.

home

 

progetto

 

redazione

 

contatti

 

quaderni

 

gbeditoria


.

[ISSN 1974-028X]


RUBRICHE


attualità

.

ambiente

.

arte

.

filosofia & religione

.

storia & sport

.

turismo storico



 

PERIODI


contemporanea

.

moderna

.

medievale

.

antica



 

EXTEMPORANEA


cinema

.

documenti

.

multimedia



 

ARCHIVIO


 

 

 

 

 

 

 

.

Antica


N. 50 - Febbraio 2012 (LXXXI)

alcibiade e l'eterno desiderio di gloria
per una storia dell'ultimo grande ateniese del v secolo

di Paola Scollo

 

Alcibiade è protagonista della scena politica ateniese alla fine del V secolo. Geniale e abile stratega, nel corso della guerra del Peloponneso non ha esitato, per convenienza, a tradire più volte la sua patria, alleandosi dapprima con gli Spartani, poi con i Persiani. Ambizioso e amante dei piaceri, ha esercitato sempre grande fascino nella sua gente. E non solo.


Figlio di Clinia e di Dinomache, Alcibiade per parte di padre discende da Euriace, figlio di Aiace, mentre, per linea materna, è un Alcmeonide. Alla morte del padre, vengono nominati come tutori due suoi parenti, Pericle e Arifrone, figli di Santippo. Alcibiade non può vantare ricchezze, ma può far leva su altri notevoli requisiti. In primo luogo, la bellezza fisica che, come scrive Plutarco, lo accompagna «fiorente in ogni età della vita» e che costituisce il principale motivo per cui uomini di nobile stirpe gli si raccolgono intorno e lo corteggiano (Alc. IV). Perfino Socrate nutre per Alcibiade una forma di amore (eros). Il filosofo, scorgendovi una eccezionale disposizione naturale alla virtù (areté), si impegna a proteggere Alcibiade allo stesso modo di come si cura una pianta in fiore «perché non avvizzisca e perda il frutto».

 

Stando a Plutarco (Alc. III), nei confronti degli adulatori Alcibiade si mostra scontroso e arrogante; soltanto con Socrate banchetta, si esercita nella lotta e condivide la tenda sul campo di battaglia. Soltanto per Socrate nutre rispetto e timore; degli altri non ha stima. E quando, talvolta, cede ai piaceri, proprio a Socrate spetta il compito di inseguirlo come si trattasse di «uno schiavo fuggiasco». Nell’immagine di Alcibiade, la presenza di Socrate rappresenta «un reale aiuto degli dèi» a tutela della virtù, pertanto «come un gallo sconfitto abbassò le ali e si rannicchiò intimorito verso Socrate, amico e amante che non andava in cerca di piaceri indegni di un uomo e non chiedeva baci e carezze, ma che gli apriva gli occhi sulla corruzione della sua anima e umiliava il suo orgoglio vano e sciocco» (Phrin. fr. 17 Nauck).


Ancora giovanissimo, Alcibiade è introdotto alla vita politica. Fin da subito, comprende che nulla gli avrebbe procurato influenza sulla massa più del fascino della parola. A tal proposito, Demostene, nell’orazione Contro Midia (XXI 145), ritiene che Alcibiade sia dotato di un’eccezionale eloquenza; secondo Teofrasto (fr. 134 Wimmer), supera chiunque altro nel trovare, nell’ideare ciò che sia più conveniente nelle varie circostanze, sforzandosi non solo di cercare ciò che occorre dire, ma anche il modo in cui bisogna dirlo, i termini e le espressioni.

 

Anche un apparente motivo di debolezza, come il difetto di pronuncia, ossia la elle in luogo della erre, diviene per lui un ulteriore punto di forza e di fascino. Con questi requisiti, Alcibiade mette in ombra gli altri capi del partito popolare, venendo in contrasto con Feace, figlio di Erasistrato, e Nicia, figlio di Nicerato. Tuttavia, come puntualizza Plutarco, oltre alle notevoli doti di politico e oratore, alla sottile intelligenza e alla singolare abilità, nell’animo di Alcibiade si annida la dissolutezza dei costumi, che lo guida «verso eccessi nel bere e negli amori, verso un modo di vestire effeminato, verso un’ostentazione di lusso sfrenato».

