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N. 75 - Marzo 2014 (CVI)

Oltre ogni limite
Alessandro alla conquista dell’India

di Paola Scollo

 

Nell’immaginario dei Greci l’India rappresenta una terra remota agli estremi confini del mondo, quindi irraggiungibile e impenetrabile. Il desiderio, pothos, di violare tale distanza affonda le radici nella dimensione mitica, in particolare nei racconti delle spedizioni di Eracle e di Dioniso che pur sempre celano una matrice storica (la presenza in suolo asiatico di popoli greci prima del IV secolo).

 

Secondo Diodoro Siculo (II 38. 3 - 6), Dioniso attraversa tutta l’India, dopo essere sopraggiunto da occidente. Nel corso del viaggio non incontra alcuna resistenza, data l’assenza di città degne di considerazione. Alle popolazioni autoctone il dio tramanda la coltivazione dei frutti, la scoperta del vino e di tutto ciò che è utile alla vita. Inoltre fonda città e trasferisce i villaggi verso luoghi più idonei. Infine introduce leggi e istituzioni. Dopo aver affermato la propria natura divina e aver imposto il suo culto in tutto il mondo conosciuto, conduce la madre lontano dall’Ade e con lei ascende al cielo, sedendo alla destra di Zeus come uno dei Dodici Grandi. Riceve dunque in sorte l’immortalità.

 

Nelle pagine di Euripide (Ba. 420), Strabone (468) e Diodoro Siculo (IV 4) Dioniso viene celebrato quale eroe civilizzatore, legislatore e promotore della pace. Ma è a un tempo espressione delle forze della natura. È il potere straripante e inebriante che conduce l’uomo lontano dagli equilibri. È l’inventore dell’agricoltura, il dio dell’ebbrezza, del dolore e della gioia. Il legame con la vite indica manifestamente che Dioniso è un ispiratore e un ispirato, una divinità che ha il potere di rivelare il futuro all’uomo attraverso gli oracoli.

 

Alla ricerca della consacrazione divina e della gloria imperitura, Alessandro non può esimersi dal riproporre ed emulare le gesta dei suoi avi. Al termine della spedizione in Asia, decide quindi di lanciarsi alla conquista dell’India sia per espandere il proprio potere sino ai confini dell’ecumene sia per marcare il suo legame con Eracle e Dioniso. Ha già assoggettato tutto, ma non intende porre fine alla sua impresa. Vuole infrangere ogni limite umano. È un dio e un re. 

 

Sul filo di questo ragionamento, l’arrivo del Macedone in Asia può essere interpretato quale terzo elemento di rottura nell’unità culturale indiana dopo il passaggio di Dioniso e di Eracle. Il proverbiale isolamento del mondo indiano è violato da eroi civilizzatori di origine greca. E non casualmente. Soltanto la cultura greca detiene requisiti di superiorità tali da infrangere la chiusura della civiltà indiana e aprirla, sebbene temporaneamente, a feconde influenze straniere. Al pari di Dioniso e di Eracle, anche Alessandro è un eroe liberatore, fondatore e civilizzatore. Proprio per questa ragione può aspirare alla divinizzazione.

 

Vinta ogni resistenza, nel suo estremo viaggio è seguito da centoventimila soldati pronti ad accaparrarsi tutto quello che il suolo asiatico è disposto a offrire. I Macedoni sono pronti a soffrire per l’ennesima volta insieme al loro basileus, anche per una forma di invidia nei confronti delle imprese di Dioniso.

 

La spedizione in India è colma di significati e gravida di conseguenze per il futuro. Non si tratta semplicemente di una conquista, ma di una vera e propria esplorazione. La presenza di geografi, filosofi e mercanti è una evidente conferma in tal senso.

 

Il desiderio di Alessandro di essere assimilato a Dioniso trova per noi chiara testimonianza nelle pagine di Curzio Rufo, da cui emerge la volontà del sovrano di emulare Dioniso sia nella gloria conseguente alle vittorie sui popoli asiatici sia nella fama legata al suo nome. L’orgoglio lo eleva oltre il culmine della grandezza umana.

 

Al termine della primavera del 327 a.C. il basileus è pronto per fare il suo ingresso in India. Dopo una marcia di dieci giorni lungo l’attuale Hindukush, raggiunge Nicea. Percorso il fiume Chopen e superato il passo Khyber, giunge ad Alessandria del Caucaso dove stanzia una guarnigione guidata da Nicanore. Divise le truppe, si dirige verso le pianure dell’Indo. A partire da questo momento ha inizio l’invasione. Ambhi, il rajah di Taxila, è il primo a fare atto di sottomissione con un dono di venticinque elefanti. A novembre, dopo aver diviso nuovamente le truppe, Alessandro è alla guida di sette battaglioni della falange. Si lancia verso l’area di Bajaur. Nella regione dello Swat deve far fronte a numerose resistenze, per cui ricorre a una strategia maggiormente aggressiva. Tra il Coe e la valle del Kunar riceve l’ambasceria di un villaggio che manifesta l’intenzione di sottomettersi. Si tratta di una città consacrata a Dioniso che, data la vicinanza al monte Meros e la presenza dell’alloro e dell’edera, viene denominata Nysa, dal nome della nutrice del dio.

