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> Storia Medievale

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N. 18 - Novembre 2006

ALESSANDRO MAGNO. ALESSANDRO III DI MACEDONIA

Ingresso in India - Parte XIV

di Antonio Montesanti

 

L’invasione di un paese così lontano dall’Europa, ha posto molti storici di fronte ad un grande dubbio: Alessandro era partito dalla Macedonia con l’intenzione di raggiungere l’India oppure era un progetto che era andato maturando solo da qualche tempo nella mente del Monarca?

 

Al termine del rigido inverno afgano del 328-327 a.C., Alessandro aveva disposto che i contingenti si ritrovassero a pochi km a sud di Battra, da dove avrebbe dovuto prendere corpo la nuova spedizione. Era, in realtà, non solo un gesto simbolico che accompagnava il sovrano, l’entrata in India doveva essere una vera e propria “nuova campagna” stracolma di significato e di portata storica mai più ineguagliata. Il Generale stava rivedendo il suo esercito: aveva la necessità di riorganizzare l’intera spedizione e non solo l’esercito che si era spinto fino a questi luoghi. Le motivazioni che lo spinsero ad attuare questa nuova politica militare erano tante e tutte estremamente razionali e comprensibili.

 

Già dall'estate del 328 a.C. si erano presentate al cospetto del Signore d’Asia, delegazioni indiane che, al pari degli sciti delle steppe speravano di utilizzare l'esercito dell'invasore per aumentare i loro domini.

 

Probabilmente il Re ottenne da Sasigupta (Sisicotto, in greco), signore locale della regione di Gandhara (Pakistan settentrionale), che un tempo aveva appoggiato Besso, che aveva avvicinato i macedoni in Sogdiana, più di qualche informazione sul paese che avrebbe incontrato sui suoi passi: Sasigupta era una specie di messo del rajah di Omfi, sovrano del regno di Tassila, il quale gli offriva il suo sostegno contro il vicino Poro: era a conoscenza di un clima differente e di un terreno totalmente nuovo su cui i piedi dei suoi fanti e dei suoi cavalli si sarebbero poggiati; inoltre i malumori del nucleo macedone lasciavano intravedere poche prospettive di proseguimento, dopo otto lunghi ed estenuanti anni di battaglie in posti lontani dalla macedonia; per ultimo si conosceva anche il modo di combattere e l’armamento dei nemici, se fu necessario modificare anche i reparti e questo non avvenne per sola scelta tattica.

 

La guerriglia nelle due province più periferiche di Battriana e Sogdiana era stata devastante sotto il profilo morale e materiale. Erano caduti più macedoni di quanto non fossero con la somma di tutte e tre le battaglie campali.

 

I cambiamenti “naturali” erano dovuti ad un abbassamento della percentuale macedone e ad un brusco innalzamento di quella asiatica e ciò non riguardava solamente i soldati ma anche i generali.

 

A Battra si riunirono tutti i distaccamenti anti-guerriglia che provenivano da tutto il paese, inoltre vennero invitati ad intervenire gli alleati oltreconfine e gli ausiliari, coscritti, e per ultimi i macedoni che avevano avuto modo di svernare e di riposarsi. Dopo una breve rassegna, venne messo in pratica ciò che probabilmente Alessandro aveva già studiato durante ‘inverno e che progettava forse da un paio d’anni: la riorganizzazione dell’intero esercito.

 

Mancavano ormai diversi generali dello stato maggiore: Clito il Nero, Filota, Nicanore, Parmenione; mentre altri rimanevano saldamente al suo fianco come amici e come guardie del corpo reali: Efestione, Perdicca, Leonnato, Tolomeo, Lisimaco, Pitone e Aristone.

 

La più importante delle hai degli etairoi, l’agema, non rappresentava più né il più importante degli squadroni né tanto meno il più forte: dello squadrone reale di Alessandro facevano ormai parte i figli di quei nobili persiani che erano stati i suoi principali avversari (Artabazo, Mazeo, Frataferne, Oxiarte). Le due hai secondarie vennero ritrasformate in quattro ipparchìe da 1000 uomini, a capo delle quali vennero posti i più fidati generali: Efestione, Cratero, Perdicca e Demetrio. Alessandro si rendeva perfettamente conto che non poteve più contare sulla qualità eccelsa delle suoi battaglioni, ma che doveva contare su un misto di macedoni a cui si aggiungevano, cavalieri battriani, aracosii, sogdiani e saci.

