N. 64 - Aprile 2013
(XCV)
ALESSANDRO MAGNO tra cinema e fumetti
RAPPRESENTAZIONE di un mito - parte i
di Stefano Biosa
L’età
contemporanea
s’interessa
ancora
alla
figura
di
Alessandro
il
Macedone
ma
con
un’intensità
di
minor
tenore:
rimosso
completamente
l’alone
magico
e
gli
elementi
fantastici,
il
personaggio
del
Conquistatore
resta
al
centro
del
dibattito
storiografico,
laddove,
più
che
fornire
un
modello
di
potere
da
imitare,
si
cerca
di
ricostruirne
sulla
base
delle
fonti
la
vicenda
storica
e
umana.
La
sua
narrazione,
pur
restando
alimentata
da
una
sterminata
letteratura
e
critica
storiografica,
è
arricchita
dalla
rappresentazione
cinematografica
e
fumettistica,
vera
erede
quest’ultima
della
millenaria
tradizione
figurativa,
capaci
di
cogliere,
nella
loro
visione
artistica,
il
lato
più
marcatamente
storico
e
quanto
di
mitico
e
leggendario
viene
da
sempre
tramandato
con
esso.
Proprio
questi
linguaggi
palesano
una
particolare
attitudine
a
rappresentare,
rigenerandolo,
l’elemento
mitico.
Il
mito,
com’è
stato
osservato,
si
rigenera
sul
grande
schermo,
che
diviene
il
più
importante
vettore
di “particelle
mitologiche”
del
nostro
tempo;
e
proprio
il
mito
e la
storia
antica
sono
stati
usati
sin
dall’inizio
del
cinema
come
strumento
di
legittimazione
del
medium
e di
conquista
del
grande
pubblico.
Il
cinema
in
particolare
mostra
questa
propensione
a
narrare
la
storia
insieme
alla
leggenda,
fornendo
un
ristretto
numero
di
quelli
che
Borges
chiamava
“archetipi
narrativi”
(assedio
di
una
città
potente,
il
viaggio/ritorno,
la
ricerca,
il
sacrificio).
Le
medesime
fonti
storiche
e la
propaganda
della
corte
macedone
avevano
consapevolmente
narrato
la
storia
di
Alessandro
come
un
racconto
intessuto
di
questi
archetipi
narrativi:
l’educazione
come
percorso
iniziatico
e
formativo,
la
conquista
militare
come
la
ricerca
ossessiva
della
gloria,
la
spedizione
indiana
come
(ri)scoperta
della
terra
perduta
e la
stessa
morte
come
il
sacrificio
del
dio.
Il
cinema,
trasmutandosi
in
una
sorta
di
specchio
magico
che
fa
combattere
assieme
al
Macedone,
si
propone
non
di
riflettere
i
dati
della
realtà
quanto
piuttosto
di
collegarsi
alle
radici
del
mito,
generando
mondi
scomparsi
ma
più
reali
del
reale
e
utilizza
l’antico
e il
mito
per
parlare
del
presente,
delle
sue
aspirazioni
e
illusioni.
L’antico
del
resto
riaffiora
sempre
quando
capita
di
approfondire
i
temi
e
l’orizzonte
del
presente.
La
manicheizzazione
che
vi
compare,
soprattutto
con
riferimento
alla
produzione
cinematografica
più
datata,
è
spesso
una
scelta
ben
consapevole
alla
luce
della
politica
contemporanea,
che
fa
dell’eroe
un
personaggio
facilmente
riconoscibile
al
pubblico,
capace
di
potersi
schierare
assieme
o
contro
di
esso.
Il
mito
però
non
è
semplicemente
riproposto
nella
narrazione
delle
sopravvivenze
dell’antico
ma è
mutato,
e
questo
grazie
al
cambiamento
delle
forme,
col
passaggio
da
una
percezione
all’altra
di
diversa
consistenza
e
qualità:
dalla
immaginazione
alla
ricostruzione
tramite
le
immagini.
