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N. 19 - Dicembre 2006

ALESSANDRO MAGNO. ALESSANDRO III DI MACEDONIA

La battaglia dell'Idaspe - Parte XV

di Antonio Montesanti

 

 

Finalmente l'esercito era giunto sulle rive dell'Indo che venne attraversato sul ponte di barche che il Comandante aveva ordinato di costruire nei pressi del guado di Ohind (Udabhandapura), ad Efestione e Perdicca, 25 chilometri a nord di Attock. Come tutti i momenti topici che coronavano l’impresa macedone, Alessandro commemorò anche questo, con splendidi sacrifici e imponenti giochi atletici.

 

Il regnante locale, Omfi (Ambhi, poi chiamato ufficialmente Taxila), non solo aveva già offerto il suo aiuto ad Alessandro in Sogdiana, con 30 elefanti e 700 cavalieri, aveva anche rifornito Efestione durante la costruzione del ponte e si ripropose ad attendere l’intero contingente quando questo avrebbe attraversato il fiume sacro. Al Macedone presentava le sue potenzialità: un seguito più che maestoso, al cui interno si trovavano altri 30 elefanti, donativo, insieme a molte altre meraviglie, per il suo nuovo Signore.

 

Taxila venne, per prima cosa, riconfermato sul suo trono che aveva ricevuto dal padre, con la supervisione di un satrapo macedone, Filippo; inoltre ottenne una serie di elargizioni e di doni decisamente più preziosi di quelli che lui stesso offriva.

 

Arriano oltre a descrivere il maestoso ingresso nella capitale Taxila (Takshicila), una trentina di chilometri a nordovest della moderna Islamabad, del Re accompagnato dal suo nuovo vassallo, riferisce che questa era la città più grande tra l'Indo e l'Idaspe.

 

Qui si svolsero ancora feste, banchetti, celebrazioni e giochi che servivano da “contorno” per tutte le mosse diplomatiche che i due regnanti si preparavano a compiere, e come ogniqualvolta ci si fermasse prima di campagne impegnative, Alessandro riorganizzò militarmente la spedizione: creò una quinta ipparchia, affidata a Ceno, il quale era stato sostituito nel comando della tàxis da Antigene, a cui si affiancavano le altre sei guidate da Meleagro, Gorgia, Alceta, Poliperconte, Attalo e Clito il Bianco, oltre a tutti gli ipaspisti sotto la guida di Seleuco; inoltre integrò 5000 indiani di Taxila, nonché dei cavalieri sogdiani, battriani e sciti, e gli arcieri di Taurone: per un totale di effettivi che raggiunse nuovamente le 40.000 unità circa.

 

È ovvio che Taxila contasse di poter sfruttare il Macedone nel modo a lui più consono per poter in qualche maniera, diplomaticamente o tramite la guerra, soggiogare i due sovrani dei regni confinanti ed entrambi suoi nemici.

 

Durante gli scambi diplomatici il più lontano dei due dinasti, dal punto di vista del confine, Abisare, signore della zona montana del Rajauri e del Bimbro, si mantenne su posizioni che formalmente non davano adito a dualità ma che lo ponevano in una situazione di prudenza, tanto che fece atto formale di sottomissione, mentre l'altro, Poro, non concesse alcun atto d’amicizia ed anzi si proclamò manifestatamene ostile.

 

Tutti i regni di cui venne a sapere il Macedone avevano un loro confine naturale, nei monti del Kashmir: mentre Taxila regnava sul territorio compreso tra i fiumi Indo e Idaspe, Poro era a capo della regione delimitata dai fiumi Idaspe (Jhelum, in indiano antico, Vidastd) e Acesine (Chenab). Dopo il Chenab, sorgeva una serie di tribù, i malli, i catei e gli ossidraci, che erano riusciti a confederarsi contro Poro.

 

La ricchezza di questi luoghi è testimoniata dalla presenza in questo territorio di oltre 300 città ed un esercito considerevole che poteva contare, poiché ben utilizzati, sulla divisione di elefanti, il cui impiego bellico era talmente preciso sia in quantità che in qualità, tanto da mettere in difficoltà qualsiasi nemico.