 

Le dieci taxeis falangite erano comandate dai tre comandanti, Ceno, Meleagro e Poliperconte; che erano partiti dalla Macedonia, a cui si aggiunsero i nuovi subalterni: Clito il Bianco, Attalo e Alceta, fratello di Perdicca.

Le tre taxeis di ipaspisti da mille uomini erano invece guidate da Seleuco, che aveva sostituito Nicanore, Antioco, mentre l’ultima era stata affidata a Nearco.

 

Ai 3000 sarissofóroi e ai 10.000 peoni venne dato un compito decisamente delicato: presidiare le aree delle due satrapie più pericolose. Aminta, avrebbe presidiato la Battriana e la Sogdiana, da ogni eventuale ribellione inoltre avrebbe avuto anche una funzione di retrovia della nuova spedizione.

 

I sarissofóroi vennero sostituiti, alla meno peggio con un reparto speciale di 1000 arcieri a cavallo dahi, quei formidabili arcieri della steppa asiatica in previsione di quello che avrebbero incontrato.

 

La spedizione non aveva il solo compito di conquista; dopo tutto gli appena 40.000 combattenti non sarebbero bastati neanche per una minima battaglia campale. La conquista era una sorta di esplorazione. Sapeva bene, il Macedone, che non avrebbe potuto portare nulla che intralciasse o rallentasse il cammino, anche e soprattutto per un veloce rientro in patria: bruciò le salmerie inutili e soprattutto i grandi carri con quelle parti di bottino inutili e congedò, premiandoli e mostrandone i riconoscimenti, molti suoi veterani sostituiti dai cavalieri persiani.

 

Tuttavia la spedizione conduceva con se filosofi, mercanti, geografi, artisti studiosi di ogni tipo inoltre si aggregavano anche i figli e le mogli dei soldati di modo che alcuni valutano gli effettivi dell’intera “carovana” nel numero di 120.000.

 

Le conoscenze sull’India erano note da Aristotele: l'Indo era il corso superiore del Nilo; il paese indiano era contiguo all'Etiopia, ed era separato da esso da un grande lago (Oceano Indiano); in pratica si trattava di una penisola a forma di triangolo che s’inseriva verso oriente nel grande lago, poco dopo lo Iaxarte.

 

La leggenda voleva l’arrivo di Bacco in India e grazie a lui i “selvaggi” indiani sarebbero stati trasformati da pastori e cacciatori in agricoltori, i quali progredirono, sotto la guida di Dioniso, verso uno stadio evolutivo estremamente alto e che venne poi interrotto dall'arrivo di Eracle. Dopo il raggiungimento del Dio-Eroe, avo tra l’altro della casa argeade, nessun altro varcò l'Indo, da allora gli indiani vivevano isolati dal resto del mondo. Come tutti i miti greci, il riscontro storico ci riporta ad una precedente etnia, i Dravidi, popolazione che abitava l'India fin dal IV millennio a.C., a cui si erano sovrapposti, nel XXI secolo a.C., gli Arii, popolazione indoeuropea, che aveva occupato dapprima il Punjab e poi si era spinta fin oltre il Gange.

 

In quanto erede del regno achemenide, Alessandro sapeva, anche attraverso i racconti erodotei che Dario I il Grande aveva esteso anche sul Punjab il suo impero lungo il confine dell'Indo, anche se rimaneva il ragionevole dubbio che la fascia che va dalla catena dell’ Hindukush (Baluchistan) al fiume fosse solamente di rispetto.

 

Quando giunsero i Macedoni, il confine dell’Impero Iranico formalmente, non andava oltre la valle del Kabul.

 

In Alessandro dovettero fondersi due motivazioni per l’invasione, e che rimasero sempre con lui: da una parte il voler riaffermare ed espandere l'impero fino ai vecchi confini di quello Achemenide, riportando tutto ciò che aveva “ereditato” alla sua massima estensione; il secondo aspetto prevedeva quello, non meno credibile, dell'emulazione divina: il discendente in linea diretta delle due uniche divinità Dioniso ed Eracle, rispettivamente da parte di madre e di padre, non poteva esimersi dal riproporre quelle stesse se non maggiori imprese che i suoi avi divini avevano già compiuto.