Accanto
a
questa
astratta
attitudine
del
linguaggio
cinematografico
e
fumettistico
(che
anzi
rispetto
al
primo
appare
dotato
di
una
più
marcata
energia
metamorfica)
a
narrare
del
passato
e
del
mito
si
pone
il
problema
del
rapporto
non
sempre
idilliaco
tra
cinema
e
disciplina
storiografica,
in
considerazione
della
frequente
inadeguatezza
degli
studiosi
a
comunicare
al
grande
pubblico
i
risultati
della
loro
ricerca
in
termini
fruibili
a
fronte
dell’opposto
rischio
di
una
sostanziale
banalizzazione.
Capita
spesso,
infatti,
che
il
cinema
sostituisca
nella
conoscenza
della
storia
del
passato
del
grande
pubblico,
in
virtù
della
sua
vis
penetrativa,
le
medesime
fonti
storiografiche.
Benché
talora
molto
vicini,
cinema
e
storia
si
toccano
ma
non
si
identificano
completamente,
anche
laddove
il
cinema
si
avvalga
della
consulenza
e
del
lavoro
degli
storici.
Del
resto
lo
scopo
del
cinema
non
è
certo
costituito
dalla
veridicità
storica
ma
dal
successo,
in
altre
parole
dalla
capacità
sia
di
ripagare,
grazie
al
consenso
del
pubblico,
i
costi
di
produzione
di
quella
che
resta
pur
sempre
un’opera
d’arte,
sia
di
generare
un
profitto.
La
mancanza
di
autenticità
dei
film
storici
non
inficia
il
valore
del
film,
in
quanto
necessaria
miscela
di
fatti
e
finzioni.
L’identificazione
tra
verità
storica
e
verità
filmica
viene
impedita
del
resto
da
molteplici
fattori:
lacunosità
delle
fonti
storiche,
limitatezza
delle
risorse
di
produzione,
scelte
tecniche
o
attori
utilizzati,
essendo
la
priorità
il
successo
dell’opera
cinematografica
e
non
il
consenso
degli
esperti.
Ed è
con
riferimento
a
questa
prospettiva
che
deve
essere
interpretato
l’uso
dell’anacronismo,
il
quale
finisce
funzionalmente
per
favorire
la
fruizione
del
pubblico
a
discapito
della
veridicità
storica.
Anzi,
si
può
andare
oltre
e
configurare
l’anacronismo
necessario
come
legge
della
creazione
poetica
propria
dell’ottava
arte,
per
cui
da
punto
di
vista
poetico-creativo
conservano
la
stessa
validità
una
ricostruzione
filologica,
onirica
o
deruta
dell’antichità.
La
figura
di
Alessandro,
definita
dal
medium
del
cinema
o
del
fumetto,
dovrà
essere
valutata
iuxta
principia
artis
e
non
sulla
confutazione
pedissequa
degli
anacronismi
che
in
essa
vi
compaiono,
dai
dettagli
circa
la
capigliatura
corta
del
Macedone,
la
lunga
barba
incolta
degna
di
un
pope,
l’uso
di
pesanti
tappeti
di
foggia
ottocentesca
alle
più
rilevanti
alterazioni
operate
della
sceneggiatura.
Alla
luce
di
questa
premessa,
si
cercherà
di
gettare
uno
sguardo
sulla
produzione
filmica
e
fumettistica
che
ci
illustreranno
la
moderna
percezione
artistica
della
figura
del
Macedone
e
quanto
resti
delle
rappresentazioni
del
passato.
Poche
sono
alla
fine
le
pellicole
che
trattano,
direttamente
o
indirettamente,
le
gesta
di
Alessandro,
benché
la
sua
vita
sia
stato
un
fruttifero
campo
di
ispirazione
per
i
cineasti;
si
pensi,
oltre
ai
film
di
Rossen
e
Stone,
anche
ad
Alexander
den
store
(Mauritz
Stiller,
Svezia
1917),
Sikandar
(Sohrab
Modi,
India,
1941),
Goliath
e la
schiava
ribelle
(Mario
Caiano,
Italia,
1963),
e
all’anime
giapponese
Alexander
Senki
(Rin
Taro,
1997).
