta,
alla
fine,
una
perfetta
unità
cristiana,
e
tutti
gli
uomini
sarebbero
accorsi
a
Rheims
per
essere
battezzati
dall’arcivescovo,
nella
vera
fede.
Ma
oltre
a
questo
intervento
e a
pochi
altri
commenti
minori
dello
stesso
tenore,
l’Alexandreis
rimane
essenzialmente
un’opera
colta
di
materia
e
natura
poetica.
È
interessante
notare
come
l’Alexandreis
del
Walter
modifichi
il
ritratto
di
Alessandro
rispetto
a
quello
che
viene
di
solito
tratteggiato
nei
vari
poemi
in
francese
antico
composti
nella
tradizione
del
Roman
d’Alexandre,
basati
su
Giulio
Valerio
(egli
esula
insomma
dai
classici
modelli
retorici
già
fossilizzati
in
precedenza)
e di
cui
citiamo
almeno
due:
il
frammento
dell’inizio
del
XII
secolo
attribuito
a un
certo
Alberico
di
Pisançon
(ne
rimangono
appena
centocinque
versi
ottonari
in
franco-provenzale)
e l’Alessandro
Decasillabico
(1165-75
ca.),
derivato
da
Alberico,
che
a
sua
volta
sarebbe
stato
riscritto
in
alessandrino
da
Alexandre
de
Paris,
l’autore
dei
quattro
‘rami’
conosciuti
collettivamente
come
‘vulgata’
di
Alessandro.
Inoltre,
all’incirca
nello
stesso
periodo
in
cui
era
stata
ricomposta
l’opera
di
Alberico,
furono
scritti
altri
due
poemi
sul
Macedone:
Alixandre
en
Orient,
di
Lambert
le
Tort,
e il
Mort
Alixandre.
Questi
romance,
anche
se
rimaneggiati
da
Alexandre
de
Paris,
presentavano
un
Alessandro
uomo
di
corte,
gentile,
generoso
e
nobile
sia
nell’aspetto
che
nel
comportamento,
ma
non
l’esempio
morale
e il
principesco
sostenitore
della
sapienza
descritto
da
Walter.
Questo
Alessandro
‘cortese’
assomiglia
per
molti
aspetti
al
personaggio
di
Galvano
in
tanti
romance
di
Chrétien
de
Troyes,
e il
‘vanaglorioso’
principe
che
Chrétien
oppone
al
caritatevole
conte
Filippo
di
Fiandra
nella
parte
introduttiva
del
Racconto
del
Graal
(1190
ca.):
questa
notazione
ci
consente
quasi
di
chiudere
il
ciclo
di
tutte
le
ridondanze
mitiche
legate
al
filone
di
Alessandro;
Walter
inoltre
è
vicino
alle
idealizzazioni
di
alcuni
autori
islamici
coevi
e
l’assimilazione
del
Macedone
alla
fede
cristiana
è un
fatto
letterario
che
coinvolge
tutta
l’area
Mediterranea
in
comune
atteggiamento
con
l’Islam
(sic.).
Infine
l’Alexandreis
fornisce
una
immagine
differente
di
Alessandro
e
corregge
su
basi
di
correttezza
storica
e
rettitudine
morale
l’altra
immagine
di
Alessandro,
ben
frivola
e
molto
romanzata,
che
emerge
dal
Roman
d’Alexandre.
Questa
letteratura
di
ispirazione
greca
e
romana
veniva
definita
saggia
e
significativa
da
Jean
Bodel
nel
1200
e la
matière
antique
di
Grecia
e di
Roma
veniva
contrapposta
alla
vuota
e
amena
matière
de
Bretagne.
La
diffusione
del
romanzo
di
Alessandro
nelle
letterature
europee
del
Medioevo
è
quindi
larghissima,
a
titolo
d’esempio
si
può
isolare,
per
originalità
e
flessibilità
dei
temi
mitici
trattati,
il
caso
della
letteratura
olandese:
nel
1257
Jacob
Van
Maerlant
aveva
scritto
un
romanzo
di
argomento
classico,
desunto
da
un
modello
francese.
Il
romanzo
si
trova
in
un
manoscritto
pergamenaceo
della
fine
del
Trecento
conservato
a
Monaco:
è
intitolato
Alexanders
Geesten,
Gesta
di
Alessandro,
e si
tratta
di
una
rielaborazione
del
poema
latino
del
poeta
francese
Gauthier
de
Châtillon,
che
lo
scrisse
intorno
al
1180.
L’opera
consiste
in
quattordicimila
versi
divisi
in
dieci
libri,
e
racconta
la
vita
di
Alessandro
atteggiato
completamente
a
uomo
del
Medioevo.
