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N. 89 - Maggio 2015 (CXX)

ALESSANDRO ISKANDER
I LATi OSCURi DI ALESSANDRO MAGNO

di Riccardo Poli

 

Alessandro III di Macedonia è universalmente conosciuto come Alessandro il Conquistatore, Alessandro il Grande o Alessandro Magno, ma un altro appellativo aleggiava già al tempo delle sue imprese: egli, nell’Oriente da lui stesso conquistato, era Alessandro Iskander, ovvero il “distruttore”, l’”assassino”, il “portatore di morte”.

 

Specialmente nei popoli da lui sottomessi era considerato un barbaro, un uomo che annientava chiunque si permettesse di opporsi alle sue decisioni, chiunque rigettasse il suo potere e comando, chiunque fosse stato d’intralcio alla sua scalata verso l’immortalità.

 

Nonostante siano confermate le notizie che riferiscono di una lunga serie di orrori da lui commessi, quali la distruzione di città, l’uccisione di nemici, il sacrificio di donne e bambini, le fonti antiche lo hanno sempre dipinto in primo luogo come un generale carismatico e un dio vivente. Eppure in altre testimonianze egli diventa un megalomane, un killer psicopatico.

 

Quali azioni gli sono valse il titolo di Iskander?

 

Cosa ha fatto per essere considerato da alcuni una figura maledetta?

 

Iskander è solo il nome arabo-persiano di Alessandro III di Macedonia o un nome che nasconde in sé una serie di mostruosità perpetrate dallo stesso uomo passato alla storia come uno dei più grandi conquistatori mai esistiti?

 

Proviamo a rispondere con l’ausilio delle principali fonti storiche sulla sua figura a noi pervenute, ovvero Plutarco, Curzio Rufo, Flavio Arriano e Diodoro Siculo. C’è da considerare innanzitutto che questi autori scrivono molto tempo dopo l’epopea alessandrina, e che i due scritti probabilmente più importanti, ovvero La vita di Alessandro di Plutarco e L’Anabasi di Alessandro di Arriano, sono distanti ben quattrocento anni dai fatti narrati. Ciò rappresenta un primo limite sia per tentare di rispondere alle nostre domande, sia per analizzare in toto la vita del Macedone (altro limite è naturalmente la perdita di fonti più autorevoli nonché coeve alle imprese del Grande, quali Aristobulo di Cassandrea, Tolomeo di Lago, Clitarco e Callistene); perciò è difficile dare una giusta interpretazione.

 

Ma partiamo dalla vita del Macedone. Le radici del suo comportamento risalgono, nell’infanzia, certamente ai genitori, al padre Filippo e alla madre Olimpiade. Non c’è dubbio sul fatto che Filippo fosse un grande generale, capace com’era stato, di sottomettere, con la battaglia di Cheronea del 338 a.C., la coalizione di città greche diventandone arbitro nonché supremo comandante.

 

È però altrettanto vero che Filippo fosse particolarmente incline a bere, fosse spesso assente dalla Macedonia e quindi poco impegnato nell’educazione del figlio, e che avesse un diverso numero di relazioni per cui più figli; tutte cose che potrebbero, molto probabilmente, aver turbato il giovane Alessandro, che già da piccolo doveva fare i conti con un potere spropositato, se è vero che nel 340 a.C. a soli sedici anni rimase a Pella, capitale della Macedonia, come reggente.

 

Da una parte dunque un difficile rapporto col padre, dall’altra un legame a dir poco stretto con la madre, che da subito lo rassicura sulla sua natura speciale, sul suo grande destino già scritto, ma soprattutto, anche per osteggiare le continue relazioni extraconiugali del marito, sulla sua paternità divina.

 

Il comportamento di Alessandro e di Olimpiade nella irrisolta vicenda della morte di Filippo è più che ambiguo: lei mette una corona nella tomba del presunto assassino Pausania, lui, anche se odia il padre, lo piange e gli fa costruire una tomba grandiosa; eppure il loro coinvolgimento nell’assassinio del figlio di Aminta è quasi scontato, soprattutto per Olimpiade, che sembra sia anche la mandante dell’assassinio di Euridice, nuova moglie di Filippo, e dei suoi figli, che avrebbero minacciato l’ascesa al trono del prediletto Alessandro.