Questa
difficoltà,
del
resto
ben
testimoniata
anche
in
tempi
recenti
dai
progetti
poi
abortiti
di
registi
importanti
(M.
Scorzese,
R.
Scott
e
Baz
Lurhmann),
annunciati
quasi
in
concomitanza
al
film
di
Oliver
Stone,
è in
parte
ascrivibile
all’oggettiva
difficoltà
di
organizzare
una
rappresentazione
drammaturgicamente
valida
di
un
personaggio
la
cui
storia
spesso
s’incrocia
col
mito.
Le
produzioni
cinematografiche
realizzate
ci
permettono
comunque
di
tracciare
un
quadro
abbastanza
esauriente
di
quanto
della
figura
di
Alessandro,
a
distanza
di
molti
secoli,
colpisca
ancora
l’attenzione
e la
sensibilità
dell’uomo
contemporaneo.
Pur
non
essendo
un
canone
vivo,
archetipo
del
potere
fondato
su
di
una
concezione
sacrata
della
regalità,
Alessandro
può
essere
utilizzato
ancora
per
una
riflessione
sulla
natura
corruttrice
di
un
potere
assoluto
e
sanguinario,
sul
fascino
dell’Oriente
e di
un
mondo
aperto
a
una
vasta
e
completa
integrazione
(prefigurazione
della
moderna
globalizzazione),
oppure
come
evocazione
di
un
mondo
perduto
e
mitico
e
precluso
al
dominio
umano,
la
cui
conquista
ha
necessariamente
esiti
drammatici.
Il
simbolo
è
ancora
potente
e
capace
di
parlare
all’uomo
moderno;
in
particolare
due
pellicole
narrano
direttamente
di
Alessandro:
Alexander
the
Great
(1955)
di
Robert
Rossen
e il
più
recente
Alexander
(2004)
di
Oliver
Stone,
mentre
resta
negli
altri
film
come
substrato
narrativo
(come
in
The
Man
Who
Would
Be
King
di
John
Huston
del
1975,
tratto
dall’omonimo
racconto
di
R.
Kipling)
o
come
simbolo
legato
alla
cultura
popolare
ed
esposto
ad
una
critica
del
potere
assoluto
e
tirannico
(come
il
Megalexandros
di
T.
Anghelopulos
del
1980).
È
interessante
notare
come
i
film
di
Rossen
e
Stone
siano
accomunati
dalla
medesima
fama
di
opere
incomplete
e
marginali
nella
produzione
artistica
dei
rispettivi
registi,
ispirandosi
a
due
concezioni
della
figura
di
Alessandro,
poste
alla
base
delle
soluzioni
stilistiche
e
narrative
poi
adottate,
completamente
diverse.
In
particolare,
il
film
di
Rossen
in
certi
momenti
parte
da
una
critica
al
totalitarismo,
dovuta
senza
dubbio
alla
caccia
alle
streghe,
intrapresa
dalla
Commissione
sulle
Attività
Antiamericane
nel
1953,
che
spinse
il
regista
americano
a
denunciare
come
appartenenti
al
partito
comunista
se
stesso
e
diverse
persone
dell’industria
cinematografica,
costringendolo
al
ritiro
in
Europa.
Questa
pellicola,
girata
in
Spagna,
subì
una
pesante
amputazione
di
circa
cinquanta
minuti
imposta
dalla
Metro
Golwin
Mayer
che
rese
difficoltosa
la
comprensione
di
alcune
parti,
come
la
relazione
con
il
padre
Filippo
e il
tentativo
sofferto
della
propria
divinizzazione
in
vita.
Rossen
scelse
il
racconto
di
Plutarco
come
la
base
della
sceneggiatura,
senza
riuscire
ad
armonizzare
gli
elementi
tratti
dalle
diverse
fonti
della
tradizione
(basti
pensare
alla
figura
di
Nectanebo
che
compare
solo
nel
Romanzo)
e la
dialettica
tra
Demostene
ed
Eschine
delle
prime
sequenze
rivela
una
concezione
molto
americana
e
strettamente
bipolare
della
politica.
