N. 19 - Dicembre 2006
ALESSANDRO
MAGNO. ALESSANDRO III DI MACEDONIA
La battaglia dell'Idaspe
- Parte XV
di
Antonio Montesanti
Finalmente l'esercito era giunto sulle rive dell'Indo che
venne attraversato sul ponte di barche che il
Comandante aveva ordinato di costruire nei pressi del
guado di Ohind (Udabhandapura), ad Efestione e
Perdicca, 25 chilometri a nord di Attock. Come tutti i
momenti topici che coronavano l’impresa macedone,
Alessandro commemorò anche questo, con splendidi
sacrifici e imponenti giochi atletici.
Il regnante locale, Omfi (Ambhi, poi chiamato ufficialmente
Taxila), non solo aveva già offerto il suo aiuto ad
Alessandro in Sogdiana, con 30 elefanti e 700
cavalieri, aveva anche rifornito Efestione durante la
costruzione del ponte e si ripropose ad attendere
l’intero contingente quando questo avrebbe
attraversato il fiume sacro. Al Macedone presentava le
sue potenzialità: un seguito più che maestoso, al cui
interno si trovavano altri 30 elefanti, donativo,
insieme a molte altre meraviglie, per il suo nuovo
Signore.
Taxila venne, per prima cosa, riconfermato sul suo trono
che aveva ricevuto dal padre, con la supervisione di
un satrapo macedone, Filippo; inoltre ottenne una
serie di elargizioni e di doni decisamente più
preziosi di quelli che lui stesso offriva.
Arriano oltre a descrivere il maestoso ingresso nella
capitale Taxila (Takshicila), una trentina di
chilometri a nordovest della moderna Islamabad, del Re
accompagnato dal suo nuovo vassallo, riferisce che
questa era la città più grande tra l'Indo e l'Idaspe.
Qui si svolsero ancora feste, banchetti, celebrazioni e
giochi che servivano da “contorno” per tutte le mosse
diplomatiche che i due regnanti si preparavano a
compiere, e come ogniqualvolta ci si fermasse prima di
campagne impegnative, Alessandro riorganizzò
militarmente la spedizione: creò una quinta ipparchia,
affidata a Ceno, il quale era stato sostituito nel
comando della tàxis da Antigene, a cui si
affiancavano le altre sei guidate da Meleagro, Gorgia,
Alceta, Poliperconte, Attalo e Clito il Bianco, oltre
a tutti gli ipaspisti sotto la guida di Seleuco;
inoltre integrò 5000 indiani di Taxila, nonché dei
cavalieri sogdiani, battriani e sciti, e gli arcieri
di Taurone: per un totale di effettivi che raggiunse
nuovamente le 40.000 unità circa.
È ovvio che Taxila contasse di poter sfruttare il Macedone
nel modo a lui più consono per poter in qualche
maniera, diplomaticamente o tramite la guerra,
soggiogare i due sovrani dei regni confinanti ed
entrambi suoi nemici.
Durante gli scambi diplomatici il più lontano dei due
dinasti, dal punto di vista del confine, Abisare,
signore della zona montana del Rajauri e del Bimbro,
si mantenne su posizioni che formalmente non davano
adito a dualità ma che lo ponevano in una situazione
di prudenza, tanto che fece atto formale di
sottomissione, mentre l'altro, Poro, non concesse
alcun atto d’amicizia ed anzi si proclamò
manifestatamene ostile.
Tutti i regni di cui venne a sapere il Macedone avevano un
loro confine naturale, nei monti del Kashmir: mentre
Taxila regnava sul territorio compreso tra i fiumi
Indo e Idaspe, Poro era a capo della regione
delimitata dai fiumi Idaspe (Jhelum, in indiano
antico, Vidastd) e Acesine (Chenab). Dopo il
Chenab, sorgeva una serie di tribù, i malli, i catei e
gli ossidraci, che erano riusciti a confederarsi
contro Poro.
La ricchezza di questi luoghi è testimoniata dalla presenza
in questo territorio di oltre 300 città ed un esercito
considerevole che poteva contare, poiché ben
utilizzati, sulla divisione di elefanti, il cui
impiego bellico era talmente preciso sia in quantità
che in qualità, tanto da mettere in difficoltà
qualsiasi nemico.