 

La nuova terra offriva ai conquistatori/esploratori motivi di curiosità data dalle tante attrattive della nuova civiltà, ogni giorno che passava l’entourage macedone, a cominciare dal suo Re, rimanevano colpiti dagli usi e costumi locali, e soprattutto dalle pratiche ascetiche dei saggi bramini, tanto che uno di essi, tal Calano, venne aggregato al suo seguito. Tuttavia le esigenze militari si sovrapponevano alla curiosità scientifica.

 

Il Generale era convinto che Poro si sarebbe arreso e inviò Cleocare come messo affinché l’indiano versasse un tributo e venisse incontro a lui sulle rive dell’Idaspe, dove si sarebbe formalmente sottomesso e avrebbe aperto le porte del suo regno.

 

Ottenuta la risposta diplomatica negativa da parte di Poro, Alessandro diede l’ordine alle sue truppe di partire immediatamente verso l’Idaspe, non prima di aver spedito Ceno sulle sponde dell'Indo affinché smontasse le barche utilizzate per il passaggio del fiume e le portasse sull’Idaspe: era fondamentale raggiungere e cercare di varcare il fiume prima della piena che sarebbe giunta di lì a poco: ci si trovava infatti nel periodo in cui l'Idaspe, il cui letto misura quasi ottocento metri di larghezza, era gonfio per il convogliamento delle acque dovute allo scioglimento delle nevi dell'Himalaya, e di lì a poco sarebbe stato anche peggio per via dell'inizio della stagione delle piogge monsoniche, tra metà e fine giugno, che lo avrebbe reso difficilmente attraversabile.

 

L’intenzione del re indiano, era quella di utilizzare il fiume di confine come limes in funzione antimacedone, cercando, più che di sconfiggere, di respingere il nemico.

 

I Macedoni, guidati da Taxila, attraversarono la catena montuosa del Gran Sale e giunti sull'Idaspe percorsero altri 180 chilometri, secondo una via ipotizzata che passava da Chakwal-Ara e per il passo di Nandana che avrebbero seguito secoli dopo altri grandi invasori come Mahmud di Ghazni e Babur, e fissarono il campo prospiciente, laddove un certo numero di isolotti avrebbero potuto facilitare l'attraversamento forse all'altezza di Jehlum, la città che i musulmani avrebbero costruito secoli dopo nel corso della loro invasione, o presso Haranpur, per sbarrargli la strada.

 

Poro era pronto ad attenderli con una muraglia umana, costituita dall’intero esercito indiano dispiegato a battaglia sull’altra sponda del fiume. Il fronte si stagliava tra una lunga fila di elefanti, ben 200 o 85, a seconda delle versioni, affinché sfiancassero ogni benché minimo tentativo di attraversamento. Questi erano guidati da un ammaestratore, seduto sul collo della bestia e armato di un piccolo scudo rotondo e di giavellotti, e da un guerriero, ben riparato sul dorso, forse da una cella in vimini, dotato di armamento pesante; le zanne erano rinforzate con ottone e la pelle degli animali variamente affrescata: da lontano, apparivano simili a tante torri che si ergevano a intervalli pressoché regolari.

 

La fanteria era in gran parte leggera, quasi tutti combattevano a torso nudo, con il solo gonnellino di lino. I più efficaci dovevano risultare gli arcieri, che vantavano la capacità di usare archi di bambù lunghi un metro e ottanta, con corde di canapa o tendini d'animale, tali da scagliare frecce di canna lunghe e pesanti di un metro e mezzo di lunghezza, dalle punte avvelenate e con penne direzionali in grado di bucare ogni materiale. Inoltre vi era la fanteria leggera da lancio, dotata di giavellotto, che disponeva di uno scudo di pelle, rettangolare con un arco sul lato superiore, che reggevano mediante un'intelaiatura di bambù. La cavalleria portava una lunga e leggera lancia, le redini dei cavalli erano in cuoio grezzo irte di aculei.