 

Alla fine della primavera del 327 a.C. tutto era pronto per entrare in India, il convoglio riattraversò con una marcia di dieci giorni la catena del Paropamiso (Hindukush), che già era stato varcato due anni prima, attraverso la strada di Bamian e della Valle di Ghoroband, dove aveva fatto convergere le proprie truppe, quindi superò il passo di Kaoshan, ad un'altezza di 4300 metri, e raggiunse Nicea, nei pressi dell'odierna Kabul.

 

Quindi riprese il corso del fiume Chopen (l'odierno fiume Kabul) ed una volta valicato il passo Khyber, che lo conduceva oltre i passi dell’Hindukush, rafforzò l'Alessandria di recente fondazione, detta del Caucaso, con nuovi coloni.

 

Alessandro predispose che qui vi rimanesse come capo della guarnigione un tal Nicanore e che venisse nominato Oxiarte in qualità di satrapo del Paropamiso e quindi divise le sue truppe: sempre scendendo lungo la valle del fiume Kabul verso le pianure dell'Indo, diede inizio all'invasione vera e propria, non prima di aver incontrato, tra gli altri, il nuovo rajah di Taxila, subentrato al padre appena deceduto, di nome Ambhi, che fece atto di sottomissione e con il regalo di 25 elefanti.

 

Alessandro accettò il dono e utilizzò gli animali esclusivamente per il trasporto dei carichi, non considerando neanche lontanamente la possibilità di utilizzarli in battaglia; in questo modo si sanciva un’amicizia forte e duratura tra i due regnanti. Inoltre il Principe macedone veniva a conoscenza dei primi fondamenti geografici sull’India. Oltre ad avere un quadro molto più chiaro della situazione che avrebbe incontrato più ad est, sapeva che all’immettersi del Chopen nell’Indo si sarebbe aperta davanti a lui una sterminata pianura chiamata Punjab, – il nome indica una regione composta da cinque fiumi – delimitata a nord dalle alture del Kashmir e solcata da quattro grandi affluenti, l'Idaspe (Jehium), l'Acesine (Chenab), l'Idraote (Ravi) e l'Ifasi (Beas), che convogliano le acque della catena Hymalaiana nell’Indo.

 

Grazie alle informazioni primarie dategli da Ambhi, che venne chiamato in greco con il nome della capitale del suo regno, Taxila, il Re venne a conoscenza di tutto quello che lo aspettava: per alcune centinaia di km, avrebbe trovato davanti a se una serie di regni e principati del tutto indipendenti, molti in rivalità tra loro e, almeno singolarmente e tecnologicamente non in grado di confrontarsi con l’esercito macedone.

 

In particolare nell’immediato, il territorio che lo attendeva e che andava dalle pendici della catena del Paropamiso e quindi all’Indo fino all’Idaspe (Jhelum); confinava con il regno di Taxila, quello di Poro (Paurava), che aveva come confini naturali i fiumi l'Idaspe, appunto e l'Acesine (Chenab); ancora più ad est, verso nord, vi era quello di Abisare, che aveva come confine estremo i monti dell'attuale regione del Jammu e Kashmir.

 

Probabilmente non solo ricevette informazioni su quello che l’attendeva ma anche su quelle regioni che erano ancora conquistabili, nel nord e che erano state certamente restie ad essere sottomesse sia agli achemenidi sia allo stesso Taxila, che probabilmente lo spinse ad intraprendere una campagna in queste aree. A novembre, una volta raggiunta la parte discendente dopo il valico di Khyber, la colonna militare venne spaccata in due: così come era usanza d’Alessandro, nell’approccio di territorio ostile e sconosciuto, mandò in avanscoperta le truppe pesanti, le salmerie e i mercenari, al comando di Perdicca ed Efestione guidati da Taxila stesso, che discesero la valle del fiume Kabul nella sua parte settentrionale, con tre obbiettivi: tastare le intenzioni della capitale di questo regno semi-indigeno, ovvero Peukelaotis (l'attuale Charsadda), rendere sicura la strada principale e quindi annientare ogni nucleo di resistenza e, una volta giunti alla confluenza con l’Indo, costruire un ponte di barche.

 

Il Sovrano, invece si armò con sette battaglioni della falange, tutte le truppe armate alla leggera, ipaspisti, arcieri, agriani e asthetaìroi, e con le macchine ossidionali e, seguendo una direttrice parallela, si spinse lungo la vasta area montuosa di Bajaur a nord del Kabul, attraverso le regioni dello Swat.