La nuova terra offriva ai conquistatori/esploratori motivi
di curiosità data dalle tante attrattive della nuova
civiltà, ogni giorno che passava l’entourage macedone,
a cominciare dal suo Re, rimanevano colpiti dagli usi
e costumi locali, e soprattutto dalle pratiche
ascetiche dei saggi bramini, tanto che uno di essi,
tal Calano, venne aggregato al suo seguito. Tuttavia
le esigenze militari si sovrapponevano alla curiosità
scientifica.
Il Generale era convinto che Poro si sarebbe arreso e inviò
Cleocare come messo affinché l’indiano versasse un
tributo e venisse incontro a lui sulle rive dell’Idaspe,
dove si sarebbe formalmente sottomesso e avrebbe
aperto le porte del suo regno.
Ottenuta la risposta diplomatica negativa da parte di Poro,
Alessandro diede l’ordine alle sue truppe di partire
immediatamente verso l’Idaspe, non prima di aver
spedito Ceno sulle sponde dell'Indo affinché smontasse
le barche utilizzate per il passaggio del fiume e le
portasse sull’Idaspe: era fondamentale raggiungere e
cercare di varcare il fiume prima della piena che
sarebbe giunta di lì a poco: ci si trovava infatti nel
periodo in cui l'Idaspe, il cui letto misura quasi
ottocento metri di larghezza, era gonfio per il
convogliamento delle acque dovute allo scioglimento
delle nevi dell'Himalaya, e di lì a poco sarebbe stato
anche peggio per via dell'inizio della stagione delle
piogge monsoniche, tra metà e fine giugno, che lo
avrebbe reso difficilmente attraversabile.
L’intenzione del re indiano, era quella di utilizzare il
fiume di confine come limes in funzione
antimacedone, cercando, più che di sconfiggere, di
respingere il nemico.
I Macedoni, guidati da Taxila, attraversarono la catena
montuosa del Gran Sale e giunti sull'Idaspe percorsero
altri 180 chilometri, secondo una via ipotizzata che
passava da Chakwal-Ara e per il passo di Nandana che
avrebbero seguito secoli dopo altri grandi invasori
come Mahmud di Ghazni e Babur, e fissarono il campo
prospiciente, laddove un certo numero di isolotti
avrebbero potuto facilitare l'attraversamento forse
all'altezza di Jehlum, la città che i musulmani
avrebbero costruito secoli dopo nel corso della loro
invasione, o presso Haranpur, per sbarrargli la
strada.
Poro era pronto ad attenderli con una muraglia umana,
costituita dall’intero esercito indiano dispiegato a
battaglia sull’altra sponda del fiume. Il fronte si
stagliava tra una lunga fila di elefanti, ben 200 o
85, a seconda delle versioni, affinché sfiancassero
ogni benché minimo tentativo di attraversamento.
Questi erano guidati da un ammaestratore, seduto sul
collo della bestia e armato di un piccolo scudo
rotondo e di giavellotti, e da un guerriero, ben
riparato sul dorso, forse da una cella in vimini,
dotato di armamento pesante; le zanne erano rinforzate
con ottone e la pelle degli animali variamente
affrescata: da lontano, apparivano simili a tante
torri che si ergevano a intervalli pressoché regolari.
La fanteria era in gran parte leggera, quasi tutti
combattevano a torso nudo, con il solo gonnellino di
lino. I più efficaci dovevano risultare gli arcieri,
che vantavano la capacità di usare archi di bambù
lunghi un metro e ottanta, con corde di canapa o
tendini d'animale, tali da scagliare frecce di canna
lunghe e pesanti di un metro e mezzo di lunghezza,
dalle punte avvelenate e con penne direzionali in
grado di bucare ogni materiale. Inoltre vi era la
fanteria leggera da lancio, dotata di giavellotto, che
disponeva di uno scudo di pelle, rettangolare con un
arco sul lato superiore, che reggevano mediante
un'intelaiatura di bambù. La cavalleria portava una
lunga e leggera lancia, le redini dei cavalli erano in
cuoio grezzo irte di aculei.