 

L’arrivo a Nysa riveste un significato notevole. Alessandro qui stabilisce di imitare il “trionfo”  di Dioniso: dapprima ordina che i villaggi attraversati vengano cosparsi di fiori e di ghirlande, in seguito fa collocare sull’uscio delle abitazioni tazze piene di vino e vasi di mirabile grandezza. Esorta poi ad addobbare con tende bianche e drappi pregiati numerosi carri, coperti con tavole per ospitare i soldati. Gli amici e le guardie del re, ornati di fiori e di corone, si pongono all’inizio del corteo, seguiti da soldati in festa su carri decorati con armature preziose. Il re e i suoi convitati sfilano su un carro colmo di vasi e di coppe d’oro. L’esercito, così disposto, procede per sette giorni abbandonandosi all’orgia bacchica, bacchabundum agmen. «Mille uomini, per Ercole, - commenta con tono polemico Curzio Rufo - ma uomini veri e non ubriachi avrebbero potuto sopraffare in mezzo alla loro orgia i vincitori infiacchiti dalla gozzoviglia di sette giorni. Ma la fortuna, che dona fama e valore alle cose, volse in gloria anche questa turpitudine dei soldati. I contemporanei e poi i posteri si meravigliarono che quegli uomini avessero potuto avanzare in stato di ubriachezza in mezzo a popolazioni non ancora ben sottomesse. Ma i barbari scambiavano per sicurezza quella che era solo temerità» (IX 10).

 

In seguito Alessandro espugna la città-fortezza di Aorno, dove si sono compiute le gesta di Eracle, capostipite della dinastia degli Argeadi da cui discende Olimpiade, sua madre. Successivamente si dirige verso nord, volgendo verso l’Indo. Sulla riva occidentale imbarca i soldati più provati. Nel corso dell’estate del 326 inizia a maturare la consapevolezza che oltre il Punjab si estendono altri territori. Il confine del mondo è ancora lontano. Ad attenderlo altre battaglie. I suoi uomini, stremati dai combattimenti, iniziano a manifestare tutto il loro dissenso. 

 

Le fonti antiche indicano chiaramente le ragioni per cui Alessandro decide di non proseguire la sua spedizione in India: prima fra tutte, l’opposizione dell’esercito, ormai logorato da anni di guerre e desideroso di tornare a casa. Il malcontento incomincia ad appesantire gravemente non solo il morale, ma soprattutto la disciplina. La possibilità sempre più concreta di un “non ritorno” induce i soldati a una vera e propria forma di ammutinamento. Per l’enorme rispetto e ammirazione che nutrono nei confronti di Alessandro non si ribellano apertamente, ma tentano una strategia basata su lamentele che, col trascorrere del tempo, determina forti tensioni.

 

Secondo Curzio Rufo, a dominare è un clima di rassegnazione che altera la collaborazione tra comandante e soldati. Durante il passaggio dell’Ifasi, Alessandro tiene un’abile adlocutio: «La fama non corrisponde mai alla pura verità: essa ingrandisce ogni cosa rispetto al vero. Anche la nostra gloria, sebbene abbia un fondamento ben saldo, è più famosa di quanto non sia in realtà. Poco fa chi avrebbe creduto di poter superare bestioni simili a muraglie, il fiume Idaspe e tutti gli altri pericoli più gravi a udirsi di quanto non fossero in realtà? Già da tempo, per Ercole, saremmo fuggiti dall’Asia se ci fossimo lasciati abbattere dalle semplici favole. […] Che cosa vi spaventa? La grandezza degli elefanti o il numero dei nemici? Per quanto riguarda i primi, ne abbiamo un esempio recente: essi si sono scagliati con maggiore violenza contro i loro padroni che contro di noi; e i loro corpi giganteschi sono stati umiliati dalle nostre falci e dalle nostre scuri. Che cosa importa che essi siano tanti quanto quelli di Poro, o tremila, quanto basta ferirne uno o due perché siano trascinati in fuga tutti gli altri? […] Da parte mia, ho sempre tenuto in poco conto questi animali, tanto che, anche se ne avessi, non li impiegherei, ben sapendo che essi sono di danno più ai loro che ai nemici. […] Vi spaventa, invece, la moltitudine di fanti e di cavalieri? […] Il numero dei nemici non può avere la meglio sull’invitto valore dei Macedoni: ne sono una testimonianza il fiume Granico, la Cilicia, inondata di sangue persiano, Arbela, i cui campi sono seminati delle ossa di coloro che noi abbiamo debellato. Avete cominciato troppo tardi a contare le legioni nemiche, cioè dopo che con le vostre vittorie avete fatto dell’Asia un deserto». Di qui le conclusioni: «Finché vi avrò al mio fianco sul campo di battaglia, non conterò né i miei soldati né quelli dei nemici: mostratemi solo un animo ardente e fiducioso. Noi non siamo più all’inizio delle nostre imprese e delle nostre fatiche, ma alla fine. Ormai siamo giunti fin dove si leva il sole, fino all’Oceano: se non vi mancherà il coraggio, dopo aver conquistato il confine del mondo, ritorneremo vittoriosi in patria. Non fate come i contadini indolenti: non lasciatevi sfuggire dalle mani, per ignavia, i frutti maturi. I premi sono maggiori dei pericoli: la regione è nello stesso tempo ricca e imbelle. Perciò io vi conduco non tanto alla gloria quanto al bottino. Voi siete degni di portare in patria i tesori che quel mare deposita sul lido; voi siete degni di non lasciare nulla di intentato, di non tralasciare nulla per timore. Per voi, dunque, per la vostra gloria, che vi innalza sopra tutti gli uomini, peri benefici che io e voi ci siamo resi reciprocamente, senza mai lasciarci superare uno dall’altro, io vi prego e vi supplico che, al momento di toccare i confini del mondo, non vogliate abbandonare non dico il vostro re, ma il vostro allievo, alumnus, e commilitone, commilito». La prospettiva dell’ennesimo trionfo culmina nel ricordo degli avi: «[…] Non spezzate nelle mie mani una palma con la quale, se l’invidia degli dei non si opporrà, eguaglierò Ercole e Dioniso».