 

Questa regione era abitata da popolazioni montanare indiane estremamente bellicose e restie a sottomettersi e in un certo modo, memore dei fatti della Sogdiana e Battriana, risalì la valle del fiume Kunar, per non lasciarsi alle spalle eventuali focolai di rivolta. Superò le gole della futura Jalalabad e quindi si ritrovò nel territorio degli Aspasi, nell'attuale Ashkum.

 

Alessandro dovette affrontare combattimenti più impegnativi quando programmò un'invasione nel regno degli Assaceni dello Swat inferiore. Anche costoro erano un popolo temibile, per nulla disposto a fare atto di sottomissione. Il suo sovrano eponimo poteva schierare un esercito considerevole, stimato in 30.000 fanti e 2000 cavalieri, trenta elefanti a cui andavano ad aggiungersi contingenti mercenari: 7000 mercenari reclutati nelle pianure a est dell'Indo.

 

Convinto di essere riconosciuto sin da subito come loro sovrano, considerò gli abitanti propri sudditi, ma si ritrovò ad accorgersi ben presto che, oltre il fiume Coe (Alingal?), gli abitanti si erano attestati su delle fortezze arroccate sulle pendici dei monti.

 

Del tutto intenzionato a mostrare il pugno duro, il Macedone, attaccò subito la prima roccaforte quando questa durante un accenno di resistenza lanciò una freccia che lo ferì leggermente alla spalla.

 

Sotto l’impeto dell’ira, il giorno dopo venne dato l’ordine di assaltare la fortezza, di trucidare gli abitanti e radere al suolo l’insediamento, ma molti di loro erano già preparati a questa evenienza e i difensori si profusero in una fuga verso nord e quindi verso nuove cittadine fortificate: dopo questo episodio, la vicina città di Andaca si arrese immediatamente; ma durante l’organizzazione della città, Alessandro presto si dovette rendere conto che quella degli indiani di queste zone era una tecnica. Infatti nell’insediare Cratero in città, con un contingente per il controllo dell’area e del territorio, gli abitanti nottetempo evacuarono il centro abitato e vi appiccarono il fuoco. Anche in questo caso vi fu una fuga generale ed il relativo inseguimento con magri risultati.

 

Le cose iniziarono a farsi preoccupanti dopo l’attraversamento delle montagne che portavano nella regione di Bajaur. Era necessario un cambio di strategia da parte macedone, e fu necessario anticipare le mosse nemiche cercando di occupare in velocità e d’anticipo gli avamposti, avanzando con le sole truppe leggere, ma l’effetto non fu quello sperato ed il risultato lo si vide quando l’armata giunse nei pressi di Arigaion (l'attuale Bajaur) che non solo era stata già abbandonata ma soprattutto messa a ferro e fuoco.

 

È chiaro che gli abitanti dello Swat, così come si chiama la regione attuale, non potevano ritirarsi all’infinito e per questo una volta riunitisi da tutta la regione s’incontrarono in un punto a loro favorevole per sorprendere il Re ed attaccarlo in battaglia campale: gli Aspasi, benché il loro rajah era già stato ucciso da Tolomeo durante una delle fughe, non solo radunarono un unico esercito, ma si presentarono sul campo con più di 100.000 uomini.

 

Alessandro, per niente intimorito, diede ordine di dividere le truppe in tre colonne, di cui quella centrale sarebbe stata guidata da lui stesso mentre le due laterali da Leonnato e Tolomeo, con l'incarico di circondare i fianchi dello schieramento avversario.

 

Incredibilmente, furono gli stessi Aspasi a portare l’assalto, esaltati dalla superiorità numerica e dal vantaggio della posizione sopraelevata del pendio sul quale si trovavano.

 

Lo sfondamento centrale, seguito dall’aggiramento dei fianchi della debolissima fanteria indiana, provocò una rotta quasi immediata verso l’unica via d’uscita: alle loro spalle e che coincideva con il pendio dal quale avevano caricato. I macedoni si gettarono, secondo le disposizioni del loro re, verso di loro cercando di massacrarne il più possibile, ma si ritrovarono ai loro piedi circa 40.000 prigionieri e quindi si diedero al saccheggio tutta l’area, catturando mandrie di bestiame d'alta qualità, che venne mandato in Macedonia. Quasi senza riposarsi, l’esercito si diresse verso est, entrando nelle gole dove confluiscono il Panikora e lo Swat e dove si erano asserragliati gli assaceni.