 

Coloro che desiderano corromperlo fanno leva soprattutto su questi aspetti, «sospingendolo prima del tempo verso imprese troppo grandi, con la previsione che sarebbe ben presto divenuto più famoso di strateghi e demagoghi e, perfino, di Pericle». Non sorprende quindi il fatto che Plutarco paragoni Alcibiade al ferro «che, reso molle dal fuoco, di nuovo si indurisce sotto l’azione del freddo, ovvero di Socrate che, ogni volta che lo trova pieno di lussuria e di vanità, provvede subito a renderlo umile e docile».


Di capitale importanza nella carriera politica, e non solo, di Alcibiade è la spedizione in Sicilia, che apre la seconda fase della guerra del Peloponneso. Stando a Plutarco (Alc. XVII), gli Ateniesi nutrono interessi per la Sicilia sin dall’epoca di Pericle, tuttavia soltanto dopo la sua morte iniziano «a occuparsi della questione, gettando le basi per una spedizione vera e propria». E sarebbe stato proprio Alcibiade a riaccendere quel desiderio (eros): «egli indusse il popolo a concepire grandi speranze, ma ancor più grandi erano le sue aspirazioni: la Sicilia, infatti, doveva costituire solamente il principio della realizzazione delle sue mire e non un fine in sé, come pensavano tutti gli altri».

 

Se i più anziani avanzano dubbi sulla favorevole riuscita dell’impresa, i giovani ateniesi, entusiasti, si lasciano affascinare dalla prospettiva di visitare terre lontane. Nicia, nonostante si opponga alla spedizione, viene eletto stratego: in tal modo, agli Ateniesi «sembrava che la guerra avrebbe avuto uno svolgimento più favorevole se non avessero lasciato Alcibiade solo e incontrollato, ma la sua temerarietà fosse stata temperata dalla prudenza di Nicia, tanto più che anche il terzo generale, Lamaco, per quanto avanti negli anni, aveva fama di essere non meno focoso di Alcibiade e non meno di lui amante dei rischi nei combattimenti» (Alc. XVIII).

 

Quando è ormai tutto disposto per la partenza, alcuni presagi sembrano gettare ombre sulla positiva riuscita dell’impresa. In occasione delle Adonie, avviene la mutilazione delle Erme, fatto che, secondo Plutarco, «turbò anche molti di coloro che, di solito, non facevano caso a siffatti segni». In base a una testimonianza di Cratippo, Plutarco (Mor. 834 b) considera responsabili i Corinzi, in un estremo tentativo di difesa dei loro coloni siracusani. Secondo altre fonti, colpevoli dello scandalo sarebbero, piuttosto, dei giovani «spinti, in preda al troppo vino bevuto, a compiere quell’atto violento per una bravata scherzosa». In ogni caso, il fatto genera indignazione e paura, per cui «sia la Boulè che il popolo si radunarono più volte in pochi giorni per condurre una serie di indagini al riguardo, esaminando la faccenda in ogni particolare» (Alc. XVIII).

 

Il demagogo Androcle conduce dal magistrato alcuni schiavi e meteci, che accusano Alcibiade e i suoi amici «di aver sfregiato anche altre statue e di aver parodiato, nell’ebbrezza del vino, i sacri misteri, ovvero i Misteri Eleusini». Di fronte a una situazione così incandescente, Alcibiade annuncia di voler essere processato immediatamente in modo da potersi scagionare. Tucidide rappresenta così la situazione (VI 29. 3): «Ma i suoi nemici, temendo che egli avrebbe avuto l’esercito benevolo verso di lui se avesse affrontato il processo allora, e che il popolo fosse mite nei suoi confronti e lo proteggesse perché grazie a lui gli Argivi e alcuni Mantineesi prendevano parte alla spedizione, si adoperavano per respingere le proposte di Alcibiade e impedirne l’attuazione: incitarono altri oratori a parlare. Questi dissero che egli doveva salpare ora e non ritardare la partenza, ma che sarebbe dovuto tornare per sottoporsi al giudizio entro un numero prescritto di giorni. Volevano che subisse il processo al suo ritorno, dopo averlo richiamato, quando la loro accusa sarebbe stata più grave e l’avrebbero preparata più facilmente mentre egli era lontano».