L’Alessandro
che
emerge
è
legato
ad
una
struttura
narrativa
e
cronologica
lineare,
in
cui
la
figura
del
Condottiero,
dopo
l’apprendistato
del
potere
e
l’ascesa
al
trono
a
seguito
dell’uccisione
del
padre
(il
rapporto
con
il
quale
è
ricondotto
a
tratti
decisamente
edipici)
si
focalizza
in
momenti
ben
determinati
ed
emblematici
della
sua
leggenda.
Il
film
s’interrompe
con
la
conquista
dell’Asia
Minore
e la
Persia
è
solo
evocata
in
modo
sommario
mentre
manca
completamente
l’India
e
solo
delle
fugaci
impressioni
alludono
all’ampiezza
dei
viaggi
e
delle
conquiste.
Emblematicamente
è
evocata
l’immagine
di
una
Grecia
dominata
dalla
Ragione
e il
film
stesso
si
apre,
come
visto,
con
la
disputa
sulla
politica
estera
di
Filippo
II
tra
Demostene
ed
Eschine,
ad
Atene,
in
cui
il
λόγος
definisce
il
senso
delle
conquiste
militari
del
re
di
Macedonia,
visto
come
minaccia
mortale
per
la
libertà
delle
città-stato
greche.
In
questa
dimensione
unidirezionale
della
storia
predomina
quindi
un’interpretazione
umana
e
psicologica
di
Alessandro,
nobile
e
generoso
ma
anche
imprevedibile
e
crudele
la
cui
avventura,
depurata
di
ogni
elemento
mitico
e
sacrale,
sembra
limitata
alla
sola
dimensione
della
conquista
militare
dell’Asia.
La
riflessione
di
Rossen,
che
ha
una
profondità
non
riscontrabile
nei
film
di
genere
del
suo
periodo,
appare
segnata
da
una
bassa
convenzionalità
e
centrata
sul
ruolo
corruttivo
del
potere
assoluto.
La
figura
di
Alessandro
è
quella
del
conquistatore,
radicata
nella
tradizione
occidentale
e
costruita
da
riferimenti
in
corso
di
standardizzazione
nell’Hollywood
degli
anni
Cinquanta.
Profondamente
differente
appare
l’opera
di
Stone
il
cui
richiamo
a
dimensione
onirica
maggiormente
sfumata
è
sottolineato
sin
dai
titoli
di
testa,
che
denotano
la
preferenza
per
un
mondo
oscuro
e
misterioso,
sospeso
tra
il
mito
e
l’Oriente
(con
la
rievocazione
del
disco
alato
ahuramazdiano
e
delle
sfingi
assire
di
Babilonia),
nonché
culturalmente
eterogeneo
nella
rappresentazione
visiva
dei
molti
alfabeti
che
si
sfumano
l’uno
nell’altro.
La
scelta
narrativa
è
legata
a
una
linea
cronologica
più
involuta,
caratterizzata
da
numerosi
flash-back
e le
immagini
del
mito,
sebbene
sia
più
evocato
che
sviluppato,
si
sovrappongono
alle
immagini
della
storia.
Anche
Stone
dà
una
lettura
fortemente
psicologica
e
edipica
della
figura
del
Macedone,
che
insiste
sui
rapporti
omosessuali
con
Efestione
e
Bagoa.
Questo
gusto
“psicologizzante”
–
tanto
presente
nella
cinematografia
americana
–
ruota
attorno
al
rapporto
ambiguo
con
la
madre
Olimpiade,
in
cui
confluiscono
i
miti/complessi
di
Edipo
e di
Medea
e
che
proietta
la
propria
immagine
anche
su
Rossane,
la
principessa
asiatica
presa
in
moglie
e
cui
lo
sposo,
la
prima
notte
di
nozze,
sussurra
all’orecchio:
“Se
tu
non
fossi
un
pallido
riflesso
del
cuore
di
mia
madre!”.