 

Qui, che era considerato il nodo strategico dell’area venne fondata una nuova città.

 

Questo tipo di procedura, come già accaduto in Sogdiana, dove si era dimostrata tanto efficace, ossia d’intimidazione ed occupazione militare iniziò a dare i suoi frutti: tra il Coe e la valle del Kunar giunse una prima delegazione di un villaggio che intendeva arrendersi pregandolo di tenere nei loro riguardi un trattamento di favore, asserendo che la loro era una città sacra dedicata a Indra o Shiva che venne identificato con il Dioniso greco e si lasciò intendere che gli abitanti locale discendessero dalla divinità ellenica. Altri indizi, tra cui il nome del monte o del luogo, “meros” che ricordava il mito bacchico della nascita dalla coscia di Zeus (in greco meròs) e la presenza dell’edera e dell'alloro, portarono il Monarca a ribattezzare la città col nome della nutrice del dio: Nysa.

 

La scoperta, che riportava alla tradizione del trionfo di Bacco in India, venne celebrata da una serie di cerimonie sacre, sacrifici e festeggiamenti bacchici, in cui l’edera venne usata per incoronare l’intero esercito.

 

Al pari della comunità dell’Helmand, Nysa non ebbe cambiamenti interni di alcun tipo, venne ratificata una sorta di libertà formale, in cui i 300 notabili governati avrebbero dovuto rendere conto solo al sovrano locale che a sua volta aveva l’obbligo di riferire al satrapo imposto dal Vincitore, in cambio di un contingente di cavalleria e dei parenti del sovrano utilizzati come ostaggi.

 

Massaga

 

I sopravvissuti allo scontro, e coloro che si erano ritirati dalle diverse roccaforti, si ritrovarono nella loro capitale Massaga, in prossimità del passo di Katgala, una fortezza estremamente difficile da espugnare, visti i baluardi naturali e artificiali che la difendevano: la parte sopraelevata sulla quale era costruita presentava delle pareti scoscese naturali a sud e ad ovest mentre ad est era bagnata dal fiume Swat, questa sopraelevatura era coronata da una cinta muraria lunga 6300 metri, la cui base era costituita di pietra e l’elevato era formato da mattoni crudi e fango pressati da travi di legno, il cui camminamento superiore era ben riparato da una tettoia in legno e il tutto era circondato da un profondo fossato.

 

Le torri d’assedio vennero predisposte più per intimorire che per abbattere le fragili difese. Nel vedere questo spettacolo gli assaceni si riversarono nella piana sottostante per attaccare le macchine d’assedio prima che l'esercito fosse totalmente schierato a battaglia davanti alla città. A questo punto Alessandro, simulò una ritirata per attirarne il più possibile fuori dalle mura e in modo da allontanare i suoi dal fuoco degli assediati. Arrivati alla distanza giusta, ossia lontano dagli spalti d’assedio, ordinò un immediato dietrofront, facendo voltare per primi gli arcieri, i lancieri e agli agriani, e quindi si gettò alla carica seguito dalla falange.

 

Tuttavia gli Assaceni riuscirono a rientrare all’interno delle mura accusando appena poche perdite, mentre Alessandro, nel tentativo di chiudergli la via di fuga ricevette la ferita alla caviglia per via di una freccia.

 

I difensori, evidentemente in quantità numerica elevata, si resero conto che per poter avere una qualche speranza di resistere, avrebbero dovuto mantenere le mura guarnite di uomini, in modo da respingere gli assalti.

 

Alessandro predispose primariamente che il fossato venisse colmato da un terrapieno che potesse portare le macchine a livello degli spalti, sollevandone la posizione.

 

Le numerose città-fortezza, che l’esercito macedone incontrò lungo il suo cammino per il controllo dell’area, devono aver indotto gli autori dell’epoca ad una certa confusione, per questo anche Arrriano e Curzio Rufo, redattori postumi, offrono due versioni in un qualche modo “distanti” dello stesso assedio.