 

Una serie di accadimenti che potrebbero aver influito negativamente sulla crescita di un ragazzo, ricordiamolo, di appena vent’anni. Nel 336 a.C. comunque Alessandro diventa re di Macedonia e generale dell’esercito della lega degli stati greci.

 

Coincide con l’ascesa al trono il primo atto violento del giovane re Macedone: approfittando dell’effimero vuoto di potere lasciato da Filippo, Triballi e Illiri danno il via ad alcuni sommovimenti, seguiti, nel settembre-ottobre del 335 a.C., da Tebe, antichissima polis beotica speranzosa di rivivere la passata egemonia. Per tutta risposta Alessandro, senza indugio, decide di marciare contro Tebe e raderla al suolo senza colpo ferire, per lanciare un monito a tutte le città che avessero pensato di comportarsi allo stesso modo.

 

La ribellione costa alla città fondata da Cadmo 6.000 morti e 30.000 schiavi. La brutalità dell’intervento fece cambiare idea alle altre zone che si stavano organizzando per una ribellione; Alessandro aveva ottenuto l’effetto desiderato: il rispetto della sua persona e la paura delle sue truppe. In questo modo era riuscito anche a “zittire” Atene, che era ormai solo l’ombra dell’antica potenza, e in particolar modo Demostene, il famoso oratore che aveva spinto con tutte le sue forze per la creazione di una coalizione e di un fronte d’intervento antimacedone.

 

La distruzione di Tebe è certamente un atto di barbarie, ma Alessandro pensa bene, e subito, di puntare il dito contro il sinedrio federale di Corinto, vero responsabile della strage, al quale non resta che ratificare l’operato del Macedone e riconoscerlo nuovo padrone. Perché Alessandro risparmia Atene, reale motore dell’insurrezione?

 

Nella risposta possiamo già intravedere le qualità politiche del figlio di Filippo, osannate senza remora da Napoleone: graziare Atene è l’unico modo per giustificare uno dei fondamenti della sua ideologia di conquista nei confronti della Persia e dell’Oriente, che sta prepotentemente uscendo proprio dopo la risoluzione dell’affaire ellenico; ovvero attacco alla Persia come vendetta della distruzione, durante le guerre persiane, (dei templi) della città che più di tutte rappresentava la grecità nella lotta col barbaro.

 

È chiaro che le idee inculcategli dalla madre riguardo la sua origine divina e la sua aurea eroica sono ormai entrate profondamente in Alessandro, che come nuovo signore indiscusso dei Greci deve ora, incarnando Achille, sconfiggere definitivamente la minaccia persiana; poco gli importa ormai della possibilità che la sua vita possa essere breve, gli basta , da buon “novello Achille”, che sia intensa o meglio che sia ricordata dai posteri. Ecco che la stessa invasione dell’Oriente assume caratteri oscuri, per l’idea di vendetta che essa stessa contiene, la quale pare già ora giustificare le possibili azioni ignobili ed esecrabili che Alessandro potrebbe essere costretto a fare in nome di una giusta crociata contro il potente nemico.

 

Così nel 334 a.C. Alessandro sbarca in Asia dando il via alla campagna che lo stesso Filippo stava organizzando. Il figlio di Olimpiade coglie subito una grande vittoria sul Granico, che gli da conforto sulla sua invincibilità, tant’è che decide di provarla: aspetta ad attaccare i porti orientali fino a che essi non vengono rafforzati.

 

Alessandro si sta progressivamente trasformando in ciò che la madre ha sempre voluto, un nuovo eroe omerico, l’ultimo eroe omerico, che chiude il cerchio aperto dal primo, ovvero il suo alter ego Achille. Dopo le conquiste di Sardi, Efeso, Mileto e Alicarnasso, il Macedone si reca a Gordio, città della Frigia apparentemente secondaria nell’itinerario alessandrino.

