N. 50 - Febbraio 2012
(LXXXI)
alcibiade e l'eterno desiderio di gloria
per una storia dell'ultimo grande ateniese del v secolo
di Paola Scollo
Alcibiade
è
protagonista
della
scena
politica
ateniese
alla
fine
del
V
secolo.
Geniale
e
abile
stratega,
nel
corso
della
guerra
del
Peloponneso
non
ha
esitato,
per
convenienza,
a
tradire
più
volte
la
sua
patria,
alleandosi
dapprima
con
gli
Spartani,
poi
con
i
Persiani.
Ambizioso
e
amante
dei
piaceri,
ha
esercitato
sempre
grande
fascino
nella
sua
gente.
E
non
solo.
Figlio
di
Clinia
e di
Dinomache,
Alcibiade
per
parte
di
padre
discende
da
Euriace,
figlio
di
Aiace,
mentre,
per
linea
materna,
è un
Alcmeonide.
Alla
morte
del
padre,
vengono
nominati
come
tutori
due
suoi
parenti,
Pericle
e
Arifrone,
figli
di
Santippo.
Alcibiade
non
può
vantare
ricchezze,
ma
può
far
leva
su
altri
notevoli
requisiti.
In
primo
luogo,
la
bellezza
fisica
che,
come
scrive
Plutarco,
lo
accompagna
«fiorente
in
ogni
età
della
vita»
e
che
costituisce
il
principale
motivo
per
cui
uomini
di
nobile
stirpe
gli
si
raccolgono
intorno
e lo
corteggiano
(Alc.
IV).
Perfino
Socrate
nutre
per
Alcibiade
una
forma
di
amore
(eros).
Il
filosofo,
scorgendovi
una
eccezionale
disposizione
naturale
alla
virtù
(areté),
si
impegna
a
proteggere
Alcibiade
allo
stesso
modo
di
come
si
cura
una
pianta
in
fiore
«perché
non
avvizzisca
e
perda
il
frutto».
Stando
a
Plutarco
(Alc.
III),
nei
confronti
degli
adulatori
Alcibiade
si
mostra
scontroso
e
arrogante;
soltanto
con
Socrate
banchetta,
si
esercita
nella
lotta
e
condivide
la
tenda
sul
campo
di
battaglia.
Soltanto
per
Socrate
nutre
rispetto
e
timore;
degli
altri
non
ha
stima.
E
quando,
talvolta,
cede
ai
piaceri,
proprio
a
Socrate
spetta
il
compito
di
inseguirlo
come
si
trattasse
di
«uno
schiavo
fuggiasco».
Nell’immagine
di
Alcibiade,
la
presenza
di
Socrate
rappresenta
«un
reale
aiuto
degli
dèi»
a
tutela
della
virtù,
pertanto
«come
un
gallo
sconfitto
abbassò
le
ali
e si
rannicchiò
intimorito
verso
Socrate,
amico
e
amante
che
non
andava
in
cerca
di
piaceri
indegni
di
un
uomo
e
non
chiedeva
baci
e
carezze,
ma
che
gli
apriva
gli
occhi
sulla
corruzione
della
sua
anima
e
umiliava
il
suo
orgoglio
vano
e
sciocco»
(Phrin.
fr.
17
Nauck).
Ancora
giovanissimo,
Alcibiade
è
introdotto
alla
vita
politica.
Fin
da
subito,
comprende
che
nulla
gli
avrebbe
procurato
influenza
sulla
massa
più
del
fascino
della
parola.
A
tal
proposito,
Demostene,
nell’orazione
Contro
Midia
(XXI
145),
ritiene
che
Alcibiade
sia
dotato
di
un’eccezionale
eloquenza;
secondo
Teofrasto
(fr.
134
Wimmer),
supera
chiunque
altro
nel
trovare,
nell’ideare
ciò
che
sia
più
conveniente
nelle
varie
circostanze,
sforzandosi
non
solo
di
cercare
ciò
che
occorre
dire,
ma
anche
il
modo
in
cui
bisogna
dirlo,
i
termini
e le
espressioni.