Poi vi erano i carri da guerra. Su ognuno di essi si
trovavano sei uomini, due aurighi in grado di lanciare
giavellotti una volta lasciate le redini, due
pavesai muniti di scudo e due arcieri disposti sui
fianchi.
Tutti i combattenti avevano in dotazione una lunga spada
(poco più di 1 metro), terminante in una punta
estremamente larga.
Oltre ad aver disposto il proprio esercito in ordine di
battaglia lungo la riva del fiume, il sovrano indiano
aveva anche distribuito presidi lungo una cospicua
parte del suo corso, a nord e a sud, per controllare
tutti i punti guadabili.
Questa volta non si trattava del semplice attraversamento
di un fiume, Alessandro si stava rendendo conto che
oltrepassandolo sarebbe scaturita anche la battaglia e
che la stessa non sarebbe stata facile e per questo
c’era bisogno di un piano meticolosamente progettato.
Il Condottiero si accingeva a compiere una delle più
brillanti operazioni di attraversamento di un fiume
difeso da un esercito avversario che la storia
ricordi, e ciò avvenne in coincidenza con il primo
scontro registrato dalle cronache a proposito delle
invasioni indiane.
Vennero condotte tutte le imbarcazioni usate per la
costruzione del ponte sull'Indo lungo i 300 km che le
separavano dall'Idaspe; quindi richiese al suo
alleato, Tassila, di fornire grandi quantitativi di
grano volendo mostrare l’intenzione di attendere fino
a quando non si fossero abbassate le acque, cioè fino
a settembre.
Ambedue i generali da una parte all’altra del fiume
recitarono i loro copioni: sulla sponda occidentale,
Alessandro teneva la guardia degli avversari sempre
allerta, attraverso diversivi tattici, di giorno e di
notte, con lo scopo d’innervosirli; mentre i soldati
di Poro mantenevano sempre alta l’attenzione con dei
pattugliamenti continui: Alessandro, infatti, di notte
mandava al di là del fiume drappelli di cavalieri, in
punti di volta in volta diversi, esortandoli a fare
schiamazzi e a lanciare grida di guerra, come se
stessero aprendo la strada al grosso dell'esercito;
regolarmente, Poro accorreva sul posto, solo per
constatare che non era successo nulla di significativo
…fino a quando le finte sortite macedoni si fecero talmente
ripetitive da indurre Poro ad abbassare finalmente la
guardia.
Mentre Alessandro distraeva i contingenti nemici, costruiva
allo stesso tempo il suo piano d’azione: sapeva bene
che l’unica grossa difficoltà sarebbe consistita
nell’attraversamento e che, una volta effettuato
questo, per battere il nemico, sarebbe stato
sufficiente un numero enorme di soldati.
Per prima cosa scelse la testa di ponte per
l’attraversamento, che si trovava una trentina di
chilometri a nord del campo base, nella parte più
vicina alla catena montuosa e in corrispondenza di una
pronunciata ansa dell'Idaspe, li si trovavano fitti
boschi e soprattutto un isolotto anch’esso fitto di
vegetazione, che avrebbe facilitato il passaggio: era
il sito ideale per far muovere le truppe senza che
venissero notate.
Ancora una volta suddivise il suo esercito, secondo
copione, prese con se la parte più piccola ma più
efficace: metà delle ipparchie macedoni insieme alla
cavalleria battriana e saca della frontiera
nordorientale, poi tutti gli ipaspisti, due
battaglioni della falange e la fanteria leggera;
mentre lasciò il campo sotto il controllo di Cratero,
con il grosso dell’esercito, cavalleria e fanteria
pesanti, equipaggiati e pronti all’attraversamento; i
contingenti mercenari, di fanteria e di cavalleria
leggera, per un totale di 5000 fanti e 500 cavalieri,
vennero distribuiti lungo la riva del fiume, pronti ad
intervenire, sotto il comando degli ufficiali della
falange: Meleagro, Attalo e Gorgia, affinché
fungessero da diversivo, e distraessero gli indiani
dal punto in cui il Generale avrebbe attraversato e
fossero, in un secondo tempo, pronti ad attraversare e
ad affiancare il contingente principale non appena
fosse iniziata la battaglia.