E la
Rossane
di
Stone,
che
seduce
Alessandro
con
una
danza
che
ricorda
quella
dei
dervisci
rotanti,
è
davvero
un
riflesso
della
madre,
tant’è
che
le
due
attrici
(la
Jolie
e la
Dawson,
molto
somiglianti)
sono
riprese
nelle
stesse
inquadrature.
Stone,
al
contrario
di
Rossen,
apre
comunque
agli
eroi
del
mito
(come
nella
sequenza
del
dialogo
di
Alessandro
col
padre
nella
grotta
affrescata
con
dipinti
arcaici
e
mitologici,
metaforica
immersione
nel
profondo)
ed è
Eracle
–
eroe
del
γένος
paterno
– a
segnare
la
nascita
e la
morte
del
Macedone
che,
come
il
piccolo
Eracle,
stringe
nelle
mani
i
serpenti
della
madre.
E
quando,
nell’ultimo
banchetto
da
Medio
a
Babilonia,
avvicina
alle
labbra
la
coppa
fatale
(adombrando
il
regista
l’ipotesi
della
congiura),
il
Macedone
porta
sul
capo
la
testa
di
leone
attributo
di
Eracle
che,
per
un
espediente
registico
di
grande
suggestione,
sembra
bere
dallo
scifo
decorato
con
le
imprese
dell’eroe,
un
attimo
prima
di
vedere
sul
fondo,
come
un
novello
Perseo,
la
testa
di
Olimpiade-Medusa.
Quello
che
più
di
tutto
caratterizza
la
reinvenzione
immaginale
di
Stone
è il
rapporto
con
l’Oriente
che
sembra
definito
sin
dall’inizio:
manca
un
cambiamento
dal
piano
di
vendetta
dei
Greci
e la
conquista
dell’Asia
sembra
ab
origine
finalizzata
alla
fondazione
di
un
impero
universale.
La
geografia
del
mito
è
polarizzata
sulla
Babilonia
visionaria
di
Moreau
e
sull’India,
ma
tace
in
modo
assordante
su
Troia,
e
sugli
episodi
più
famosi
dell’epopea
umana
di
Alessandro:
il
nodo
di
Gordio,
la
battaglia
del
Granico,
l’assedio
sanguinoso
di
Tiro
e
Gaza,
il
viaggio
verso
Siwa
e
della
drammatica
ritirata
attraverso
la
Gedrosia,
solo
fugacemente
evocata.
Si
avverte
tuttavia
sottotraccia
il
paragone
con
la
politica
di
Bush
e
della
rapina
statunitense
delle
risorse
del
Medioriente,
laddove
Alessandro
prendendo
in
moglie
un’asiatica
e
non
trattando
i
vinti
da
barbari
da
sfruttare:
“è
stato
un
grande
generale
che
ha
portato
prosperità
in
quello
che
era
allora
il
mondo
conosciuto”.
Stone
sembra
riconoscere
nel
desiderio
di
impero
del
Macedone
essenzialmente
un
movimento
espansivo
e
senza
misura
di
un
progetto
che
apre
gli
orizzonti
e i
confini
dati,
volto
a
mescolare
le
razze,
non
a
saccheggiare
o
distruggere
e
ben
lontano
dall’istinto
predatorio
del
mondo
moderno.
Del
personaggio
sospeso
tra
mito
e
storia
Stone
decide
di
mostrare
soprattutto
il
volto
del
conquistatore
inquieto,
straordinario
condottiero
che
avrà
il
suo
Vietnam
in
India,
umanamente
fragile
e
privo
dell’aura
millenaria
d’invincibilità
soprannaturale.
Al
pari
di
Rossen
ci
consegna
un
Alessandro
imperfetto
definito
da
una
sintesi
drammaturgicamente
incompiuta,
il
quale
trova
la
sua
rosebud
nell’anello
di
Efestione
che,
emblematicamente,
suggella
l’inizio
e la
fine
del
film.
La
figura
di
Alessandro
Magno
è
presente
non
come
protagonista
ma
come
figura
evocata,
substrato
mitico
–
narrativo,
nel
film
di
John
Huston
The
Man
Who
Would
Be
King
(1975),
tratto
da
un
racconto
giovanile
semisconosciuto
di
Kipling.