 

Dunque, Alcibiade salpa per la Sicilia «con i suoi colleghi, con poco meno di centoquaranta triremi, cinquemila e cento opliti, circa milletrecento tra arcieri, frombolieri e fanti leggeri e un equipaggiamento considerevole» (Alc. XX). Dopo aver ottenuto l’appoggio di Catania, deve, tuttavia, abbandonare l’impresa perché è costretto a ritornare in patria per sottoporsi al processo. Nel frattempo, l’accusa è divenuta più grave: l’oltraggio delle erme e la parodia dei Misteri si ineriscono in un più vasto pericoloso progetto di sovversione politica. L’atto di accusa recita: «Tessalo, figlio di Cimone, del demo di Laciade, denunciò Alcibiade, figlio di Clinia, del demo di Scambonide, di aver offeso le due dee parodiando i Misteri Eleusini e rivelandoli nella sua propria casa agli amici: indossando il manto che porta lo ierofante quando svela il sacro culto agli iniziati, egli proclamò se stesso ierofante, Pulizione portafiaccola, Teodoro del demo di Fegea araldo, e agli altri compagni si è rivolto come a iniziati e epopti- tutto ciò contro le leggi e gli statuti fissati dagli Eumolpidi, dai Cherici e dai sacerdoti di Eleusi» (Alc. XXII).

 

In ogni caso, come specifica Plutarco, nessun accusatore è in grado di produrre prove certe di colpevolezza, per cui «il fatto creò dubbi e confusione nella gente assennata, ma non mitigò in alcun modo l’effetto esercitato sul popolo dalle calunnie, ché anzi, come aveva preso a fare sin dal principio, non cessò di far arrestare e mettere in prigione qualunque persona contro la quale venisse sporta denuncia» (Alc. XX). Per sottrarsi al processo, Alcibiade si rifugia dapprima a Turi, poi in Elide e, infine, a Sparta.

 

Viene condannato a morte in contumacia, i suoi beni vengono confiscati e devoluti all’erario e viene decretato che tutti i sacerdoti e le sacerdotesse di Atene lo maledicano. A Sparta Alcibiade esorta i nuovi alleati a dirigere le forze contro gli Ateniesi in Sicilia, a muovere guerra contro Atene direttamente sul suolo ateniese e a fortificare Decelea. In breve tempo, riesce a conquistare la fiducia degli Spartani adottandone il modus vivendi all’insegna della sobrietà e dell’austerità.

 

A tal proposito, Plutarco sostiene che Alcibiade possiede, tra le numerose capacità, «un’arte tutta particolare nell’accalappiare le persone, conformandosi e adeguandosi alle abitudini e ai costumi altrui, imponendosi cambiamenti più rapidi e radicali di quelli di un camaleonte» (Alc. XXIII). Ad esempio, «a Sparta si dava agli esercizi sportivi, viveva con sobrietà, aveva l’espressione austera; nella Ionia faceva il raffinato, si abbandonava a tutte le forme di lussuria e di effeminatezza; in Tracia si ubriacava spesso e montava a cavallo; quando poi frequentò il satrapo Tissaferne, superò in fasto e splendore la magnificenza persiana» (Alc. XXIII).

 

In sintesi, Alcibiade come qualsiasi altro uomo politico, è capace di simulare e dissimulare: con questa condotta, da difensore della patria diviene, successivamente, un traditore. Vale comunque la pena ricordare che anche a Sparta il clima è ostile: il re Agide e molti altri Spartani, invidiosi, «ottennero che si mandasse nella Ionia l’ordine di sopprimerlo». Informato segretamente, Alcibiade si affida a Tissaferne, satrapo del re di Persia, che, essendo per natura malvagio e amante di chi è come lui, apprezza molto «la versatilità e l’abilità eccezionale dell’Ateniese».

 

Alcibiade cerca in tutti modi di danneggiare gli Spartani e di metterli in cattiva luce presso Tissaferne (Tucidide VIII 45 - 51). Dopo aver tradito Atene alleandosi con Sparta e, quindi, aver tradito Sparta, alleandosi con la Persia, nell’inverno del 412/1 a.C., Alcibiade tenta di allearsi con la flotta ateniese schierata a Samo: invia agli Ateniesi un messaggio attraverso cui infonde la speranza di conquistare l’amicizia di Tissaferne. Stando a Plutarco, prevalgono gli amici di Alcibiade, che inviano «ad Atene Pisandro per smuovere la situazione politica, incoraggiare i notabili a impadronirsi del potere e ad abbattere il governo democratico, perché solo a queste condizioni Alcibiade avrebbe procurato loro l’amicizia e l’alleanza di Tissaferne» (Alc. XXVI).