Anche
un
apparente
motivo
di
debolezza,
come
il
difetto
di
pronuncia,
ossia
la
elle
in
luogo
della
erre,
diviene
per
lui
un
ulteriore
punto
di
forza
e di
fascino.
Con
questi
requisiti,
Alcibiade
mette
in
ombra
gli
altri
capi
del
partito
popolare,
venendo
in
contrasto
con
Feace,
figlio
di
Erasistrato,
e
Nicia,
figlio
di
Nicerato.
Tuttavia,
come
puntualizza
Plutarco,
oltre
alle
notevoli
doti
di
politico
e
oratore,
alla
sottile
intelligenza
e
alla
singolare
abilità,
nell’animo
di
Alcibiade
si
annida
la
dissolutezza
dei
costumi,
che
lo
guida
«verso
eccessi
nel
bere
e
negli
amori,
verso
un
modo
di
vestire
effeminato,
verso
un’ostentazione
di
lusso
sfrenato».
Coloro
che
desiderano
corromperlo
fanno
leva
soprattutto
su
questi
aspetti,
«sospingendolo
prima
del
tempo
verso
imprese
troppo
grandi,
con
la
previsione
che
sarebbe
ben
presto
divenuto
più
famoso
di
strateghi
e
demagoghi
e,
perfino,
di
Pericle».
Non
sorprende
quindi
il
fatto
che
Plutarco
paragoni
Alcibiade
al
ferro
«che,
reso
molle
dal
fuoco,
di
nuovo
si
indurisce
sotto
l’azione
del
freddo,
ovvero
di
Socrate
che,
ogni
volta
che
lo
trova
pieno
di
lussuria
e di
vanità,
provvede
subito
a
renderlo
umile
e
docile».
Di
capitale
importanza
nella
carriera
politica,
e
non
solo,
di
Alcibiade
è la
spedizione
in
Sicilia,
che
apre
la
seconda
fase
della
guerra
del
Peloponneso.
Stando
a
Plutarco
(Alc.
XVII),
gli
Ateniesi
nutrono
interessi
per
la
Sicilia
sin
dall’epoca
di
Pericle,
tuttavia
soltanto
dopo
la
sua
morte
iniziano
«a
occuparsi
della
questione,
gettando
le
basi
per
una
spedizione
vera
e
propria».
E
sarebbe
stato
proprio
Alcibiade
a
riaccendere
quel
desiderio
(eros):
«egli
indusse
il
popolo
a
concepire
grandi
speranze,
ma
ancor
più
grandi
erano
le
sue
aspirazioni:
la
Sicilia,
infatti,
doveva
costituire
solamente
il
principio
della
realizzazione
delle
sue
mire
e
non
un
fine
in
sé,
come
pensavano
tutti
gli
altri».
Se i
più
anziani
avanzano
dubbi
sulla
favorevole
riuscita
dell’impresa,
i
giovani
ateniesi,
entusiasti,
si
lasciano
affascinare
dalla
prospettiva
di
visitare
terre
lontane.
Nicia,
nonostante
si
opponga
alla
spedizione,
viene
eletto
stratego:
in
tal
modo,
agli
Ateniesi
«sembrava
che
la
guerra
avrebbe
avuto
uno
svolgimento
più
favorevole
se
non
avessero
lasciato
Alcibiade
solo
e
incontrollato,
ma
la
sua
temerarietà
fosse
stata
temperata
dalla
prudenza
di
Nicia,
tanto
più
che
anche
il
terzo
generale,
Lamaco,
per
quanto
avanti
negli
anni,
aveva
fama
di
essere
non
meno
focoso
di
Alcibiade
e
non
meno
di
lui
amante
dei
rischi
nei
combattimenti»
(Alc.
XVIII).
Quando
è
ormai
tutto
disposto
per
la
partenza,
alcuni
presagi
sembrano
gettare
ombre
sulla
positiva
riuscita
dell’impresa.