 

Invece Gordio è centrale nella vicenda orientale di Alessandro, nonché nella sua scalata all’immortalità e nella sua trasformazione in figura sinistra. Conquistata la città, il Macedone entra nel tempio di Zeus ove è presente il carro che secondo la tradizione ha trasportato Gordio, padre del re Mida, sul cui giogo vi è un intricatissimo nodo che secondo l’oracolo locale avrebbe conferito al suo “sbrogliatore” il dominio dell’Asia. Alessandro non può non provare, convinto com’è che sia lui l’uomo della profezia, ma non riesce inizialmente a risolvere l’intricato groviglio.

 

Il figlio di Filippo (o Zeus?) allora lo recide, ottenendo ciò che cercava, ovvero una nuova prova della sua natura divina. Il futuro sarà per lui glorioso, o almeno è quello che egli stesso vuole credere; e ciò sembra essere confermato dal fatto che di lì a pochi mesi riesce a sconfiggere nuovamente Dario III a Isso (333 a.C.).

 

Alessandro è fermamente convinto che non vi siano più ostacoli tra lui e la gloria, ma ha un costante bisogno di provare ciò a se stesso, per cui, nel febbraio-agosto del 332 a.C. decide di assediare l’inespugnabile Tiro. L’assedio è lungo e duro, ma Alessandro non ammette il fallimento, quindi continua nell’impresa. La pazienza (e la superiorità di risorse e uomini) gli da ragione: Tiro è espugnata, ma deve pagare per la fatica che è costata all’esercito macedone; il risultato della vendetta sono 8.000 uomini massacrati, 2.000 crocefissi e moltissime donne violentate.

 

La “follia” alessandrina non si placa, anzi arriva al suo esempio più emblematico proprio l’anno successivo. Dopo il fortunato assedio di Gaza, l’invasione dell’Egitto e la dimostrazione pratica della voglia di Alessandro di entrare nella storia con la fondazione della prima città che porta il suo nome, la celebre Alessandria d’Egitto, il nuovo Achille esce di nuovo, almeno apparentemente, dal tragitto principale, per recarsi nell’oasi di Siwah (331 a.C.). Perché?

 

Nell’oasi vi è l’oracolo di Ammone, al quale Alessandro avanza una domande che, da una parte, lo libererà da tutti i dubbi sulla più importante vicenda della sua problematica infanzia, e, dall’altra, lo ergerà definitivamente a figlio di dio e padrone del mondo. La domanda essenzialmente fu: l’assassino di Filippo è stato punito?

 

La risposta affermativa dell’oracolo cancellava qualsiasi dubbio rimasto sulla colpevolezza del figlio nella morte del padre. Ma è ciò che il sacerdote disse a confermare una volta per tutte la sua natura sovrumana; Alessandro sentì il sacerdote rivolgersi a lui affermando paidios, “o figlio di dio”, non paidion, “o figlio”, cosa che diede la conferma finale, qualora ve ne fosse stato bisogno, del fatto che nelle sue vene non scorreva sangue, ma icore.

 

Il viaggio nella lontana oasi lo aveva in definitiva eretto a sovrano del mondo allora conosciuto, se anche gli egiziani lo ritenevano nuovo faraone; non solo nuovo Achille, ora anche nuovo Zeus e nuovo Amon. Ciò gli permise di prendere con slancio positivo la resa dei conti con Dario, il re che stava per abdicare in forza della volontà divina. Ed effettivamente a Gaugamela, nel 331 a.C., la vittoria sorrise ad Alessandro, che, come aveva profetizzato a inizio spedizione, rese valido l’assunto “l’Asia non conterrà due re”.

 

La tanto bramata e tanto inseguita vittoria finale gli da però alla testa: nei festeggiamenti successivi decide malauguratamente di dare fuoco alla sfarzosa e dorata reggia di Persepoli, una delle cinque capitali dell’impero achemenide che aveva ora un nuovo padrone.