Si trattava di un piano assolutamente geniale, che avrebbe
fatto scuola nei secoli, tanto da essere replicato due
millenni dopo dal generale Wolfe nella campagna di
Québec del 1759.
Pioveva quella notte e i plotoni marciarono ben lontani
dalla riva per evitare di essere notati dagli indiani.
Per la terza volta, il Genio replicò la tecnica di
attraversamento utilizzata sul Danubio e sul Syr
Daria, contro Sciti e Dahi: venne costruito una sorta
di ponte gonfiabile costituito da pelli cuciete e
riempite di sterpi secchi.
Grazie alla pioggia battente, i rumori della traversata e
dello sbarco vennero totalmente camuffati e si
conclusero con il finire del temporale, prima che
sorgesse il sole.
Questa volta, al contrario che nelle due traversate
precedenti, vi fu l’imprevisto legato alla presenza di
un ramo parallelo dell'Idaspe: vi era una seconda
isola tra la prima e la riva opposta. Nessuno si
accorse di non essere sulla terraferma, né Alessandro,
né i suoi hetairoi, Tolomeo, Perdicca, Lisimaco
e Seleuco, pronti all’intervento con la loro
cavalleria.
Si erano già schierati per la battaglia, quando compresero
che avrebbero dovuto guadare un’ altro ramo del fiume
ma stavolta senza contare sul alcun mezzo; i macedoni
erano davvero prossimi alla riva, ma il guado venne
superato faticosamente. Verso l'alba i macedoni furono
avvistati solo quando erano in prossimità dell’altra
sponda, al placarsi di vento e pioggia.
Tuttavia l’Argeade ebbe tutto il tempo di schierare il suo
nutrito drappello: Ceno, Efestione, Perdicca e
Demetrio, con al seguito 1000 cavalieri ognuno, erano
preceduti da 1000 arcieri a cavallo dahi che a loro
volta erano coperti da altrettanti cavalieri battriani,
sogdiani e sciti.
Alle spalle doveva disporsi la fanteria, ovvero due
battaglioni di falangiti da 1500 uomini ognuno,
guidati da Antigene e Clito il Bianco, sulle ali si
trovavano 3000 ipaspisti, e alle loro spalle i 2000
arcieri guidati da Taurone, coperti da 1000 agriani.
Poro, ritenendo che si trattasse solo di un nutrita
avanguardia, inviò il figlio perché li bloccasse, al
comando di 2000 cavalieri e 120 carri da guerra.
Alla vista del figlio di Poro, Alessandro gli scagliò
contro gli arcieri a cavallo saci, con lo scopo di
aprire la strada, riservandosi il resto delle truppe e
principalmente la cavalleria pesante per lo scontro
principale. Superata la prima fase, che fu già per gli
indiani una catastrofe, il figlio di Filippo sferrò il
suo attacco con l'ala destra, disponendo i suoi
cavalieri per squadroni a cuneo, operando così un
facile sfondamento. La cavalleria indiana venne
cancellata, quella macedone riuscì a catturare i carri
rimasti impantanati nel terreno reso fangoso dalla
pioggia e ad uccidere il figlio del regnante indiano.
I fuggitivi si presentarono al cospetto del loro re, per
riferirgli che i macedoni avevano attraversato l’Idaspe
con una parte consistente dell'esercito.
Poro accorse immediatamente nei pressi del luogo dello
“sbarco”, non senza aver lasciato al campo una forza
di discrete dimensioni, dietro un piccolo contingente
di elefanti, per impedire a Cratero di attraversare
anch’egli il fiume; si trascinò dietro 30.000 fanti,
l'intera cavalleria di cui ancora disponeva, ovvero
4000 uomini, trecento carri e duecento elefanti ma non
raggiunse neanche l’avanguardia nemica, bensì si
assestò nel luogo a lui più favorevole.