 

Poi vi erano i carri da guerra. Su ognuno di essi si trovavano sei uomini, due aurighi in grado di lanciare giavellotti una volta lasciate le redini, due pavesai muniti di scudo e due arcieri disposti sui fianchi.

 

Tutti i combattenti avevano in dotazione una lunga spada (poco più di 1 metro), terminante in una punta estremamente larga.

 

Oltre ad aver disposto il proprio esercito in ordine di battaglia lungo la riva del fiume, il sovrano indiano aveva anche distribuito presidi lungo una cospicua parte del suo corso, a nord e a sud, per controllare tutti i punti guadabili.

 

Questa volta non si trattava del semplice attraversamento di un fiume, Alessandro si stava rendendo conto che oltrepassandolo sarebbe scaturita anche la battaglia e che la stessa non sarebbe stata facile e per questo c’era bisogno di un piano meticolosamente progettato.

 

Il Condottiero si accingeva a compiere una delle più brillanti operazioni di attraversamento di un fiume difeso da un esercito avversario che la storia ricordi, e ciò avvenne in coincidenza con il primo scontro registrato dalle cronache a proposito delle invasioni indiane.

 

Vennero condotte tutte le imbarcazioni usate per la costruzione del ponte sull'Indo lungo i 300 km che le separavano dall'Idaspe; quindi richiese al suo alleato, Tassila, di fornire grandi quantitativi di grano volendo mostrare l’intenzione di attendere fino a quando non si fossero abbassate le acque, cioè fino a settembre.

 

Ambedue i generali da una parte all’altra del fiume recitarono i loro copioni: sulla sponda occidentale, Alessandro teneva la guardia degli avversari sempre allerta, attraverso diversivi tattici, di giorno e di notte, con lo scopo d’innervosirli; mentre i soldati di Poro mantenevano sempre alta l’attenzione con dei pattugliamenti continui: Alessandro, infatti, di notte mandava al di là del fiume drappelli di cavalieri, in punti di volta in volta diversi, esortandoli a fare schiamazzi e a lanciare grida di guerra, come se stessero aprendo la strada al grosso dell'esercito; regolarmente, Poro accorreva sul posto, solo per constatare che non era successo nulla di significativo

 

…fino a quando le finte sortite macedoni si fecero talmente ripetitive da indurre Poro ad abbassare finalmente la guardia.

 

Mentre Alessandro distraeva i contingenti nemici, costruiva allo stesso tempo il suo piano d’azione: sapeva bene che l’unica grossa difficoltà sarebbe consistita nell’attraversamento e che, una volta effettuato questo, per battere il nemico, sarebbe stato sufficiente un numero enorme di soldati.

 

Per prima cosa scelse la testa di ponte per l’attraversamento, che si trovava una trentina di chilometri a nord del campo base, nella parte più vicina alla catena montuosa e in corrispondenza di una pronunciata ansa dell'Idaspe, li si trovavano fitti boschi e soprattutto un isolotto anch’esso fitto di vegetazione, che avrebbe facilitato il passaggio: era il sito ideale per far muovere le truppe senza che venissero notate.

 

Ancora una volta suddivise il suo esercito, secondo copione, prese con se la parte più piccola ma più efficace: metà delle ipparchie macedoni insieme alla cavalleria battriana e saca della frontiera nordorientale, poi tutti gli ipaspisti, due battaglioni della falange e la fanteria leggera; mentre lasciò il campo sotto il controllo di Cratero, con il grosso dell’esercito, cavalleria e fanteria pesanti, equipaggiati e pronti all’attraversamento; i contingenti mercenari, di fanteria e di cavalleria leggera, per un totale di 5000 fanti e 500 cavalieri, vennero distribuiti lungo la riva del fiume, pronti ad intervenire, sotto il comando degli ufficiali della falange: Meleagro, Attalo e Gorgia, affinché fungessero da diversivo, e distraessero gli indiani dal punto in cui il Generale avrebbe attraversato e fossero, in un secondo tempo, pronti ad attraversare e ad affiancare il contingente principale non appena fosse iniziata la battaglia.