 

Secondo il primo autore ci vollero 4 giorni di attacchi successivi ed intensi per aver ragione degli assediati: il primo giorno grazie alle torri dopo il danneggiamento degli spalti e l’uccisione di numerosi arcieri che vi trovavano posto, portò all'apertura di una breccia che consentiva l’accesso in città, ma gli attaccanti che provavano ad entravi venivano fatti oggetto di una miriade di proietti; il secondo giorno si tentò, tramite una torre mobile, di decimare tutti gli arcieri e i difensori sugli spalti ma il ricambio continuo non consentiva approcci veementi; il terzo giorno venne agganciato un ponte che superasse la gola della breccia, come accaduto a Tiro, che però sotto il peso degli ipaspisti, giunti in massa, cedette, provocando un disastro: gli attaccanti vennero tramortiti con ogni sorta di oggetto lanciato dagli spalti. Se non fosse intervenuta la taxis di Alceta a difendere gli ipaspisti con i larghi scudi sarebbe finito tutto in un enorme disastro.

 

Solo dopo che il comandante di Massaga venne colpito e ucciso da un colpo di catapulta, l’intera comunità si arrese. Secondo Curzio Rufo invece ci vollero i doppio dei giorni per innalzare un terrapieno su cui fu fatta passare una torre mobile che appena venne vista dagli assediati avvicinarsi e a muoversi da sola senza pensare agli uomini che la spingevano da dietro, portò gli indiani a trattare con la supplica di risparmiare gli abitanti.

 

Alessandro da parte sua richiese solo che i mercenari avversari fossero ceduti ed entrassero a far parte del suo esercito. Questi abbandonarono la città e si andarono a posizionare su un’altura poco distante. E quando seppe che questi si erano allontanati dalla città, circondò immediatamente la collina e li massacrò tutti.

 

Il terrore allora percorse l’intera regione per quello che era accaduto: le città più settentrionali, che sarebbero dovute cadere per l’intimidazione, si fortificarono ancora di più: mentre Alessandro si trovava ancora a Massaga, inviò Ceno per porre il blocco a Bazira (nei pressi dell'attuale Baricowt), mentre Attalo, Demetrio e Alceta furono inviati per iniziare l’assedio di Ora (Udigram) ed ambedue i distaccamenti vennero messi in una fase di stallo. Fu necessario prima l’intervento di Alessandro al fianco di Ceno con un corpo di forze più consistente e a loro volta a fianco dei tre generali falangiti sotto le mura di Ora per espugnare la città al primo assalto; Bazira, rimasta isolata venne abbandonata e nei due centri prima della ripartenza vennero insediate delle guarnigioni e rinforzate le difese.

 

Aorno

 

«Questa rupe non si eleva, come la maggior parte delle altre, verso il punto culminante con pendii modesti e dolci, ma è conformata proprio come una colonnina conica, la cui base è più larga, la parte superiore si va restringendo, quella più alta svetta in una guglia sottile» (Curt. Ruf.).

 

Era l’ultima fortezza, prima di poter “virare” verso sud, verso l’Indo. Ma era anche l’ultimo fortilizio in cui si erano rifugiati tutti i profughi Assaceni scampati agli assedi e delle battaglie precedenti che avevano seguito l'esempio della gente di Kunar, evacuarono i loro stanziamenti e si rifugiarono qui.

 

La rocca, formata da un complesso difensivo unico, si trovava alle pendici del Piccolo Una (2400 m s.l.m. e a 1500 sopra il livello dell'Indo) dai fianchi estremamente ripidi e boscosi, ed ipoteticamente identificata con il monte Mahaban e con la località di Pirsai, tra i fiumi Kabul e Buner, si trovava su un picco apparentemente inaccessibile, in prossimità della valle dell'Indo, soprannominata, come quella in Battriana, Àorno.

 

In questo luogo, più verosimile a mito che a realtà, si narravano le gesta di Krishna divinità indiana associata al greco Eracle. Ora, o secondo una tradizione precedente o secondo una leggenda appositamente creata dagli studiosi ellenici, un tempo, Eracle aveva tentato inutilmente ad espugnare il monte-fortezza.

 

La voglia di provare a superare colui il quale era stato il fondatore della dinastia da cui discendeva era immensa; anche perché Alessandro non aveva scelta…

 

Oltre al potenziale superamento di un suo avo, nonché di eroe-dio, l’Argeade aveva la necessità di chiudere i conti con l’ultima sacca di resistenza nello Swat al fine di rendere sicure le retrovie prima di varcare l’Indo.