In
occasione
delle
Adonie,
avviene
la
mutilazione
delle
Erme,
fatto
che,
secondo
Plutarco,
«turbò
anche
molti
di
coloro
che,
di
solito,
non
facevano
caso
a
siffatti
segni».
In
base
a
una
testimonianza
di
Cratippo,
Plutarco
(Mor.
834
b)
considera
responsabili
i
Corinzi,
in
un
estremo
tentativo
di
difesa
dei
loro
coloni
siracusani.
Secondo
altre
fonti,
colpevoli
dello
scandalo
sarebbero,
piuttosto,
dei
giovani
«spinti,
in
preda
al
troppo
vino
bevuto,
a
compiere
quell’atto
violento
per
una
bravata
scherzosa».
In
ogni
caso,
il
fatto
genera
indignazione
e
paura,
per
cui
«sia
la
Boulè
che
il
popolo
si
radunarono
più
volte
in
pochi
giorni
per
condurre
una
serie
di
indagini
al
riguardo,
esaminando
la
faccenda
in
ogni
particolare»
(Alc.
XVIII).
Il
demagogo
Androcle
conduce
dal
magistrato
alcuni
schiavi
e
meteci,
che
accusano
Alcibiade
e i
suoi
amici
«di
aver
sfregiato
anche
altre
statue
e di
aver
parodiato,
nell’ebbrezza
del
vino,
i
sacri
misteri,
ovvero
i
Misteri
Eleusini».
Di
fronte
a
una
situazione
così
incandescente,
Alcibiade
annuncia
di
voler
essere
processato
immediatamente
in
modo
da
potersi
scagionare.
Tucidide
rappresenta
così
la
situazione
(VI
29.
3):
«Ma
i
suoi
nemici,
temendo
che
egli
avrebbe
avuto
l’esercito
benevolo
verso
di
lui
se
avesse
affrontato
il
processo
allora,
e
che
il
popolo
fosse
mite
nei
suoi
confronti
e lo
proteggesse
perché
grazie
a
lui
gli
Argivi
e
alcuni
Mantineesi
prendevano
parte
alla
spedizione,
si
adoperavano
per
respingere
le
proposte
di
Alcibiade
e
impedirne
l’attuazione:
incitarono
altri
oratori
a
parlare.
Questi
dissero
che
egli
doveva
salpare
ora
e
non
ritardare
la
partenza,
ma
che
sarebbe
dovuto
tornare
per
sottoporsi
al
giudizio
entro
un
numero
prescritto
di
giorni.
Volevano
che
subisse
il
processo
al
suo
ritorno,
dopo
averlo
richiamato,
quando
la
loro
accusa
sarebbe
stata
più
grave
e
l’avrebbero
preparata
più
facilmente
mentre
egli
era
lontano».
Dunque,
Alcibiade
salpa
per
la
Sicilia
«con
i
suoi
colleghi,
con
poco
meno
di
centoquaranta
triremi,
cinquemila
e
cento
opliti,
circa
milletrecento
tra
arcieri,
frombolieri
e
fanti
leggeri
e un
equipaggiamento
considerevole»
(Alc.
XX).
Dopo
aver
ottenuto
l’appoggio
di
Catania,
deve,
tuttavia,
abbandonare
l’impresa
perché
è
costretto
a
ritornare
in
patria
per
sottoporsi
al
processo.
Nel
frattempo,
l’accusa
è
divenuta
più
grave:
l’oltraggio
delle
erme
e la
parodia
dei
Misteri
si
ineriscono
in
un
più
vasto
pericoloso
progetto
di
sovversione
politica.
L’atto
di
accusa
recita:
«Tessalo,
figlio
di
Cimone,
del
demo
di
Laciade,
denunciò
Alcibiade,
figlio
di
Clinia,
del
demo
di
Scambonide,
di
aver
offeso
le
due
dee
parodiando
i
Misteri
Eleusini
e
rivelandoli
nella
sua
propria
casa
agli
amici:
indossando
il
manto
che
porta
lo
ierofante
quando
svela
il
sacro
culto
agli
iniziati,
egli
proclamò
se
stesso
ierofante,
Pulizione
portafiaccola,
Teodoro
del
demo
di
Fegea
araldo,
e
agli
altri
compagni
si è
rivolto
come
a
iniziati
e
epopti-
tutto
ciò
contro
le
leggi
e
gli
statuti
fissati
dagli
Eumolpidi,
dai
Cherici
e
dai
sacerdoti
di
Eleusi»
(Alc.