Lo
scrittore
(interpretato
da
Christopher
Plummer)
è il
testimone
delle
avventure
di
due
ex
sottoufficiali
dell’esercito
coloniale
inglese,
Daniel
Dravot
(Sean
Connery)
e
Peachy
Carnehan
(Michael
Caine),
entrambi
fratelli
massoni
che
decidono
di
conquistarsi
un
regno
tra
le
montagne
dell’inaccessibile
Kafiristan,
un
tempo
conquistato
da
Alessandro.
I
due
si
mettono
in
marcia,
con
un
carico
di
fucili,
verso
la
loro
“terra
promessa”
che
raggiungeranno
dopo
aver
affrontato
predoni,
superato
fiumi
impetuosi
e
montagne
inaccessibili.
Quasi
a
segnalare
l’ingresso
in
una
dimensione
sospesa
tra
realtà
e
mito,
i
protagonisti
sono
accolti
in
Kafiristan
da
due
idoli
spaventosi
di
legno
posti
sui
ghiacciai
montani
volti
a
scoraggiare
l’arrivo
di
stranieri,
ma
prontamente
finiti
bruciati
come
legna
da
ardere.
Il
paese
che
trovano
profondamente
isolato
e
arretrato,
diviso
tra
tribù
bellicose
in
eterno
conflitto
tra
loro,
viene
facilmente
conquistato
finché
in
una
scaramuccia
Dravot,
il
più
ambizioso
dei
due,
viene
colpito
da
una
freccia
che
non
gli
cagiona
alcuna
ferita
perché
trattenuta
dalla
cinghia
della
sua
bandoliera.
L’evento
diffonde
la
fama
della
sua
invulnerabilità
e
gli
procura
l’invito
del
Gran
sacerdote
della
città
proibita
di
Sikanderghal
– la
città
santa
del
Kafiristan
–
dove
viene
catturato
per
essere
sottoposto
nuovamente
alla
prova
della
freccia.
Il
Gran
sacerdote
si
blocca
però
alla
vista
del
medaglione
massonico
col
compasso
e
l’occhio
onniveggente
pendente
al
collo
dell’inglese
e
uguale
al
simbolo,
posto
sotto
il
piedistallo
della
statua
del
dio
Sikander
–
Alessandro
e
rivelato
nello
stupore
generale.
Dravot
è
riconosciuto
come
il
discendente
del
conquistatore,
che
secoli
prima
aveva
promesso
il
ritorno
di
suo
figlio;
dopo
essere
diventato
re e
proprietario
di
un
immenso
tesoro,
decide
di
non
scappare
con
l’immenso
bottino
ma
di
restare
per
governare
il
suo
regno,
convinto
della
missione
divina
da
compiere.
Fatale
errore
sarà
quello
di
volersi
sposare,
rompendo
il
tabu
rispettato
per
secoli.
Il
giorno
delle
nozze
la
sua
mortalità
viene
scoperta
dalla
sposa
Rossane
che
lo
graffia
per
il
timore
di
essere
incenerita
dal
contatto
con
un
essere
divino.
La
vista
del
sangue
scatena
la
rivolta
dei
sacerdoti
e
della
popolazione
e
Dravot
finirà,
assieme
ai
muli
che
portavano
l’oro
razziato,
in
un
profondo
abisso.
Solo
Peachy
si
salverà
e
sarà
dalla
sua
bocca
che
lo
scrittore
inglese
apprenderà
la
loro
storia.
Il
racconto
di
Kipling
contiene
in
filigrana
la
parabola
dell’imperialismo
britannico,
nella
storia
dei
due
avventurieri
che
conquistano
un
territorio
primitivo,
portandovi
la
civiltà
e la
giustizia
in
cambio
di
potere
e
ricchezze,
anche
se
Huston
introduce
una
vena
più
critica
dell’immagine
del
Regno
Unito
civilizzatore.