 

Le considerevoli dimensioni della fortezza, l’abbondanza di acqua sorgiva e di grano, condussero il Generale a prepararsi per un lungo assedio: venne fortificato il bassopiano sottostante il picco e fece accasermare Cratero, con il grosso dell'esercito, a Ecbolima (l'odierna Ambela), la città più vicina alla fortezza, con l'incarico di procurarsi e di ammassare provviste sufficienti a sostenere i soldati in previsione di un lungo assedio; le fertili valli dell'Indo e di Peshawar gli permettevano di contare su un'ampia disponibilità di risorse. Quindi l’esercito si accampò ai piedi dell'altura che ospitava la roccaforte,

 

Grazie alla solita tecnica, tipica dell’Allievo di Aristotele, vennero utilizzate delle guide locali o, secondo alcuni, dei traditori che gli indicarono, un sentiero nascosto che costeggiava le pendici e che avrebbe permesso agli assalitori di assestarsi nei pressi di un valico che portava direttamente alla roccaforte. Il grosso delle truppe, guidate da Alessandro, venne preceduto da un’avanguardia guidata da Tolomeo, affinché s’impadronisse della postazione, al comando di agriani, ipaspisti e altra fanteria leggera.

 

Il suo ethairos eseguì l'incarico, pur dovendo inerpicarsi attraverso sentieri accidentati; giunto sul luogo studiò l’area ed iniziò a fortificarla con una palizzata e un fossato, quindi fece scattare il segnale che l’operazione era andata a buon fine e che Alessandro poteva raggiungerlo. Il Re si mosse prontamente portando con sé il resto della sua forza d'assalto: il battaglione di Ceno, arcieri appiedati, duecento eteri, alcuni ipaspisti scelti e infine si avvalse delle nuove leve utilizzando per l'occasione anche un drappello di arcieri a cavallo dahi, in modo da piazzarsi proprio sotto la fortezza.

 

Durante le operazioni di segnalazione e di movimentazione macedone, i difensori si accorsero di quello che stava accadendo e quando il Signore Macedone giunse ad un certo punto della salita del pendio, si trovò probabilmente la strada sbarrata, tanto da dover optare per una via più visibile e di una sortita degli indiani che gli costò una delle pochissime ritirate della sua carriera, essendosi accorto dell’impossibilità di fronteggiare il pericolo a causa della pendenza.

 

In questo modo rimaneva alla mercé dell’attacco indiano l’avamposto di Tolomeo; gli indiani durante l’attacco alla colonna di Alessandro avevano notato anche la sua presenza ed incautamente, forse perché esaltati dalla momentanea vittoria, si avventarono contro la palizzata fatta innalzare dal subalterno, cercando di divelterla, ma l’intervento agriano, tramite una pioggia di proiettili, li dissuase, fino al giungere della notte.

 

Il giorno dopo, Alessandro tentò una nuova strategia: una risalita del pendio ed in contemporanea un attacco di Tolomeo sul fianco dei difensori che avrebbero bloccato la sua ascesa.

Stavolta, dopo aver fatto recapitare il messaggio da un disertore indiano al suo compagno, isalì per la strada utilizzata da Tolomeo e l’impresa fu ardua perché dovette sfondare lo sbarramento indiano a mezza costa lungo una strettoia. Il combattimento fu estremamente faticoso perché durò l'intera giornata, con i macedoni che riuscirono ad avere ragione dei nemici solo in serata, grazie all’intervento di Tolomeo, liberatosi da un blocco e dalla tattica di avvicendamento in prima fila dei soldati.

 

Dopo il riuscito sfondamento del blocco ed il riuscito ricongiungimento dei due tronconi, la smania di conquista, portò Alessandro a non concedere neanche un minimo di riposo ai suoi soldati e ordinò loro di proseguire nella controffensiva fino ad assaltare la rocca, sperando nella sortita offensiva.

 

Gli assalitori erano ormai senza fiato per tentare una simile impresa e furono costretti ad una precipitosa ritirata, inseguiti dalla pioggia di giavellotti e di sassi scagliati dagli assediati: in 24 ore Alessandro doveva registrare un secondo insuccesso.

 

Durante la notet che seguì all’estenuante giornata, Alessandro obbligò i suoi uomini a ricavare pali su pali da alberi ancora da tagliare per poter ampliato e potenziato il terrapieno d'assedio lungo la sella; in questo modo si sarebbe colmata la distanza ed annullato il dislivello tra l'altura sulla quale si erano accampati i macedoni e quella su cui si trovava la rocca in modo che i mezzi d’assalto e d’assedio, catapulte, scorpioni e balestre raggiungessero un livello più alto della posizione degli assediati.