 

Alessandro chiede ai soldati di infrangere l’ostinato silenzio per lasciare spazio all’antico ardore combattivo. Il giovane re non riconosce più i suoi uomini, né gli sembra di essere riconosciuto da loro: «Già da tempo mi rivolgo a orecchie sorde e mi sforzo di eccitare animi ostili e abbattuti». Il silenzio corrode ancor più delle parole e logora: «Mi sembra di essere completamente solo: nessuno mi risponde, nessuno mi contraddice. A chi mi rivolgo? Che cosa domando? La vostra gloria e la vostra grandezza: ecco ciò che rivendico».

 

Alessandro si sente solo, abbandonato, tradito, consegnato al nemico. L’unica prospettiva sembra essere quella di cercare altrove uomini disposti a seguirlo, perché «è meglio morire che avere un potere precario». Che se ne vadano pure e facciano ritorno a casa. Che se ne vadano, trionfanti, dopo aver abbandonato il loro re. Alessandro si dice certo di trovare una via per conseguire la vittoria oppure per morire gloriosamente. Ma neppure dopo tale discorso riesce ad abbattere la cortina di incomunicabilità che lo separa dai suoi uomini: attoniti per la paura, gli ufficiali tengono lo sguardo fisso a terra. Il carisma di Alessandro ha perso vigore.

 

Come spiega Curzio Rufo, i soldati vorrebbero assecondare la volontà del re, ma non hanno più forza: sono stremati dalle ferite e dalle continue fatiche militari. La collera di Alessandro, di fronte alle lacrime dei suoi uomini, diviene compassione. Non riesce a trattenere le lacrime. L’assemblea è in preda al pianto.

 

Prende la parola Ceno, che elogia il progetto del sovrano in quanto degno del suo grande animo, ma decisamente ambizioso e alto per i soldati: «Infatti il tuo valore è sempre in aumento, ma la nostra energia è già al tramonto». Le parole di Ceno riflettono lo spirito dell’assemblea che tra grida, pianti e voci confuse acclama Alessandro rex, pater, dominus. Alessandro è incerto sul da farsi: non può né punire la loro ostinazione né frenare la propria ira. Per queste ragioni, scioglie il consiglio e si chiude nella tenda per tre giorni, divenendo inaccessibile anche agli amici più intimi. Il quarto giorno si rifugia nella pietas: esce dalla tenda e chiede agli dèi, mediante un sacrificio, la strada da intraprendere. I presagi danno un responso negativo riguardo alla conclusione dell’impresa. Alessandro si prostra di fronte alla volontà divina.

 

Ordina di realizzare dodici altari in pietra in segno di ringraziamento all’intero Pantheon che lo ha protetto. Infine proclama la conclusione della spedizione e l’inizio del rientro in patria. L’esercito è in preda a manifestazioni incontrollate di gioia. Vengono istituiti giochi, agoni musicali e atletici e celebrati sacrifici agli dèi. Viene compiuto un sacrificio propiziatorio.

 

Con ogni probabilità, nell’immagine di Alessandro si tratta soltanto di una resa temporanea, ma la morte improvvisa nega ogni possibilità. In punto di morte, il pensiero è ancora una volta rivolto a Zeus. Fa avvicinare gli amici, sfila l’anello dal dito e lo consegna a Perdicca, raccomandandogli di far trasportare il suo corpo al tempio di Giove Ammone. Desidera donare l’anello al migliore dei suoi uomini. Perdicca chiede quando avrebbero dovuto tributargli onori divini e Alessandro risponde: «Quando sarete felici». Queste sono le sue ultime parole. Morendo, Alessandro trascina via con sé ogni progetto. Eppure il suo sogno non muore con lui. È dentro di noi. Ed è straordinario e perfetto. Come straordinario e perfetto è tutto ciò che appartiene alla storia.



 

 

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