Le
scene
sono
varie,
interessanti
e
fantasiose,
articolate
in
quadri
successivi:
quando
Alessandro
visita
a
Troia
la
tomba
di
Achille,
pensa
che
all’eroe
greco,
molto
più
della
vittoria
su
Ettore,
siano
stati
i
canti
di
Omero
a
procurargli
l’immortalità,
e
dice
di
preferire
alla
certezza
del
paradiso,
un
poeta
che
canti
le
sue
imprese.
È
singolare
inoltre
leggere
la
critica
cristiana
alle
gesta
pagane.
In
Libia,
nel
tempio
di
Giove,
Alessandro
apprende
che
quel
dio
è
suo
padre,
e
commenta
il
poeta:
Ma
il
diavolo
può
ben
mentire
Quando
vuole
ingannare
l’uomo...
Nel
terzo
libro
sono
descritte
con
dovizia
di
particolari
una
eclissi
lunare,
lo
scudo
di
Dario,
i
mausolei
di
Dario
e
della
moglie;
nel
nono
la
conquista
dell’India,
inutilmente
contrastata
sal
re
Porus
il
quale,
dopo
un
duello,
diventa
vassallo
di
Alessandro,
e la
morte
di
Bucefalo.
Infine
il
Macedone
arriva
al
Paradiso
terrestre,
ma
non
può
impadronirsene
e
deve
contentarsi
di
appena
una
pietra
preziosa.
Imbaldanzito
vuole
carpire
alla
Natura
il
suo
segreto.
C’è
poi
una
discesa
negli
inferi.
La
Natura
e
Lucifero
decidono
di
avvelenare
Alessandro
e
mentre
il
re
pensa
se
oltre
la
terra
ci
siano
altri
mondi
da
conquistare,
si
approssima
inesorabile
il
giorno
della
sua
morte.
Quel
giorno
l’alba
è
priva
del
canto
degli
uccelli,
la
stella
mattutina
cade,
il
sole,
appena
spuntato,
sta
per
tramontare
e
arriva
la
fine
dell’eroe.
Rimanendo
nell’epoca
medievale
della
letteratura
olandese,
è
del
Trecento
una
fresca
rielaborazione
medioneerlandese
di
un
romanzo
francese
su
Alessandro,
di
cui
resta
solo
un
frammento
di
mille
e
ottocentonovanta
versi,
il
cui
titolo
è
Roman
van
Cassamus.
Il
grande
Macedone
incontra
durante
una
passeggiata
il
cavaliere
Cassamus
il
quale
si
lamenta
della
morte
del
fratello
caduto
in
battaglia
contro
Alessandro.
Questi
sospira
e
dice
che
la
guerra
è un
gioco
che
non
perdona.
Intanto
giunge
la
notizia
che
i
due
figli
e la
figlia
del
morto
sono
assediati
in
Pheson
dal
re
indiano
Claris
che
vuole
sposare
la
ragazza.
Alessandro
si
reca
a
liberarli
e
durante
il
viaggio
dorme
nel
tempio
di
Marte
dove
fa
un
sogno
profetico.
Cassamus
l’ha
preceduto,
è
entrato
in
Pheson
e
sfida
Claris
a
combattimento.
La
sortita
non
giova
agli
assediati.
Ma
giunge
Alessandro
e
divampa
una
grande
battaglia
alla
quale
Edea
e
Phesonie,
la
nipote
di
Cassamus,
assistono
dall’alto
del
castello.
Vedono
anche
che
il
cavaliere
Casseel
che
combatte
per
Claris,
penetra
in
città
ed è
preso.
Edea
si
innamora
subito
di
lui
e il
vecchio
Cassamus
cui
la
giovane
si
era
promessa,
è
abbastanza
saggio
per
aver
comprensione.
Tutti
insieme,
compreso
il
prigioniero
Casseel,
giuocano
poi
il
giuoco
del
re,
di
cui
si
fa
menzione
anche
in
altri
romanzi.
Il
giuoco
consiste
nell’elezione
di
un
re
fra
i
presenti,
il
quale
pone
a
tutti
domande
sull’amore
ed è
a
sua
volta
interrogato
sullo
stesso
tema.
Il
frammento
termina
tra
la
generale
allegria.
E
fino
al
XX
secolo
in
Olanda
l’ispirazione
‘alessandrina’
produrrà
il
romanzo
storico
di
Louis
Couperus
(1863-1923):
tra
i
suoi
romanzi
ambientati
nell’antichità
il
migliore
è
infatti
Iskander
del
1920,
notevole
per
la
ricchezza
dello
stile
con
cui
è
rappresentata
la
grandezza
e la
lenta,
tragica
decadenza
del
conquistatore.