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ANTICA


N. 111 - Marzo 2017 (CXLII)

DAL NUOVO ACHILLE AL FIGLIO DI ZEUS
 LA DIVINITÀ IN ALESSANDRO MAGNO

di Giulia Nicazza

 

Alcuni degli aspetti più interessanti e, per certi versi, misteriosi della personalità di Alessandro sono collegati senza dubbio al suo consapevole e volontario rapportarsi con la dimensione eroica e con quella divina, fattore che giocò un ruolo fondamentale nella percezione, improntata alla ‘grandezza’, che di lui ebbero già coloro che lo seguirono nelle sue imprese. Capire come tale ascendenza fosse così verosimile agli occhi dei Greci è oggetto di studio presso gli storici contemporanei. Dobbiamo partire da una premessa: differentemente dalle religioni monoteiste, non era inusuale che gli dèi delpantheon greco generassero figli mortali, destinati a compiere grandi imprese. Il mito è ricco di personaggi di tal genere, tra cui spiccano Eracle, Perseo, Achille, eroi che, sempre secondo la leggenda, avevano dato vita alle stirpi più illustri del mondo greco, destinate ad avere, per la loro fama, un ruolo di primo piano all’interno delle poleis, come nel caso dei sovrani di Sparta, delle grandi famiglie aristocratiche di Atene e degli stessi re di Macedonia.

 

Le dinastie regnanti e le grandi famiglie aristocratiche dell’antica Grecia facevano risalire le loro origini ad eroi che, secondo il mito, avevano fondato la polis su cui governavano. Ad Atene la famiglia degli Alcmeonidi aveva come capostipite il leggendario Alcmeone, nipote dell’eroe omerico Nestore di Pilo. A Sparta gli Agiadi e gli Euripontidi discendevano, secondo Erodoto, da Euristene e Procle, nipoti di Eracle e primi re della città. La dinastia degli Argeadi, sempre secondo Erodoto, discendeva da Temeno di Argo, pronipote di Eracle che aveva lasciato il Peloponneso per stanziarsi in Macedonia. La possibilità che comuni mortali potessero avere origini mitiche era, dunque, parte integrante della mentalità del tempo e non fu diversamente per Alessandro, attorno alla cui nascita cominciarono a circolare numerose dicerie alla corte di Pella. Si sosteneva che egli fosse figlio di Zeus, poiché la notte in cui venne al mondo una tempesta si era scatenata sulla capitale della Macedonia. Altri ancora affermavano che Olimpiade avesse giaciuto con Dionisio, il dio a cui era devota e per cui partecipava ai baccanali, il quale si era tramutato per l’occasione in un serpente. Questa diceria ci viene raccontata, non senza particolari, da Plutarco (Plu., Alex., 2, 3-6).

 

Alessandro, in ogni caso, poteva vantare di discendere da Eracle per parte di padre e da Achille per parte di madre (nel mito Neottolemo, conosciuto anche con il nome di Pirro, era figlio di Achille e dopo esser fuggito da Troia fondò in Epiro la dinastia dei Pirriadi da cui discendeva Olimpiade e suo fratello Alessandro il Molosso) anche senza dar credito, almeno durante la fanciullezza, ai pettegolezzi che circolavano sulle sue origini. Gli insegnamenti del maestro Lisimaco e soprattutto quelli di Aristotele accesero nel giovane macedone un’ammirazione sconfinata verso il suo antenato Achille, il “migliore degli Achei” e verso l’Iliade in generale, considerata da lui stesso un viatico per la virtù guerriera. (Plu., Alex., 8, 2). Si narra, infatti, che Alessandro portasse con sé, durante la sua spedizione in Asia, una copia dell’opera, curata dallo stesso Aristotele. Fu proprio l’identificazione con l’eroe guerriero per eccellenza che spinse Alessandro a compiere una serie di sacrifici, riti e gesti simbolici all’inizio della sua campagna militare. Il tentativo di emulare Achille affascinò senza dubbio l’esercito macedone, che restò fedele al proprio re per moltissimi anni e dopo migliaia di chilometri percorsi. Infatti, quando venne chiesto loro di continuare la marcia verso le impervie strade dell’Hindu Kush, non si levò nemmeno un cenno di protesta: prova evidente della forza con la quale Alessandro aveva legato le sue truppe alla propria persona. Non era solo il loro re e comandante, era anche il loro idolo.