Tuttavia
accanto
a
questa
lettura
se
ne
può
ritrovare
una
che
si
ricollega
alla
messa
in
scena
del
mito
della
città
perduta,
dell’eterno
ritorno,
della
conquista
e
del
sacrificio.
Il
Macedone
fondatore
della
città
sacra
di
Sikandarghal
è
contemporaneamente,
in
piena
linea
con
la
tradizione
storiografica
ma
soprattutto
letteraria
(si
pensi
al
Romanzo
di
Alessandro)
uomo
e
superuomo,
o
meglio
oltreuomo,
sospeso
in
una
dimensione
eroica
e
sacrale,
attestata
dai
prodigi
e
vaticini
narrati
dalla
tradizione,
fondatore
e
civilizzatore
e
che
prefigura
un
suo
ritorno.
Le
premesse
del
mito
di
Alessandro,
attestate
del
resto
dai
suoi
viaggi
fantastici,
sono
destinate
a
essere
irrealizzate,
in
quanto
uno
stato
mentale
superiore,
rappresentato
dal
Gran
Sacerdote
della
città
sacra,
alla
fine
si
scontra
con
una
condizione
umana
incapace
di
rielaborare
compiutamente
il
mito,
decretando
la
sconfitta
della
mentalità
moderna,
inadeguata
e
fondata
su
di
una
base
puramente
razionale.
Il
ciclo
viene
chiuso
con
un
sacrificio
incompleto,
che
non
mira
all’acquisizione
di
una
dimensione
universale
di
salvezza,
incapace
di
capire,
come
era
stato
acutamente
osservato
nel
Romanzo
dell’Utopia
di
Klaus
Mann
anche
con
riferimento
al
vero
Alessandro,
il
senso
e la
potenza
del
suo
sacrificio
(“il
dio
deve
morire”).
Il
sacrificio
e la
morte
dell’uomo/Dravot
sono
marcati
dall’ingordigia
umana,
che
tenta
di
elevarsi
ad
(auto)legittimazione
a
una
missione
divina
e
dall’ambizione
umana
di
attingere
una
dimensione
superiore
cui
non
è
legittimata.
Questo
il
messaggio
del
Kipling
iniziato
(in
realtà
massone,
come
i
due
protagonisti
del
racconto)
che
passa
potentemente
anche
se
forse
inconsapevolmente
nel
film
di
Huston,
segnando
nettamente
una
linea
di
demarcazione
con
una
tradizione
non
più
presente,
che
aveva
reso
Alessandro
l’emblema
vivente
di
una
sintesi
compiuta
tra
eroismo,
regalità
e
sacralità.
Benché
solo
indirettamente
riferito
al
Macedone,
la
cui
figura
filtrata
dalla
tradizione
popolare
del
romanzo
greco
moderno
è
trasformata
in
una
sorta
di
liberatore-messia
dall’oppressione
ottomana,
si
deve
segnalare
anche
il
film
di
Theo
Anghelopulos
“Megalexandros”,
vincitore
del
Leone
d’oro
a
Venezia
nel
1980.
Il
film,
ispirato
oltre
che
alla
tradizione
popolare
del
romanzo
moderno
anche
a un
fatto
accaduto
in
Grecia
nella
seconda
metà
dell’Ottocento,
è
stato
definito
nelle
parole
dello
stesso
regista
come
rappresentazione
del
passaggio
dal
mythos
al
logos,
riflessione
sulla
natura
del
potere
carismatico
alla
luce
dell’avvento
del
socialismo.
All’alba
del
primo
gennaio
1900
un
brigante
di
nome
Alessandro,
ribattezzato
“Il
Grande”
dal
popolo
che
lo
considera
la
reincarnazione
del
famoso
condottiero
macedone,
evade
con
dodici
compagni
dal
carcere
di
Atene
e
sequestra
un
gruppo
di
nobili
turisti
inglesi,
reduci
dalla
festa
di
fine
anno.
In
attesa
di
ottenere
con
il
loro
riscatto
la
liberazione
dei
prigionieri
politici,
nonché
la
distribuzione
ai
contadini
delle
terre
appartenenti
ai
ricchi
proprietari
terrieri,
Alessandro
si
trasferisce
nel
villaggio
natale,
dove
viene
salutato
come
un
liberatore.