XXII).
In
ogni
caso,
come
specifica
Plutarco,
nessun
accusatore
è in
grado
di
produrre
prove
certe
di
colpevolezza,
per
cui
«il
fatto
creò
dubbi
e
confusione
nella
gente
assennata,
ma
non
mitigò
in
alcun
modo
l’effetto
esercitato
sul
popolo
dalle
calunnie,
ché
anzi,
come
aveva
preso
a
fare
sin
dal
principio,
non
cessò
di
far
arrestare
e
mettere
in
prigione
qualunque
persona
contro
la
quale
venisse
sporta
denuncia»
(Alc.
XX).
Per
sottrarsi
al
processo,
Alcibiade
si
rifugia
dapprima
a
Turi,
poi
in
Elide
e,
infine,
a
Sparta.
Viene
condannato
a
morte
in
contumacia,
i
suoi
beni
vengono
confiscati
e
devoluti
all’erario
e
viene
decretato
che
tutti
i
sacerdoti
e le
sacerdotesse
di
Atene
lo
maledicano.
A
Sparta
Alcibiade
esorta
i
nuovi
alleati
a
dirigere
le
forze
contro
gli
Ateniesi
in
Sicilia,
a
muovere
guerra
contro
Atene
direttamente
sul
suolo
ateniese
e a
fortificare
Decelea.
In
breve
tempo,
riesce
a
conquistare
la
fiducia
degli
Spartani
adottandone
il
modus
vivendi
all’insegna
della
sobrietà
e
dell’austerità.
A
tal
proposito,
Plutarco
sostiene
che
Alcibiade
possiede,
tra
le
numerose
capacità,
«un’arte
tutta
particolare
nell’accalappiare
le
persone,
conformandosi
e
adeguandosi
alle
abitudini
e ai
costumi
altrui,
imponendosi
cambiamenti
più
rapidi
e
radicali
di
quelli
di
un
camaleonte»
(Alc.
XXIII).
Ad
esempio,
«a
Sparta
si
dava
agli
esercizi
sportivi,
viveva
con
sobrietà,
aveva
l’espressione
austera;
nella
Ionia
faceva
il
raffinato,
si
abbandonava
a
tutte
le
forme
di
lussuria
e di
effeminatezza;
in
Tracia
si
ubriacava
spesso
e
montava
a
cavallo;
quando
poi
frequentò
il
satrapo
Tissaferne,
superò
in
fasto
e
splendore
la
magnificenza
persiana»
(Alc.
XXIII).
In
sintesi,
Alcibiade
come
qualsiasi
altro
uomo
politico,
è
capace
di
simulare
e
dissimulare:
con
questa
condotta,
da
difensore
della
patria
diviene,
successivamente,
un
traditore.
Vale
comunque
la
pena
ricordare
che
anche
a
Sparta
il
clima
è
ostile:
il
re
Agide
e
molti
altri
Spartani,
invidiosi,
«ottennero
che
si
mandasse
nella
Ionia
l’ordine
di
sopprimerlo».
Informato
segretamente,
Alcibiade
si
affida
a
Tissaferne,
satrapo
del
re
di
Persia,
che,
essendo
per
natura
malvagio
e
amante
di
chi
è
come
lui,
apprezza
molto
«la
versatilità
e
l’abilità
eccezionale
dell’Ateniese».
Alcibiade
cerca
in
tutti
modi
di
danneggiare
gli
Spartani
e di
metterli
in
cattiva
luce
presso
Tissaferne
(Tucidide
VIII
45 -
51).