 

Alessandro guidava in battaglia la cavalleria degli Eteri, un corpo scelto dell’esercito che costituiva una novità nella tattica militare della falange ideata da Filippo II e che ebbe un ruolo determinante nelle vittorie ottenute in Asia. Dunque, eroe omerico e comandante di un forte esercito, era così che il giovane re si presentava agli occhi dei Macedoni e dei Greci. Il lancio dell’asta nella Troade, la corsa con Efestione attorno alle tombe di Achille e Patroclo a Troia, i sacrifici in onore di Poseidone sull’Ellesponto, di Atena ad Ilio, di Eracle a Tiro, furono tutti gesti simbolici compiuti da Alessandro per costruirsi una nuova identità, più simile a quella di un eroe del mito che a quella di  un uomo. Tuttavia, quando ancora era in Macedonia, egli non pensò mai di identificarsi con una divinità: questo pensiero maturò dopo la visita a Troia e soprattutto, dopo le vittorie al Granico e ad Isso, a seguito delle quali raggiunse l’Egitto; fu proprio in questo paese dalla cultura millenaria, all’interno dell’oasi di Siwa, che Alessandro ricevette una sorta di “investitura” divina. L’oracolo di Zeus Ammone gli confermò la sua natura ultraterrena e la vendetta compiuta sugli uccisori di Filippo. Poi gli vaticinò le future vittorie e la conquista dell’impero persiano.

 

Nel corso del IV secolo a.C., dopo la guerra del Peloponneso, non furono rari gli episodi in cui strateghi vittoriosi vennero omaggiati come eroi, attraverso la costruzione di statue che venivano poste nell’agorà. Ricordiamo Conone, Ificrate, Cabria, Timoteo e lo stesso Filippo II, che subito dopo Cheronea e la pace di Demade venne ricompensato dagli Ateniesi per aver liberato i loro prigionieri di guerra e per aver risparmiato la città. Nel 324 a.C., al termine della spedizione in Asia, Alessandro era divenuto il generale vittorioso per eccellenza. Fu riconosciuto come thèos anìketos, dio invitto ed egli rivendicò la sua origine divina, al fine di dare un carattere empio ad una possibile rivolta contro il suo potere assoluto.

 

Nuovo Achille, figlio di Zeus, eroe più grande di Eracle, questi furono gli epiteti che Alessandro si sforzò per tutta la vita di vedersi riconosciuti, ma un altro aspetto del legame della sua figura con il divino è altrettanto interessante: l’assimilazione a Dionisio. La leggenda narrava che solo Dionisio si era spinto fino in India e forse proprio per questo Alessandro compì a Persepoli, a Nisa e in India baccanali e sfilate religiose in onore del dio della vegetazione e del vino. Tuttavia, solo molto più tardi, in ambiente alessandrino, si sarebbe sviluppato il mito di un “novello Dionisio” (Mossé, Alessandro Magno La realtà e il mito, 2003, p. 83). A tal proposito, appare emblematica la parte finale del racconto di Plutarco sulla rivolta di Tebe nel 335 a.C.:

 

Comunque si dice che in seguito il pensiero delle crudeltà compiute contro i Tebani lo abbia spesso angustiato e in non pochi casi lo abbia reso mite. In generale, però egli attribuì all’ira vendicatrice di Dionisio l’assassinio di Clito, compiuto da lui in stato di ubriachezza, e la viltà dei Macedoni di fronte agli Indi, quando lasciarono a mezzo la spedizione che gli avrebbe dato la gloria (Plu., Alex., 27, 5-9).

 

Egli riuscì a trasformare, in pochi anni, un mondo che da secoli si sosteneva sul continuo gioco di forza tra Greci e Persiani. Riuscì a creare un impero universale che, nonostante la futura frammentazione, porterà fino in India la lingua ellenica; un motivo più che sufficiente per essere ricordato fino ai nostri giorni come Mègas Alèxandros.



 

 

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