N. 72 - Dicembre 2013
(CIII)
"Sono un dio e un re"
Aléxandros, IL figlio di Zeus e di Filippo
di Paola Scollo
Una
volta
conquistato
il
potere
a
soli
vent’anni,
Alessandro
era
animato
dal
desiderio
di
collocare
la
propria
azione
politica
e
militare
in
rapporto
di
continuità
rispetto
a
quella
del
padre
Filippo
II.
Nella
realizzazione
di
tale
progetto
era
sostenuto
dalla
specifica
volontà
di
emulare
gli
eroi
del
mito,
primo
fra
tutti
Achille,
avo
della
dinastia
degli
Eacidi
d’Epiro
da
cui
discendeva
la
madre
Olimpiade.
Agli
esordi
della
carriera
militare,
il
giovane
mostrò
infatti
di
essere
un
attento
lettore
e
conoscitore
dei
poemi
omerici.
Episodi
che
confermano
l’assimilazione
di
tali
tradizioni
mitiche
furono
il
lancio
dell’asta
sul
suolo
asiatico
e la
visita
alla
tomba
del
Pelide
dopo
lo
sbarco
in
Troade.
Sul
filo
di
questa
direttrice,
è
verisimile
immaginare
che
dapprima
ambisse
soltanto
a
essere
riconosciuto
dai
Greci
quale
eroe
epico,
considerando
la
divinizzazione
il
culmine
del
personale
processo
eroico.
C
on
ogni
probabilità
la
riflessione
sulla
discendenza
divina
emerse
in
un
momento
successivo,
in
parallelo
al
conseguimento
delle
prime
vittorie.
Tale
consapevolezza
poteva
derivare
sia
dall’esigenza
di
ricevere
conferma
degli
ambiziosi
progetti
di
conquista
sia
dalla
necessità
di
imporre
l’autorità
assoluta.
Alessandro
si
rendeva
conto
di
aver
conquistato
il
più
vasto
impero
della
storia
e di
essere
divenuto
l’uomo
al
di
sopra
di
ogni
altro,
paragonabile
a un
dio,
ma
vivo
era
il
timore
che
la
mancanza
di
legittimazioni
“superiori”
potesse
mettere
in
discussione
la
sua
autorità.
Sorretto
dall’aspirazione
di
farsi
rivelare
il
proprio
destino,
ovvero
la
propria
immortalità,
si
spinse
dunque
fino
all’oasi
di
Sïwah
per
consultare
l’oracolo
del
dio
libico
Ammone,
una
manifestazione
locale
di
Zeus.
Tale
culto
gli
era
stato
inculcato
dalla
madre
Olimpiade
che
lo
considerava
discendente
diretto
di
Zeus.
In
effetti
era
diffusa
la
convinzione
che
i re
di
Macedonia
discendessero
da
Eracle,
semidio
elevato
alla
dignità
divina
dal
padre
Zeus
dopo
la
morte
per
avvelenamento.
E il
legame
con
Eracle
risulta
fondamentale
per
comprendere
alcuni
aspetti
della
“divinizzazione”
di
Alessandro,
che
proprio
grazie
all’illustre
avo
poteva
affermare
e
vantare
la
propria
filiazione
divina.
La
marcia
lungo
il
deserto
libico
fu
faticosa.
Gli
uomini
erano
stremati:
il
sole
incendiava
ogni
cosa,
nessun
albero
e
nessuna
traccia
di
terreno
coltivato,
l’acqua
trasportata
dai
cammelli
negli
otri
veniva
meno,
le
bocche
erano
secche
e
riarse
dal
calore.
Ma a
vincere
le
fatiche
era
il
desiderio,
cupido
animum,
di
visitare
Zeus:
non
contento
di
essere
giunto
ad
un
grado
così
alto
per
un
mortale,
Alessandro
credeva
o
voleva
far
credere
di
essere
disceso
da
quel
dio.
Quando
finalmente,
dopo
quattro
giorni
di
cammino,
giunse
all’interno
del
santuario
nascosto
tra
alberi,
il
più
anziano
dei
sacerdoti
lo
salutò
col
nome
di
figlio,
dichiarando
che
così
lo
chiamava
Zeus
suo
padre.