 

Si trattava di un piano assolutamente geniale, che avrebbe fatto scuola nei secoli, tanto da essere replicato due millenni dopo dal generale Wolfe nella campagna di Québec del 1759.

 

Pioveva quella notte e i plotoni marciarono ben lontani dalla riva per evitare di essere notati dagli indiani. Per la terza volta, il Genio replicò la tecnica di attraversamento utilizzata sul Danubio e sul Syr Daria, contro Sciti e Dahi: venne costruito una sorta di ponte gonfiabile costituito da pelli cuciete e riempite di sterpi secchi.

 

Grazie alla pioggia battente, i rumori della traversata e dello sbarco vennero totalmente camuffati e si conclusero con il finire del temporale, prima che sorgesse il sole.

 

Questa volta, al contrario che nelle due traversate precedenti, vi fu l’imprevisto legato alla presenza di un ramo parallelo dell'Idaspe: vi era una seconda isola tra la prima e la riva opposta. Nessuno si accorse di non essere sulla terraferma, né Alessandro, né i suoi hetairoi, Tolomeo, Perdicca, Lisimaco e Seleuco, pronti all’intervento con la loro cavalleria.

 

Si erano già schierati per la battaglia, quando compresero che avrebbero dovuto guadare un’ altro ramo del fiume ma stavolta senza contare sul alcun mezzo; i macedoni erano davvero prossimi alla riva, ma il guado venne superato faticosamente. Verso l'alba i macedoni furono avvistati solo quando erano in prossimità dell’altra sponda, al placarsi di vento e pioggia.

 

Tuttavia l’Argeade ebbe tutto il tempo di schierare il suo nutrito drappello: Ceno, Efestione, Perdicca e Demetrio, con al seguito 1000 cavalieri ognuno, erano preceduti da 1000 arcieri a cavallo dahi che a loro volta erano coperti da altrettanti cavalieri battriani, sogdiani e sciti.

 

Alle spalle doveva disporsi la fanteria, ovvero due battaglioni di falangiti da 1500 uomini ognuno, guidati da Antigene e Clito il Bianco, sulle ali si trovavano 3000 ipaspisti, e alle loro spalle i 2000 arcieri guidati da Taurone, coperti da 1000 agriani.

 

Poro, ritenendo che si trattasse solo di un nutrita avanguardia, inviò il figlio perché li bloccasse, al comando di 2000 cavalieri e 120 carri da guerra.

 

Alla vista del figlio di Poro, Alessandro gli scagliò contro gli arcieri a cavallo saci, con lo scopo di aprire la strada, riservandosi il resto delle truppe e principalmente la cavalleria pesante per lo scontro principale. Superata la prima fase, che fu già per gli indiani una catastrofe, il figlio di Filippo sferrò il suo attacco con l'ala destra, disponendo i suoi cavalieri per squadroni a cuneo, operando così un facile sfondamento. La cavalleria indiana venne cancellata, quella macedone riuscì a catturare i carri rimasti impantanati nel terreno reso fangoso dalla pioggia e ad uccidere il figlio del regnante indiano.

 

I fuggitivi si presentarono al cospetto del loro re, per riferirgli che i macedoni avevano attraversato l’Idaspe con una parte consistente dell'esercito.

 

Poro accorse immediatamente nei pressi del luogo dello “sbarco”, non senza aver lasciato al campo una forza di discrete dimensioni, dietro un piccolo contingente di elefanti, per impedire a Cratero di attraversare anch’egli il fiume; si trascinò dietro 30.000 fanti, l'intera cavalleria di cui ancora disponeva, ovvero 4000 uomini, trecento carri e duecento elefanti ma non raggiunse neanche l’avanguardia nemica, bensì si assestò nel luogo a lui più favorevole.