Tra
gli
aspri
monti
della
Macedonia
accoglie
nella
sua
banda
armata
un
esiguo
gruppo
di
anarchici
italiani
riparati
in
Grecia,
e
stringe
un
accordo
con
i
contadini
del
luogo
che,
sotto
la
guida
di
un
generoso
insegnante
socialista,
hanno
instaurato
una
società
comunitaria,
fondata
sulla
comunanza
dei
beni.
Mentre
l’esercito
regolare,
mobilitato
per
liberare
gli
ostaggi
inglesi,
cinge
d’assedio
il
villaggio,
l’armonia
tra
anarchici
e
socialisti
si
rompe,
dando
luogo
a
rivalità
e
lotte
fratricide.
Fallita
qualsiasi
trattativa
diplomatica
con
il
governo,
il
megalomane
Alessandro
è
eletto
capo
con
il
consenso
generale
e si
trasforma
ben
presto
in
un
tiranno
violento
e
intollerante;
dopo
soprusi
e
intimidazioni
ai
danni
della
comunità
contadina
e
dei
suoi
avversari,
uccide
i
membri
della
Comune
e
gli
inglesi
tenuti
in
ostaggio.
L’intervento
dell’esercito
che
attacca
il
villaggio
pone
fine
al
massacro,
uccidendo
i
banditi
e lo
stesso
Alessandro,
il
cui
corpo
sarà
divorato,
in
senso
metaforico,
dai
contadini
assetati
di
giustizia
sociale.
Mentre
“il
Grande”
Alessandro
diviene
un
personaggio
leggendario
– ne
suggella
la
fama
l’enigmatica
comparsa,
in
mezzo
alla
piazza,
del
busto
di
gesso
del
condottiero
macedone
– il
giovane
Alessandro,
un
ragazzo
che
ha
raccolto
l’eredità
ideale
del
suo
maestro
socialista
e
l’esperienza
di
quanto
è
accaduto,
lascia
il
villaggio
e
s’avvia
a
cavallo
verso
l’Atene
contemporanea.
Gli
Alessandri,
i
vendicatori
dei
poveri,
possono
sbagliare
e
pagare
con
la
vita
gli
errori
commessi
senza
scomparire
dalla
storia
ma
risorgendo
sempre,
poiché
incarnazione
delle
più
vitali
aspettative
dei
popoli.
La
figura
del
Macedone,
retaggio
dell’antichità
e
filtrata
dalla
tradizione
popolare,
resta
sullo
sfondo
come
archetipo
di
un
potere
carismatico,
assoluto
ma
tirannico
e
sanguinario.
Incarnato
in
una
sorta
di
Messia
alla
rovescia
e
contornato
da
dodici
ladroni-apostoli
anziché
liberare
distrugge
ed
opprime
il
suo
popolo.
Il
suo
esercizio
non
è
più
finalizzato
al
sogno
dell’edificazione
di
una
monarchia
universale,
ma è
posto
in
relazione
a
quello
che
è
stato
il
sogno
di
tutto
il
Novecento,
il
socialismo,
di
cui
Anghelopulos
rievoca
le
tre
anime
popolare,
anarchica
ed
intellettuale.
Lo
stesso
sacrificio
dell’eroe,
ucciso
e
cannibalizzato
dalla
massa
dei
contadini,
è
depurato
del
carattere
mistico
e
sacrale
della
tradizione
classica
e
posto
al
servizio
dell’interiorizzazione
dell’esempio
politico
delle
masse.
Accanto
alla
lezione
di
dialettica
storica
e di
riutilizzo
del
modello
filtrato
dalla
tradizione
popolare,
è
interessante
notare
la
solennità
con
cui
è
scolpita
la
carismatica
figura
di
Alessandro,
non
più
posta
all’edificazione
di
un
modello
vivente
di
regalità
personale
e
carismatica.
La
cinepresa
coglie
ancora
una
volta
la
profondità
del
simbolo.