 

Nella primavera del 411 a.C., ad Atene viene abolita la costituzione democratica e si insedia un consiglio di Quattrocento membri, destinato ad avere breve durata: nell’estate dello stesso anno, in seguito alla defezione dell’Eubea e alla perdita dei Dardanelli e di Bisanzio, il governo oligarchico viene destituito. Il potere viene assunto dai Cinquemila cittadini «in grado di equipaggiarsi con i propri mezzi». Di fronte all’imprevedibile evolversi degli eventi, agli Ateniesi non resta che invocare il ritorno di Alcibiade. Questi, come se non avesse mai agito contro la patria, decide di tornare, «ma non a mani vuote e senza aver fatto nulla, solo grazie alla pietà e al favore del popolo, bensì coperto di gloria» (Alc. XXVII).

 

L’occasione giunge presto. Nel maggio del 410 a.C., a Cizico Alcibiade fornisce, ancora una volta, una prova delle straordinarie abilità tattiche e strategiche: Atene non solo si impadronisce dell’Ellesponto, ma riesce a respingere con forza gli Spartani dal resto del mare. Poco tempo dopo, il governo dei Cinquemila crolla e, nel corso dell’estate, riprende il potere il vecchio Consiglio dei Cinquecento. Nella primavera del 408 a.C., Alcibiade parte da Samo alla volta di Atene, «desideroso ormai di rivedere la patria e ancor più di farsi vedere dai concittadini, ora che tante volte aveva vinto il nemico». Stando a Plutarco, «gli Ateniesi gli fecero omaggio di corone d’oro e lo elessero stratego autocrate, con pieni poteri sia per terra che per mare; decretarono poi che gli venissero restituiti i beni confiscati e che gli Eumolpidi e i Cherici ritirassero le maledizioni che gli avevano scagliato addosso per ordine del popolo» (Alc. XXXIII).

 

 Eppure, un fatto turba il ritorno di Alcibiade: il giorno del suo arrivo, il 25 del mese Targelione, coincide con la data in cui si celebrano le cosiddette Plinterie. Spiega Plutarco che gli Ateniesi considerano quel giorno fra i più nefasti per qualsiasi attività: le Prassieridi compiono riti segreti, spogliano la statua di Atena dei suoi ornamenti e la coprono di un velo. Per queste ragioni, «si giudicò che la dea non accogliesse favorevolmente né benevolmente Alcibiade, ma anzi si velasse e volesse tenerlo lontano da sé (Alc. XXXIV). Di qui le conclusioni di Plutarco: «i cittadini più potenti, spaventati, si adoperarono perché egli riprendesse il mare al più presto e, in aggiunta agli altri provvedimenti che fecero decretare, gli concessero di scegliersi i colleghi che voleva» (Alc. XXXV).

 

Alcibiade non riesce, però, a riportare ulteriori vittorie: a decidere le sorti del conflitto è ormai Lisandro, abile stratego a capo della flotta spartana. La situazione precipita quando Trasibulo, figlio di Trasone, si reca ad Atene dichiarando Alcibiade responsabile della disfatta e della perdita delle navi» (Alc. XXXVI). Gli Ateniesi si lasciano persuadere, per cui eleggono altri generali. Alcibiade abbandona l’accampamento, anche se continua a combattere contro i Traci. Come sottolinea Plutarco, i fatti successivi avrebbero comunque dato ragione ad Alcibiade: «all’improvviso, e quando meno se lo aspettavano, Lisandro piombò su di loro; solo otto triremi riuscirono a fuggire con Conone, mentre tutte le altre, poco meno di trecento, furono catturate. Quanto agli uomini, Lisandro ne prese vivi tremila e li fece uccidere; poco tempo dopo si impadronì anche di Atene, ordinò che venissero incendiate le navi ateniesi ed abbattute le lunghe mura» (Alc. XXXVII).

 

Dopo la disfatta di Atene, Alcibiade teme i Lacedemoni, che dominano «per terra e per mare», per cui si trasferisce in Bitinia, portando con sé numerose ricchezze. Decide poi di recarsi verso l’interno, presso Artaserse. Nel frattempo, gli Ateniesi, rendendosi conto di aver perduto tutto, «piangevano ripensando agli errori e alle follie commesse, la peggiore delle quali era l’essersi adirati una seconda volta con Alcibiade. Infatti, lo avevano privato del comando, non già perché lui personalmente avesse fatto alcunché di male, ma perché il fatto che un suo subordinato avesse perduto vergognosamente poche navi aveva provocato la loro collera; e così, ancor più vergognosamente, si erano privati del migliore e del più valente generale della città» (Alc. XXXVIII).