Dopo
aver
tradito
Atene
alleandosi
con
Sparta
e,
quindi,
aver
tradito
Sparta,
alleandosi
con
la
Persia,
nell’inverno
del
412/1
a.C.,
Alcibiade
tenta
di
allearsi
con
la
flotta
ateniese
schierata
a
Samo:
invia
agli
Ateniesi
un
messaggio
attraverso
cui
infonde
la
speranza
di
conquistare
l’amicizia
di
Tissaferne.
Stando
a
Plutarco,
prevalgono
gli
amici
di
Alcibiade,
che
inviano
«ad
Atene
Pisandro
per
smuovere
la
situazione
politica,
incoraggiare
i
notabili
a
impadronirsi
del
potere
e ad
abbattere
il
governo
democratico,
perché
solo
a
queste
condizioni
Alcibiade
avrebbe
procurato
loro
l’amicizia
e
l’alleanza
di
Tissaferne»
(Alc.
XXVI).
Nella
primavera
del
411
a.C.,
ad
Atene
viene
abolita
la
costituzione
democratica
e si
insedia
un
consiglio
di
Quattrocento
membri,
destinato
ad
avere
breve
durata:
nell’estate
dello
stesso
anno,
in
seguito
alla
defezione
dell’Eubea
e
alla
perdita
dei
Dardanelli
e di
Bisanzio,
il
governo
oligarchico
viene
destituito.
Il
potere
viene
assunto
dai
Cinquemila
cittadini
«in
grado
di
equipaggiarsi
con
i
propri
mezzi».
Di
fronte
all’imprevedibile
evolversi
degli
eventi,
agli
Ateniesi
non
resta
che
invocare
il
ritorno
di
Alcibiade.
Questi,
come
se
non
avesse
mai
agito
contro
la
patria,
decide
di
tornare,
«ma
non
a
mani
vuote
e
senza
aver
fatto
nulla,
solo
grazie
alla
pietà
e al
favore
del
popolo,
bensì
coperto
di
gloria»
(Alc.
XXVII).
L’occasione
giunge
presto.
Nel
maggio
del
410
a.C.,
a
Cizico
Alcibiade
fornisce,
ancora
una
volta,
una
prova
delle
straordinarie
abilità
tattiche
e
strategiche:
Atene
non
solo
si
impadronisce
dell’Ellesponto,
ma
riesce
a
respingere
con
forza
gli
Spartani
dal
resto
del
mare.
Poco
tempo
dopo,
il
governo
dei
Cinquemila
crolla
e,
nel
corso
dell’estate,
riprende
il
potere
il
vecchio
Consiglio
dei
Cinquecento.
Nella
primavera
del
408
a.C.,
Alcibiade
parte
da
Samo
alla
volta
di
Atene,
«desideroso
ormai
di
rivedere
la
patria
e
ancor
più
di
farsi
vedere
dai
concittadini,
ora
che
tante
volte
aveva
vinto
il
nemico».
Stando
a
Plutarco,
«gli
Ateniesi
gli
fecero
omaggio
di
corone
d’oro
e lo
elessero
stratego
autocrate,
con
pieni
poteri
sia
per
terra
che
per
mare;
decretarono
poi
che
gli
venissero
restituiti
i
beni
confiscati
e
che
gli
Eumolpidi
e i
Cherici
ritirassero
le
maledizioni
che
gli
avevano
scagliato
addosso
per
ordine
del
popolo»
(Alc.
XXXIII).
Eppure,
un
fatto
turba
il
ritorno
di
Alcibiade:
il
giorno
del
suo
arrivo,
il
25
del
mese
Targelione,
coincide
con
la
data
in
cui
si
celebrano
le
cosiddette
Plinterie.
Spiega
Plutarco
che
gli
Ateniesi
considerano
quel
giorno
fra
i
più
nefasti
per
qualsiasi
attività:
le
Prassieridi
compiono
riti
segreti,
spogliano
la
statua
di
Atena
dei
suoi
ornamenti
e la
coprono
di
un
velo.