Dimenticando
la
propria
natura
umana
e
mortale,
Alessandro
disse:
«Io
accetto
e
riconosco
questo
nome».
In
seguito
volle
sapere
se
gli
dèi
gli
avrebbero
concesso
il
dominio
del
mondo.
Il
profeta
con
adulazione
rispose
che
sarebbe
divenuto
signore
di
tutta
la
terra,
terrarum
omnium
rector.
Poi
Alessandro
chiese
se
gli
assassini
di
suo
padre
avevano
scontato
la
pena.
Il
sacerdote
rispose
che
suo
padre
non
poteva
essere
toccato
da
alcun
delitto;
di
contro,
se
faceva
riferimento
agli
uccisori
di
Filippo,
essi
erano
stati
puniti.
Infine
aggiunse
che
sarebbe
stato
invincibile
fino
a
quando
non
fosse
salito
fra
gli
dèi.
Ritenendo
falsi
tali
responsi,
Curzio
Rufo
spiega
che,
quando
la
fortuna
spinge
l’uomo
a
credere
solo
a se
stesso,
lo
rende
più
avido
di
gloria
che
meritevole
della
buona
sorte:
«Alessandro
non
solo
permise
che
lo
si
chiamasse
figlio
di
Zeus,
ma
lo
ordinò.
Così,
mentre
voleva
con
tale
appellativo
accrescere
la
fama
delle
sue
imprese,
la
guastò.
E i
Macedoni,
abituati
certamente
a un
regime
monarchico,
ma
all’ombra
di
una
libertà
maggiore
di
quella
degli
altri
popoli,
sdegnarono
quella
immortalità
ostentata
in
modo
più
insolente
di
quanto
convenisse
a
loro
stessi
o al
re»
(IV
8).
Dall’oracolo
di
Ammone
Alessandro
ricevette
dunque
conferma
della
propria
origine
divina,
del
dominio
universale
e
della
vittoria
assoluta.
A
partire
da
quel
momento
divenne
un
dio
in
terra,
chiamato
a
governare
un
impero
sconfinato
secondo
un
ordine
prescritto
dal
cielo.
Allora
iniziò
a
porgere
la
mano
per
il
bacio
rituale
ai
sudditi
persiani
e a
farsi
attendere
per
l’inchino
di
rito
e
l’abbassamento
del
capo.
Tali
gesti
vennero
poi
richiesti
anche
ai
fedelissimi
e ai
compatrioti.
L’adozione
di
usanze
del
cerimoniale
persiano
incrinò
i
rapporti
con
i
sudditi
e
con
le
truppe:
Alessandro
divenne
sempre
più
inviso
ai
suoi
uomini,
che
scorgevano
nel
suo
modus
vivendi
et
agendi
una
seria
e
concreta
minaccia
per
la
loro
libertà.
Nel
330
a.C.,
dopo
la
morte
di
Dario,
il
giovane
venne
proclamato
re
d’Asia.
Assumendo
come
modello
di
riferimento
la
monarchia
persiana
-
per
potenza
pari
a
quella
degli
dèi
-
divenne
un
despota
con
ambizioni
di
sovranità
universale.
Tale
atteggiamento
lo
trascinò
gradualmente
in
un
vortice
di
invidie
e
vendette
da
parte
di
Greci
e
Macedoni.
Vennero
ordite
nei
suoi
confronti
ben
quattro
congiure.
Durante
il
ritorno
dalla
spedizione
in
India
con
un
editto
Alessandro
richiese
onori
divini
in
quanto
figlio
di
Zeus
e
discendente
di
Eracle.
Gli
Ateniesi,
nonostante
non
approvassero
tale
richiesta,
gli
dedicarono
un
culto
cittadino
sancito
ufficialmente
da
un
decreto
della
boulè.
Il
sovrano
divenne
la
tredicesima
divinità
del
pantheon
greco.
Pretendendo
di
essere
onorato
in
qualità
di
conquistatore
della
terra
e
dio
invincibile,
theós
aníketos,
Alessandro
voleva
ottenere
l’immortalità,
prerogativa
divina
in
cui
risiedeva
il
confine
tra
uomini
e
dèi.
Ma
tale
desiderio
lo
rese
sempre
più
sgradito,
solo
e
incompreso.