 

Tuttavia, «proprio dalla situazione presente nasceva in loro una vaga speranza che la causa di Atene non fosse del tutto perduta finché Alcibiade era vivo. Infatti, in passato -dicevano- Alcibiade non si era accontentato di viversene tranquillamente da esule, senza far nulla, e così neppure questa volta, se ne avrà appena i mezzi sufficienti, tollererà l’insolenza degli Spartani contro Atene e la folle crudeltà dei Trenta» (Alc. XXXVIII).

 

In effetti, i progetti di Alcibiade destano preoccupazione nei Trenta. Crizia lascia intendere a Lisandro che i Lacedemoni non avrebbero mai potuto esercitare con sicurezza la loro egemonia sull’Ellade finché gli Ateniesi avessero avuto un governo democratico ma, soprattutto, finché Alcibiade fosse vivo. Dapprima, Lisandro non presta attenzione a questi ammonimenti ma, dopo aver ricevuto dai magistrati di Sparta, a mezzo di una scitale, l’ordine di eliminare Alcibiade, invia un messaggio a Farnabazo con l’ordine di mettere in atto la soppressione.

 

Il satrapo affida il compito al fratello Bageo e allo zio Susamitre. All’epoca, Alcibiade si trova in un villaggio della Frigia, in compagnia della cortigiana Timandra. Stando a Plutarco, poco tempo prima di morire, fa un sogno: «Gli sembrava di avere addosso le vesti dell’etera e che questa, tenendogli il capo fra le braccia, gli dipingesse e imbellettasse il viso come a una donna. Altri, invece, dicono che Alcibiade vide in sogno gli uomini di Bageo mozzargli il capo e bruciare il suo corpo» (Alc. XXXIX). In base alla testimonianza di Plutarco, i sicari non osano entrare, ma si limitano a circondare la casa e ad appiccare il fuoco. Alcibiade si affretta a gettare vesti e tappeti sulle fiamme, poi si avvolge intorno alla mano sinistra la clamide e con la destra sguaina il pugnale, lanciandosi fuori dalla casa illeso.

 

La sua vista disperde i barbari, nessuno dei quali osa aspettarlo e affrontarlo: da lontano gli scagliano giavellotti e dardi finché cade (Alc. XXXIX). Plutarco riporta anche un’altra versione: «Alcuni, pur concordando in tutti gli altri particolari della morte di Alcibiade così come io l’ho narrata più sopra, affermano che non ne furono responsabili né Farnabazo né gli Spartani, ma lui stesso che, -riferiscono- dopo aver sedotto una fanciulla di buona famiglia, la teneva presso di sé; i fratelli della ragazza non tollerarono l’offesa e di notte incendiarono la casa dove Alcibiade viveva e, mentre egli balzava fuori per salvarsi dalle fiamme, lo uccisero nel modo sopra descritto» (Alc. XXXIX).

 

Sul filo di questa direttrice, una donna sarebbe la causa della rovina del comandante ateniese. Un fatto davvero sorprendente, anche se non del tutto isolato nella storia. Al di là delle circostanze legate alla sua morte, Alcibiade rimane l’ultimo grande Ateniese del V secolo. Ambizioso uomo politico, freddo e valoroso stratego, personaggio complesso e, come tutti coloro che sono destinati a imprimere il sigillo della loro personalità, contraddittorio. Forse, è proprio questa contraddittorietà che continua, a distanza di secoli, ad affascinare e ad eternare il ricordo di Alcibiade. Forse, è la stessa contraddittorietà che gli Ateniesi hanno amato e per cui non sono riusciti a odiare Alcibiade nemmeno quando ne hanno ricevuto del male (Alc. XLII 3).



 

 

COLLABORA


scrivi per InStoria



 

EDITORIA


GBe edita e pubblica:

.

- Archeologia e Storia

.

- Architettura

.

- Edizioni d’Arte

.

- Libri fotografici

.

- Poesia

.

- Ristampe Anastatiche

.

- Saggi inediti

.

catalogo

.

pubblica con noi



 

links


 

pubblicità


 

InStoria.it

 


by FreeFind

 

 

 

 

 

 

 

 


[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE]


 

.