 

Se fosse giunto nei pressi dell’argine, il terreno paludoso avrebbe costituito una trappola per i pachidermi e per i carri, se non addirittura per la cavalleria. Decise di lasciarsi davanti, di modo che fosse un problema per i nemici, una lunga distesa di rena fluviale e di utilizzare un terreno sufficientemente compatto da permettere il dispiegamento delle sue forze.

 

La disposizione del rajah fu pressappoco la stessa che aveva preparato per un eventuale sbarco 30 km più a sud, di fronte al campo macedone: davanti a tutti, collocò gli elefanti a intervalli regolari di trenta metri per tutta la lunghezza del fronte, tra l'uno e l'altro, leggermente indietreggiate, schierò le divisioni di fanteria coperta dal fuoco degli arcieri alle loro spalle, mentre la cavalleria e i carri da guerra vennero collocati sulle ali.

 

Dalla notizia della cadenza dei pachidermi otteniamo che il fronte indiano doveva essere di sei, se gli elefanti erano 200 (Arriano) o, due chilometri e mezzo, se erano ottanta (Diodoro Siculo).

 

Lo scopo di questa disposizione era di utilizzare gli elefanti, ritenuti l'elemento cardine dello schieramento, per spaventare i cavalli degli eteri; Poro era infatti convinto che gli animali, che nelle intenzioni dovevano costituire un muro invalicabile, oltre ad essere inattaccabili da parte della cavalleria avrebbero avuto anche il ruolo di grimaldello durante lo scontro scagliandoli all’impazzata contro la falange.

 

Alessandro comprese che, anche se avesse disposto la cavalleria come primo baluardo, sarebbe stata comunque la fanteria a subire l’urto maggiore. Tuttavia, giunto in vista degli indiani, Alessandro fece fermare i suoi e attese che il suo esercito fosse a ranghi completi con l’arrivo della fanteria e quindi attese ancora: la marcia nel fango, il doppio guado, la pioggia battente avevano reso durissima l’impresa e il Condottiero non voleva far combattere degli uomini stanchi.

 

Ordinò quindi ai suoi cavalieri di costituire uno “scudo” mobile che difendesse i falangiti mentre questi si riposavano; vi furono degli scontri preliminari che doveva essere la cavalleria a risolvere mentre Lui, nel frattempo, studiava la disposizione nemica: quindi, facendo scudo con la cavalleria, schierò la falange per esteso.

 

Lo studio dello Stratega contava di evitare il centro nemico, soprattutto da parte della cavalleria, i cui animali soffrivano la presenza dei pachidermi e di assecondare la sua solita tattica: aggirare e forzare lo spiegamento nemico sulle ali. In questo modo si ripetevano gli schemi di tutte le precedenti battaglie, con la variante della mancanza di un incudine data dalla impossibilità di resistenza della falange agli elefanti che però, e qui balenò ancora una volta il genio Macedone, potevano fare, essi stessi, da incudine su cui schiacciare i fanti indiani.

 

Il suo primo obbiettivo era quello di allungare i tempi il più possibile per far recuperare la stanchezza alla falange, quindi di usare al massimo la cavalleria con la quale si preparò a sfondare, come al solito, l'ala sinistra nemica.

 

Per questo scopo concentrò la cavalleria, superiore in armamento, abilità, esperienza, e perfino nel numero, in posizione avanzata, di fronte alla quale schierò in ordine sparso gli arcieri a cavallo dahi, ordinando alle taxeis, precedute da arcieri appiedati, agriani e lancieri, di muoversi solo quando la fanteria nemica si fosse sfaldata.

 

Quindi preparò Ceno e Demetrio, affinché con le loro ipparchie, evitassero che gli indiani prendessero sul fianco i cavalieri che conduceva con sé.

 

Sempre avanzando molto lentamente, l'esercito di Alessandro si portò a distanza di tiro dagli archi avversari, quindi lo Stratega fece partire i formidabili saettatori dahi.