Se fosse giunto nei pressi dell’argine, il terreno paludoso
avrebbe costituito una trappola per i pachidermi e per
i carri, se non addirittura per la cavalleria. Decise
di lasciarsi davanti, di modo che fosse un problema
per i nemici, una lunga distesa di rena fluviale e di
utilizzare un terreno sufficientemente compatto da
permettere il dispiegamento delle sue forze.
La disposizione del rajah fu pressappoco la stessa
che aveva preparato per un eventuale sbarco 30 km più
a sud, di fronte al campo macedone: davanti a tutti,
collocò gli elefanti a intervalli regolari di trenta
metri per tutta la lunghezza del fronte, tra l'uno e
l'altro, leggermente indietreggiate, schierò le
divisioni di fanteria coperta dal fuoco degli arcieri
alle loro spalle, mentre la cavalleria e i carri da
guerra vennero collocati sulle ali.
Dalla notizia della cadenza dei pachidermi otteniamo che il
fronte indiano doveva essere di sei, se gli elefanti
erano 200 (Arriano) o, due chilometri e mezzo, se
erano ottanta (Diodoro Siculo).
Lo scopo di questa disposizione era di utilizzare gli
elefanti, ritenuti l'elemento cardine dello
schieramento, per spaventare i cavalli degli eteri;
Poro era infatti convinto che gli animali, che nelle
intenzioni dovevano costituire un muro invalicabile,
oltre ad essere inattaccabili da parte della
cavalleria avrebbero avuto anche il ruolo di
grimaldello durante lo scontro scagliandoli
all’impazzata contro la falange.
Alessandro comprese che, anche se avesse disposto la
cavalleria come primo baluardo, sarebbe stata comunque
la fanteria a subire l’urto maggiore. Tuttavia, giunto
in vista degli indiani, Alessandro fece fermare i suoi
e attese che il suo esercito fosse a ranghi completi
con l’arrivo della fanteria e quindi attese ancora: la
marcia nel fango, il doppio guado, la pioggia battente
avevano reso durissima l’impresa e il Condottiero non
voleva far combattere degli uomini stanchi.
Ordinò quindi ai suoi cavalieri di costituire uno “scudo”
mobile che difendesse i falangiti mentre questi si
riposavano; vi furono degli scontri preliminari che
doveva essere la cavalleria a risolvere mentre Lui,
nel frattempo, studiava la disposizione nemica:
quindi, facendo scudo con la cavalleria, schierò la
falange per esteso.
Lo studio dello Stratega contava di evitare il centro
nemico, soprattutto da parte della cavalleria, i cui
animali soffrivano la presenza dei pachidermi e di
assecondare la sua solita tattica: aggirare e forzare
lo spiegamento nemico sulle ali. In questo modo si
ripetevano gli schemi di tutte le precedenti
battaglie, con la variante della mancanza di un
incudine data dalla impossibilità di resistenza della
falange agli elefanti che però, e qui balenò ancora
una volta il genio Macedone, potevano fare, essi
stessi, da incudine su cui schiacciare i fanti
indiani.
Il suo primo obbiettivo era quello di allungare i tempi il
più possibile per far recuperare la stanchezza alla
falange, quindi di usare al massimo la cavalleria con
la quale si preparò a sfondare, come al solito, l'ala
sinistra nemica.
Per questo scopo concentrò la cavalleria, superiore in
armamento, abilità, esperienza, e perfino nel numero,
in posizione avanzata, di fronte alla quale schierò in
ordine sparso gli arcieri a cavallo dahi, ordinando
alle taxeis, precedute da arcieri appiedati,
agriani e lancieri, di muoversi solo quando la
fanteria nemica si fosse sfaldata.
Quindi preparò Ceno e Demetrio, affinché con le loro
ipparchie, evitassero che gli indiani prendessero sul
fianco i cavalieri che conduceva con sé.
Sempre avanzando molto lentamente, l'esercito di Alessandro
si portò a distanza di tiro dagli archi avversari,
quindi lo Stratega fece partire i formidabili
saettatori dahi.