Per
queste
ragioni,
«si
giudicò
che
la
dea
non
accogliesse
favorevolmente
né
benevolmente
Alcibiade,
ma
anzi
si
velasse
e
volesse
tenerlo
lontano
da
sé (Alc.
XXXIV).
Di
qui
le
conclusioni
di
Plutarco:
«i
cittadini
più
potenti,
spaventati,
si
adoperarono
perché
egli
riprendesse
il
mare
al
più
presto
e,
in
aggiunta
agli
altri
provvedimenti
che
fecero
decretare,
gli
concessero
di
scegliersi
i
colleghi
che
voleva»
(Alc.
XXXV).
Alcibiade
non
riesce,
però,
a
riportare
ulteriori
vittorie:
a
decidere
le
sorti
del
conflitto
è
ormai
Lisandro,
abile
stratego
a
capo
della
flotta
spartana.
La
situazione
precipita
quando
Trasibulo,
figlio
di
Trasone,
si
reca
ad
Atene
dichiarando
Alcibiade
responsabile
della
disfatta
e
della
perdita
delle
navi»
(Alc.
XXXVI).
Gli
Ateniesi
si
lasciano
persuadere,
per
cui
eleggono
altri
generali.
Alcibiade
abbandona
l’accampamento,
anche
se
continua
a
combattere
contro
i
Traci.
Come
sottolinea
Plutarco,
i
fatti
successivi
avrebbero
comunque
dato
ragione
ad
Alcibiade:
«all’improvviso,
e
quando
meno
se
lo
aspettavano,
Lisandro
piombò
su
di
loro;
solo
otto
triremi
riuscirono
a
fuggire
con
Conone,
mentre
tutte
le
altre,
poco
meno
di
trecento,
furono
catturate.
Quanto
agli
uomini,
Lisandro
ne
prese
vivi
tremila
e li
fece
uccidere;
poco
tempo
dopo
si
impadronì
anche
di
Atene,
ordinò
che
venissero
incendiate
le
navi
ateniesi
ed
abbattute
le
lunghe
mura»
(Alc.
XXXVII).
Dopo
la
disfatta
di
Atene,
Alcibiade
teme
i
Lacedemoni,
che
dominano
«per
terra
e
per
mare»,
per
cui
si
trasferisce
in
Bitinia,
portando
con
sé
numerose
ricchezze.
Decide
poi
di
recarsi
verso
l’interno,
presso
Artaserse.
Nel
frattempo,
gli
Ateniesi,
rendendosi
conto
di
aver
perduto
tutto,
«piangevano
ripensando
agli
errori
e
alle
follie
commesse,
la
peggiore
delle
quali
era
l’essersi
adirati
una
seconda
volta
con
Alcibiade.
Infatti,
lo
avevano
privato
del
comando,
non
già
perché
lui
personalmente
avesse
fatto
alcunché
di
male,
ma
perché
il
fatto
che
un
suo
subordinato
avesse
perduto
vergognosamente
poche
navi
aveva
provocato
la
loro
collera;
e
così,
ancor
più
vergognosamente,
si
erano
privati
del
migliore
e
del
più
valente
generale
della
città»
(Alc.
XXXVIII).
Tuttavia,
«proprio
dalla
situazione
presente
nasceva
in
loro
una
vaga
speranza
che
la
causa
di
Atene
non
fosse
del
tutto
perduta
finché
Alcibiade
era
vivo.
Infatti,
in
passato
-dicevano-
Alcibiade
non
si
era
accontentato
di
viversene
tranquillamente
da
esule,
senza
far
nulla,
e
così
neppure
questa
volta,
se
ne
avrà
appena
i
mezzi
sufficienti,
tollererà
l’insolenza
degli
Spartani
contro
Atene
e la
folle
crudeltà
dei
Trenta»
(Alc.
XXXVIII).
In
effetti,
i
progetti
di
Alcibiade
destano
preoccupazione
nei
Trenta.