 

Man ma no che il lavoro procedeva, i frombolieri macedoni si appollaiavano sui pali e tiravano contro gli indigeni, per impedirgli di bersagliare a loro volta gli operai. Sotto la supervisione diretta di Alessandro i lavori procedettero spediti, e già al termine della prima giornata l'intelaiatura aveva una lunghezza di quasi duecento metri e nei tre giorni successivi si dovette pensare solo a riempirla di terra. Dopo quattro giorni Al termine dei lavori, con il terrapieno arrivava appena sotto le difese principali gli indiani si resero ocnto delle magre possiblità di resitere e si convinsero a trattare. Tuttavia cercavano di allungare le tratttative, anche perché le prospettive erano piuttosto pesanti o finire come schiavi o come mercenari coscritti nelle file dell’esercito, con l'intenzione segreta di evacuare la rocca durante la notte.

 

Gli indiani uscirono nottetempo da una porta secondaria cercando di disperdersi e fuggire, quando ciò che stava accadendo venne saputo dal Macedone, Lui stesso con settecento tra ipaspisti e guardie del corpo, vi si catapultò addosso con l’obbiettivo di massacrarli trafiggendoli o spingendoli giù dai dirupi, anche se secondo Diodoro, questa mossa fu intenzionale, invece, afferma che il condottiero lasciò intenzionalmente ai difensori uno stretto passaggio per indurili alla fuga.

 

Aorno, la fortezza di fronte alla quale anche Eracle si era dovto arrendere, era presa ed il fatto che questo fosse accaduto tramite una forza relativamente ridotta e per giunta con perdite modeste, dimostrava la totale supremazia macedone in termini di tecnologia poliorcetica.

 

Alessandro celebrò i sacrifici di rito, affidò il comando della guarnigione a Sasigupta

 

e si diresse ancora più a nord, verso la città di Dyrta sulle montagne di Buner, dove un principe locale stava tentando una parvenza di resistenza, veniva spazzata via in pochissimo tempo da due battaglioni di ipaspisti guidati da Nearco e Antioco e conclusa con operazioni di rastrellamento, per non lasciare dietro nessuna sacca di resistenza; fino a quando, davanti all'avanzata macedone verso l’Indo, la popolazione abbandonava i centri abitati e, quando egli puntò verso l'Indo lungo, gli avversari uccisero il proprio capo e mandarono la sua testa al Conquistatore..

 

Gli uomini in armi attraversarono il fiume per cercare rifugio presso Abisare, principe dell'odierna Hazara, mentre per la prima volta degli elefanti catturati vennero inquadrati nel suo esercito. Dietro di lui, fino ai confini del Paropamiso, il territorio era affidabile, almeno per il momento.

 

Giunto sulla sponda occidentale dell’Indo imbarcò gli uomini stremati su delle imbarcazioni fatte costruire appositamente.

 

Contemporaneamente, Perdicca ed Efestione che avevano compiuto un percorso più lineare, lungo la valle del Kabul, s’imbatterono nella citta, capitale della regione omonima: Peukelaotis (l'attuale Charsadda), che tentò una resistenza per 30 giorni, finché, assaltata non cadde e il suo raja cadde nello scontro.

 

Alla fine dell’inverno del 326 a.C., il ponte costruito dagli effettivi di Efestione e Perdicca, era completato.

 

Qui si rincontrarono i due corpi di spedizione e si fece il punto della situazione prima dei preparativi per l'attraversamento. Alla confluenza del Kabul con l’Indo, Alessandro era pronto ad entrare nel Punjab e lo Swat, ora era totalmente sottomesso, inoltre poteva creare una satrapia provvisoria che comprendeva l’area settentrionale del settore che va dalle pendici dell’Hindukush all’Indo e nominò come satrapo il macedone Nicanore che avrebbe avuto il compito di controllare i capi locali (iparchi).

 

Nella primavera del 326 a.C., Alessandro poteva entrare nel regno di Ambhi da lui denominato Taxila, convinto che quella regione, di vitale importanza per le relazioni con la parte sostanziale del suo impero fosse totalmente sotto il suo diretto controllo, ma si sbagliava: la personalità nominata per governare la regione, fu un fallimento perché già alla fine del 326 a.C., ossia un anno dopo, gli assaceni si ribellarono e assassinarono lo stesso reggente.



 

 

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