 

I carri vennero immediatamente messi fuori uso dagli arcieri delle steppe, non avendo i suoi aurighi delle difese adatte; i loro mezzi non solo risultarono inservibili ma furono anche gravemente d’impaccio ai cavalieri indiani che tuttavia cercavano un contrattacco: dovettero mettersi in colonna per attaccare i macedoni, e ciò fu totalmente deleterio perché Alessandro, dopo essersi messo a capo della cavalleria dei Compagni e dopo esser passato tra la falange e gli elefanti, andò a scagliarsi contro l’ala sinistra avversaria, caricando in maniera spasmodica per evitare che agli avversari si ricompattassero dopo le scariche di dardi da parte degli arcieri sciti. La carica degli hetairoi fu devastante ed annientò i cavalieri nemici ancor prima che si dispiegassero in linea di battaglia.

 

A questo punto, già all’inizio dello scontro dunque, la cavalleria indiana fu estremamente in pericolo ed ebbe bisogno di rinforzi e Poro chiamò in causa l'ala destra indiana e alcune unita di fanteria da dietro la linea degli elefanti, per attaccare sul fianco sinistro gli eteri mediante uno spostamento trasversale lungo tutto il campo di battaglia, ma questo era già stato previsto come dopotutto l’intervento delle due ipparchie guidate da Ceno che attaccò puntualmente a sua volta i rinforzi e quindi chiuse la cavalleria indiana da dietro mentre da davanti quella degli eteri faceva strage. Anche questa volta la manovra fu perfetta.

 

Come un'onda, i cavalieri indiani arretrarono verso il fianco, ovvero in direzione della fanteria, che a sua volta andò a sbattere contro gli elefanti, che iniziarono ad innervosirsi e quando i primi s’imbizzarrirono, Alessandro lanciò la falange. Praticamente immune agli arcieri indiani, la linea di fanteria pesante si ritrovò di fronte l'attacco degli elefanti che fecero da incudine spinti dai falangiti.

 

Al primo contatto, i ranghi macedoni si trovarono disorientati e scompaginati, tanto da dare ai cavalieri indiani il coraggio di operare una conversione e partire nuovamente alla carica dei cavalieri di Alessandro. Ma i macedoni sapevano come difendersi da questi immensi animali: avevano acquisito una certa esperienza: come per i carri falcati a Gaugamela, i falangiti creavano rapidamente dei varchi e con le lunghe sarisse disarcionavano gli indiani che li guidavano, colpendo poi le bestie che erano disorientate o lasciando andare quelle imbizzarrite. Agriani e traci si distinsero durante questo scontro nell’attacco ai pachidermi con i loro tiri di giavellotti o con scuri apposite per tagliare le zampe agli animali, mentre altri, invece, disponevano di falci per tranciare le proboscidi.

 

Il caos fu totale e l’unica cosa che stava per fare la differenza sul campo era la ferrea disciplina macedone, cosicché anche gli ultimi tentativi di ribaltare la situazione con incursioni di cavalleria, da parte indiana vennero respinti.

 

Poro provò anche a caricare, con i carri di destra, la falange che, una volta ricompattatasi, dopo il passaggio dei pachidermi, continuava a spingersi in avanti mentre la cavalleria pesante stava completando il suo aggiramento. Mentre la falange obliqua avanzava, tutte le forze di cavalleria macedone, riunite in un singolo corpo, iniziarono l’aggiramento nemico, o passando attraverso i varchi lasciati dagli elefanti o aggirando le ali ormai costrette ad un inesorabile ripiegamento.

 

La carriera del comandante degli ipaspisti, Seleuco, diadoco d’Alessandro e fondatore di una dinastia, sarà per sempre segnata da questo evento, proprio perché la sua divisione dovette avere una tremenda impressione di quegli animali e dell'impegno che queste dovettero profondere per renderli inefficaci.

 

Gli elefanti, non più controllabili, arretravano e calpestavano i soldati indiani, ormai attaccati da ogni lato iniziarono ad essere massacrati senza pietà e solo la pressione dell’esercito di Poro riuscì ad aprire un varco all’interno delle fila serrate di cavalleria. Solo pochi fanti si salvarono, la cavalleria fu fatta a pezzi e gli elefanti catturati.