Crizia
lascia
intendere
a
Lisandro
che
i
Lacedemoni
non
avrebbero
mai
potuto
esercitare
con
sicurezza
la
loro
egemonia
sull’Ellade
finché
gli
Ateniesi
avessero
avuto
un
governo
democratico
ma,
soprattutto,
finché
Alcibiade
fosse
vivo.
Dapprima,
Lisandro
non
presta
attenzione
a
questi
ammonimenti
ma,
dopo
aver
ricevuto
dai
magistrati
di
Sparta,
a
mezzo
di
una
scitale,
l’ordine
di
eliminare
Alcibiade,
invia
un
messaggio
a
Farnabazo
con
l’ordine
di
mettere
in
atto
la
soppressione.
Il
satrapo
affida
il
compito
al
fratello
Bageo
e
allo
zio
Susamitre.
All’epoca,
Alcibiade
si
trova
in
un
villaggio
della
Frigia,
in
compagnia
della
cortigiana
Timandra.
Stando
a
Plutarco,
poco
tempo
prima
di
morire,
fa
un
sogno:
«Gli
sembrava
di
avere
addosso
le
vesti
dell’etera
e
che
questa,
tenendogli
il
capo
fra
le
braccia,
gli
dipingesse
e
imbellettasse
il
viso
come
a
una
donna.
Altri,
invece,
dicono
che
Alcibiade
vide
in
sogno
gli
uomini
di
Bageo
mozzargli
il
capo
e
bruciare
il
suo
corpo»
(Alc.
XXXIX).
In
base
alla
testimonianza
di
Plutarco,
i
sicari
non
osano
entrare,
ma
si
limitano
a
circondare
la
casa
e ad
appiccare
il
fuoco.
Alcibiade
si
affretta
a
gettare
vesti
e
tappeti
sulle
fiamme,
poi
si
avvolge
intorno
alla
mano
sinistra
la
clamide
e
con
la
destra
sguaina
il
pugnale,
lanciandosi
fuori
dalla
casa
illeso.
La
sua
vista
disperde
i
barbari,
nessuno
dei
quali
osa
aspettarlo
e
affrontarlo:
da
lontano
gli
scagliano
giavellotti
e
dardi
finché
cade
(Alc.
XXXIX).
Plutarco
riporta
anche
un’altra
versione:
«Alcuni,
pur
concordando
in
tutti
gli
altri
particolari
della
morte
di
Alcibiade
così
come
io
l’ho
narrata
più
sopra,
affermano
che
non
ne
furono
responsabili
né
Farnabazo
né
gli
Spartani,
ma
lui
stesso
che,
-riferiscono-
dopo
aver
sedotto
una
fanciulla
di
buona
famiglia,
la
teneva
presso
di
sé;
i
fratelli
della
ragazza
non
tollerarono
l’offesa
e di
notte
incendiarono
la
casa
dove
Alcibiade
viveva
e,
mentre
egli
balzava
fuori
per
salvarsi
dalle
fiamme,
lo
uccisero
nel
modo
sopra
descritto»
(Alc.
XXXIX).
Sul
filo
di
questa
direttrice,
una
donna
sarebbe
la
causa
della
rovina
del
comandante
ateniese.
Un
fatto
davvero
sorprendente,
anche
se
non
del
tutto
isolato
nella
storia.
Al
di
là
delle
circostanze
legate
alla
sua
morte,
Alcibiade
rimane
l’ultimo
grande
Ateniese
del
V
secolo.
Ambizioso
uomo
politico,
freddo
e
valoroso
stratego,
personaggio
complesso
e,
come
tutti
coloro
che
sono
destinati
a
imprimere
il
sigillo
della
loro
personalità,
contraddittorio.
Forse,
è
proprio
questa
contraddittorietà
che
continua,
a
distanza
di
secoli,
ad
affascinare
e ad
eternare
il
ricordo
di
Alcibiade.
Forse,
è la
stessa
contraddittorietà
che
gli
Ateniesi
hanno
amato
e
per
cui
non
sono
riusciti
a
odiare
Alcibiade
nemmeno
quando
ne
hanno
ricevuto
del
male
(Alc.
XLII
3).