I carri vennero immediatamente messi fuori uso dagli
arcieri delle steppe, non avendo i suoi aurighi delle
difese adatte; i loro mezzi non solo risultarono
inservibili ma furono anche gravemente d’impaccio ai
cavalieri indiani che tuttavia cercavano un
contrattacco: dovettero mettersi in colonna per
attaccare i macedoni, e ciò fu totalmente deleterio
perché Alessandro, dopo essersi messo a capo della
cavalleria dei Compagni e dopo esser passato tra la
falange e gli elefanti, andò a scagliarsi contro l’ala
sinistra avversaria, caricando in maniera spasmodica
per evitare che agli avversari si ricompattassero dopo
le scariche di dardi da parte degli arcieri sciti. La
carica degli hetairoi fu devastante ed annientò
i cavalieri nemici ancor prima che si dispiegassero in
linea di battaglia.
A questo punto, già all’inizio dello scontro dunque, la
cavalleria indiana fu estremamente in pericolo ed ebbe
bisogno di rinforzi e Poro chiamò in causa l'ala
destra indiana e alcune unita di fanteria da dietro la
linea degli elefanti, per attaccare sul fianco
sinistro gli eteri mediante uno spostamento
trasversale lungo tutto il campo di battaglia, ma
questo era già stato previsto come dopotutto
l’intervento delle due ipparchie guidate da Ceno che
attaccò puntualmente a sua volta i rinforzi e quindi
chiuse la cavalleria indiana da dietro mentre da
davanti quella degli eteri faceva strage. Anche questa
volta la manovra fu perfetta.
Come un'onda, i cavalieri indiani arretrarono verso il
fianco, ovvero in direzione della fanteria, che a sua
volta andò a sbattere contro gli elefanti, che
iniziarono ad innervosirsi e quando i primi
s’imbizzarrirono, Alessandro lanciò la falange.
Praticamente immune agli arcieri indiani, la linea di
fanteria pesante si ritrovò di fronte l'attacco degli
elefanti che fecero da incudine spinti dai falangiti.
Al primo contatto, i ranghi macedoni si trovarono
disorientati e scompaginati, tanto da dare ai
cavalieri indiani il coraggio di operare una
conversione e partire nuovamente alla carica dei
cavalieri di Alessandro. Ma i macedoni sapevano come
difendersi da questi immensi animali: avevano
acquisito una certa esperienza: come per i carri
falcati a Gaugamela, i falangiti creavano rapidamente
dei varchi e con le lunghe sarisse disarcionavano gli
indiani che li guidavano, colpendo poi le bestie che
erano disorientate o lasciando andare quelle
imbizzarrite. Agriani e traci si distinsero durante
questo scontro nell’attacco ai pachidermi con i loro
tiri di giavellotti o con scuri apposite per tagliare
le zampe agli animali, mentre altri, invece,
disponevano di falci per tranciare le proboscidi.
Il caos fu totale e l’unica cosa che stava per fare la
differenza sul campo era la ferrea disciplina
macedone, cosicché anche gli ultimi tentativi di
ribaltare la situazione con incursioni di cavalleria,
da parte indiana vennero respinti.
Poro provò anche a caricare, con i carri di destra, la
falange che, una volta ricompattatasi, dopo il
passaggio dei pachidermi, continuava a spingersi in
avanti mentre la cavalleria pesante stava completando
il suo aggiramento. Mentre la falange obliqua
avanzava, tutte le forze di cavalleria macedone,
riunite in un singolo corpo, iniziarono l’aggiramento
nemico, o passando attraverso i varchi lasciati dagli
elefanti o aggirando le ali ormai costrette ad un
inesorabile ripiegamento.
La carriera del comandante degli ipaspisti, Seleuco,
diadoco d’Alessandro e fondatore di una dinastia, sarà
per sempre segnata da questo evento, proprio perché la
sua divisione dovette avere una tremenda impressione
di quegli animali e dell'impegno che queste dovettero
profondere per renderli inefficaci.
Gli elefanti, non più controllabili, arretravano e
calpestavano i soldati indiani, ormai attaccati da
ogni lato iniziarono ad essere massacrati senza pietà
e solo la pressione dell’esercito di Poro riuscì ad
aprire un varco all’interno delle fila serrate di
cavalleria. Solo pochi fanti si salvarono, la
cavalleria fu fatta a pezzi e gli elefanti catturati.