 

La battaglia perfetta di Alessandro era terminata.

 

Lo stesso Poro, un uomo dalle sembianze gigantesche, cercò da solo sul suo elefante dal quale troneggiava su tutti i combattenti, secondo cui lui era proporzionato all’elefante come un cavaliere al suo cavallo, di resistere fino a che non rimase isolato ferito alla spalla sul campo e non vide il suo esercito in rotta. Il rajah degno dell’ammirazione di Alessandro fu da questi vanamente inseguito fino a che lo perse di vista quando Bucefalo, venne abbattuto dai pochi nemici rimasti a coprire la ritirata del re indiano.

 

Intanto anche Cratero aveva attraversato il fiume, le cui rive erano rimaste sguarnite, iniziando una fase d’attacco e di compartecipazione della battaglia lungo la sponda fino a che non avvenne la ritirata indiana e a loro fu dato il compito dell’inseguimento dei vinti che furono sterminati fino all’ultimo uomo, visto che le sue divisioni erano le più fresche.

 

I macedoni dal canto loro, lamentarono un'ottantina di morti tra i fanti, dieci tra gli arcieri a cavallo, «che pure avevano dato il via all'azione», 200 cavalieri e una ventina di eteri mentre, secondo Diodoro, 280 furono i cavalieri e700 i fanti caduti.

 

Oltre ad essere una battaglia perfetta, era tale anche la sua vittoria, che il Re, desiderava celebrare come tale.

 

Volle che si tenessero giochi atletici nel sito del suo attraversamento e ordinò la progettazione e la fondazione due nuove città, una sul luogo della vittoria, debitamente chiamata Nicea («Vittoriosa»), e l'altra sul campo base, chiamata Bucefala in onore del suo grande cavallo, morto durante la battaglia.

 

Non se ne conosce l'ubicazione esatta e, dati i radicali cambiamenti intervenuti durante i secoli nel corso dei fiumi del bacino del Punjab, appare assai improbabile che il sito della battaglia possa essere stabilito, a meno che non vengano identificate e dissotterrate le fondazioni celebrative di Nicea e di Bucefala volute da Alessandro.

 

Per l’occasione vennero coniate delle tetradracme che ritraevano Alessandro in groppa al cavallo, armato di sarissa nell'atto di inseguire Poro con il guidatore montati su un elefante. Da un certo punto di vista, la celebrazione era giustificata. Il combattimento era stato esotico e spettacolare, e la vittoria totale.

 

 

Tetradramma di Alessandro coniata dopo la battaglia dell'Idaspe.

AG, 326 a.C., British Museum

D/ Alessandro stante in sembianze divine

R/ Alessandro a cavallo insegue Poro

 

Alessandro rispettava il valore dimostrato dal sovrano avversario, e cercò in tutti i modi di farselo amico. La prima mossa, politicamente errata, fu quella di inviare Taxila, che Poro detestava, in qualità di araldo e che fallì malamente nel compito assegnatogli. Ebbe invece successo il successivo inviato, grazie al quale Poro si pose a disposizione del vincitore, pur conservando tutta la sua dignità, e ottenendo come re alleato un territorio perfino superiore a quello di cui disponeva in precedenza.

 

Anche Taxila fu gratificato di estensioni territoriali fino allo Jehiume, svincolato dall'autorità della contigua satrapia affidata a Filippo, tanto per essere sicuri che a ridosso dell'Indo ci fosse equilibrio dei poteri tra i rajah; tuttavia il governatore sarebbe stato assassinato non molto tempo dopo al pari dello stesso Poro, nel corso delle lotte per il potere che seguirono la morte di Alessandro e comunque l'ascesa di Chandragupta, rajah di Magaddha, quale primo re dell'India settentrionale unificata, già sotto il regno del successore di Alessandro, Seleuco, avrebbe sancito la precarietà del possesso macedone oltre l'Indo.



 

 

 

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