 

Con la morte di Dario, avvenuta per mano del satrapo della Battriana Besso, nel 330 a.C., Alessandro può finalmente sprigionare tutta la sua rabbia di potenza, dando il là ad un esasperato culto della propria personalità, culminato con la creazione di statue, monete, città (circa cinquantasette) recanti il suo nome o quella del suo fidato compagno di avventure Bucefalo (Bucefalia), ma soprattutto nella pretesa di vedersi riconosciuta la “pratica” della proskynesis, contrassegnata dal bacio della mano e, forse, dall’inchino. Tutto ciò unito alla mai sazia sete di conquista, che lo porterà a conquistare, una dopo l’altra, tutte le città fino ai confini dell’ecumene, fino ad Alessandria Escate, Alessandria “la lontanissima”.

 

Alessandro ha modo di far vedere la forza della sua personalità non solo ai nemici, ma anche agli stessi amici, quando si inizia a parlare di una possibile congiura. Filota e Parmenione (solo un caso che fossero padre e figlio?), anche se molto probabilmente innocenti, pagano con la vita, pur essendo amici di lunga data, pur essendo amici fidati del padre, la paura che l’uomo più potente del mondo inizia ad avere ora che ha conquistato tutto quello che poteva conquistare, ora che gli manca poco per essere considerato pari a quell’Achille che sin da piccolo ha imitato.

 

Non sfugge alla sua follia nemmeno Clito, altro vecchio amico, resosi colpevole di aver sostenuto che le imprese che hanno reso Alessandro quello che è sono merito del padre Filippo, del padre che il figlio stesso ha ripudiato per considerarsi, come Achille, figlio di un dio, figlio di Zeus.

 

Alessandro ha completato la sua trasformazione in Iskander; è diventato come gli stessi re che era giunto per sconfiggere. I soldati che l’hanno onorevolmente servito per dieci anni, dieci anni di interminabili guerre e conquiste, ora non lo riconoscono più, e si discostano dal suo nuovo progetto di conquista dando luogo ad un ammutinamento (326 a.C.) che convince Alessandro a tornare indietro, a tornare a casa.

 

Sembra che per non offenderlo, gli uomini lo abbiano convinto affermando che è un oracolo ad avere detto loro di fermarsi; il Macedone accetta, dando conferma della sua completa introiezione del divino. Eppure, anche nella personale sconfitta, ha ancora modo di mostrare il suo lato oscuro: decide infatti di tornare indietro attraversando, nel 325 a.C., il deserto della Gedrosia. Perché?

 

Probabilmente Alessandro ha castigato i suoi soldati per il rifiuto di continuare nell’impresa di conquista; castigo che miete 25.000 morti, i tre/quarti dell’intero esercito.

 

Nel 324 a.C. torna finalmente a Babilonia, ove muore l’amico e amante Efestione. Il drammatico evento da modo ad Alessandro di mostrare per l’ultima volta la sua terribile doppiezza: uccide il medico incaricato di guarire l’amico, sacrifica dei fanciulli, tratta Efestione come un dio, spendendo diecimila talenti per le onoranze funebri; il novello Achille ha così onorato il novello Patroclo.

 

Il 29 maggio 323 a.C. anche Alessandro si ammala gravemente, e muore il 10 giugno a Babilonia, come l’amato amico.

 

Considerato da molti il più grande conquistatore che la storia abbia mai conosciuto, Alessandro Magno visse gli anni del suo potere in un’ambigua doppiezza: da una parte Alessandro il Conquistatore, vincitore dell’impero persiano, dominatore del mondo allora conosciuto; dall’altra Iskander, un killer psicopatico (anche se gran parte della violenza fu consapevole), un uomo profondamente colpito dal disturbo narcisistico della propria personalità (e in questo richiama il suo ammiratore Napoleone), che lo portò a voler conquistare tutto e tutti, anche il mondo intero.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

A. Montesanti, Alessandro Magno: la storia, il viaggio dell’ultimo eroe, Roma 2011.

C.H. Oldfather, Diodorus of Sicily. The Library of History, Pennsylvania State University 2002.

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