La battaglia perfetta di Alessandro era terminata.
Lo stesso Poro, un uomo dalle sembianze gigantesche, cercò
da solo sul suo elefante dal quale troneggiava su
tutti i combattenti, secondo cui lui era proporzionato
all’elefante come un cavaliere al suo cavallo, di
resistere fino a che non rimase isolato ferito alla
spalla sul campo e non vide il suo esercito in rotta.
Il rajah degno dell’ammirazione di Alessandro fu da
questi vanamente inseguito fino a che lo perse di
vista quando Bucefalo, venne abbattuto dai pochi
nemici rimasti a coprire la ritirata del re indiano.
Intanto anche Cratero aveva attraversato il fiume, le cui
rive erano rimaste sguarnite, iniziando una fase
d’attacco e di compartecipazione della battaglia lungo
la sponda fino a che non avvenne la ritirata indiana e
a loro fu dato il compito dell’inseguimento dei vinti
che furono sterminati fino all’ultimo uomo, visto che
le sue divisioni erano le più fresche.
I macedoni dal canto loro, lamentarono un'ottantina di
morti tra i fanti, dieci tra gli arcieri a cavallo,
«che pure avevano dato il via all'azione», 200
cavalieri e una ventina di eteri mentre, secondo
Diodoro, 280 furono i cavalieri e700 i fanti caduti.
Oltre ad essere una battaglia perfetta, era tale anche la
sua vittoria, che il Re, desiderava celebrare come
tale.
Volle che si tenessero giochi atletici nel sito del suo
attraversamento e
ordinò la
progettazione e la
fondazione
due nuove città, una sul luogo della vittoria,
debitamente chiamata Nicea («Vittoriosa»), e l'altra
sul campo base, chiamata Bucefala in onore del suo
grande cavallo, morto durante la battaglia.
Non se ne conosce l'ubicazione esatta e, dati i radicali
cambiamenti intervenuti durante i secoli nel corso dei
fiumi del bacino del Punjab, appare assai improbabile
che il sito della battaglia possa essere stabilito, a
meno che non vengano identificate e dissotterrate le
fondazioni celebrative di Nicea e di Bucefala volute
da Alessandro.
Per l’occasione vennero coniate delle tetradracme che
ritraevano Alessandro in groppa al cavallo, armato di
sarissa nell'atto di inseguire Poro con il guidatore
montati su un elefante. Da un certo punto di vista, la
celebrazione era giustificata. Il combattimento era
stato esotico e spettacolare, e la vittoria totale.
Tetradramma di Alessandro coniata dopo la battaglia
dell'Idaspe.
AG, 326 a.C., British Museum
D/ Alessandro stante in sembianze divine
R/ Alessandro a cavallo insegue Poro
Alessandro rispettava il valore dimostrato dal sovrano
avversario, e cercò in tutti i modi di farselo amico.
La prima mossa, politicamente errata, fu quella di
inviare Taxila, che Poro detestava, in qualità di
araldo e che fallì malamente nel compito assegnatogli.
Ebbe invece successo il successivo inviato, grazie al
quale Poro si pose a disposizione del vincitore, pur
conservando tutta la sua dignità, e ottenendo come re
alleato un territorio perfino superiore a quello di
cui disponeva in precedenza.
Anche Taxila fu gratificato di estensioni territoriali
fino allo Jehiume, svincolato dall'autorità della
contigua satrapia affidata a Filippo, tanto per essere
sicuri che a ridosso dell'Indo ci fosse equilibrio dei
poteri tra i rajah; tuttavia il governatore sarebbe
stato assassinato non molto tempo dopo al pari dello
stesso Poro, nel corso delle lotte per il potere che
seguirono la morte di Alessandro e comunque l'ascesa
di Chandragupta, rajah di Magaddha, quale primo re
dell'India settentrionale unificata, già sotto il
regno del successore di Alessandro, Seleuco, avrebbe
sancito la precarietà del possesso macedone oltre
l'Indo.
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