ALBINO BADINELLI
UN CARABINIERE MEDAGLIA D'ORO AL
MERITO CIVILE ALLA MEMORIA
di Francesco Caldari
A dispetto del nome, nel 1920 nel
villaggio di Allegrezze vi era poco
da star contenti. La vita era grama,
a più di 900 metri sul livello del
mare, in questa frazione della verde Val d’Aveto, che da Genova
accompagna fino a Piacenza. Quando
si pensa alla Liguria si immagina il
blu del mar Tirreno, che tutta la
sua costa bagna, e ci si rappresenta
una striscia di terra che si fa
fatica a credere raggiunga certe
altitudini. Ma alle spalle del mare
subito si ergono le colline, e poi
le montagne, quelle dell’Appennino
ligure, che tanto merito hanno nel
difendere la temperatura mite che
durante ogni stagione conforta i
suoi abitanti.
No, i liguri non son tutti marinai.
E a novecento metri di altitudine
d’inverno la neve si affaccia. Dalla
rigida Val d’Aveto presero in molti
la via “della Merica”, come si
diceva da metà Ottocento in poi, per
cercar fortuna in quella America che
non era solo Nuova York, ma anche il
Cile, l’Argentina, il Brasile.
Anche la famiglia Badinelli fece
partire qualcuno dei suoi. Ma
Vittorio e sua moglie Caterina
Ginocchio rimasero. Dovevano badare
ai campi, agli animali e soprattutto
ai figli, che, come si voleva
allora, erano tanti, davvero. Albino
giunse di sabato, il 6 marzo di quel
1920, e fu il settimo. Ne arrivarono
altri. Fu battezzato nella chiesa di
Santa Maria Assunta e le scuole le
frequentò nella frazione, non vi era
necessità di spostarsi nella sede
comunale di Santo Stefano d’Aveto,
seppure fosse distante solo un paio
di chilometri.
Tempi spensierati: quando non è
impegnato nello studio e nel lavoro
dei campi a fianco di papà Vittorio,
Albino trova il tempo per coltivare
la sua passione per il disegno, che
non lo lascerà mai. Genova è
lontana, Roma ancora di più. La
politica da lassù è solo il suono
confuso di discorsi distanti. Fino a
che nella vita di tutti non irrompe
la guerra.
Vittorio e Caterina devono salutare
cinque figli maschi, chiamati al
fronte. Ad Albino tocca l’uniforme
da carabiniere: sta per compiere
venti anni quando, il 1° marzo 1940,
viene incorporato come ausiliario “a
piedi” presso la Legione Allievi di
Roma, per svolgere la ferma
ordinaria di leva, che sarebbe
dovuta durare 18 mesi. Gli alamari
li riceve tre mesi dopo, e viene
destinato alla Legione di Messina.
Passa un anno, viene “trattenuto
alle armi” come disposto dal
Ministero della Guerra ed è tempo di
un nuovo trasferimento: a Napoli,
dove è istituito il XX Battaglione
Mobilitato. Si va verso terre
lontane, sconosciute, così distanti
nei paesaggi e nella lingua dalla
sua Val d’Aveto. Nel settembre 1941
lo attendono i Balcani: Zagabria,
Spalato. E in quei luoghi lontani e
martoriati dalla guerra, il ricordo
di casa si fa più acuto, come
scriverà nel giorno di Natale:
«Nell’ora solenne un pensiero si
leva tra la nostalgia, sognando
tanti ricordi. Salgono dall’ umili
chiesette le preghiere più dilette,
invocando la Pace e la benedizione
sui figli assenti, ma che saranno
anch’ essi presenti a festeggiare le
Notti dei Natali più lieti».
Anche qui vi è una chiesa che lo
rimanda a quella ove da bambino e
ragazzo prese i Sacramenti. Lo
scriverà in una lettera ai genitori,
il 13 maggio del 1942: «Una cosa
devo dirvi che vi farà piacere,
specialmente a te cara mamma, che
più volte me lo hai ricordato. Sono
stato ad adempiere il Precetto
Pasquale, in una piccola e umile
chiesetta, che proprio mi ricordava
quella di Allegrezze. Tre Sacerdoti
vi stavano celebrando la S. Messa e
mi è sembrata una cosa strana,
perché quando incontri queste
persone fuori non le capisci, mentre
nelle funzioni sì. È un po’ come
ascoltarle lì in una delle nostre
chiese. La differenza è che cantano
e pregano nella loro lingua, ma
comunque la formula rimane la
stessa».
Dopo tanta lontananza è tempo di
avvicinarsi a casa. La nuova
destinazione è per fortuna non così
distante dal suo borgo. La Stazione
di Santa Maria del Taro, nella
provincia parmense, lo riporta in
luoghi per lui più familiari, e la
possibilità di far visita a casa gli
consente di rinfrancare i genitori.
Lo sconvolgimento della guerra però
permane: l’8 settembre 1943 se
possibile porta ancora più
confusione.
Quelli che erano nostri alleati ora
sono diventati coloro verso cui le
forze armate italiane “reagiranno a
eventuali attacchi”, come proclama
il nuovo Capo del Governo, Generale
Badoglio, nell’annunciare
l’”armistizio breve”. Quattro giorni
dopo un reparto di paracadutisti
tedeschi comandato dal maggiore
Harald-Otto Morslibera Mussolini
dalla detenzione presso un albergo
di Campo Imperatore, sul Gran Sasso.
Il 23 settembre 1943 sarà insediato
a capo della Repubblica Sociale
Italiana (RSI) che sotto l’egida
nazista controllerà il Nord-Italia,
ove operano i partigiani. Questi in
Valtaro, a nord della Linea Gotica,
sono particolarmente attivi: si
tratta di un territorio strategico,
controllando il quale si ha la
padronanza dello spartiacque
Tosco-Emiliano, di numerosi passi e
del percorso ferroviario Parma-La
Spezia, utilizzato dalle truppe
tedesche per il trasporto logistico
tra Padania e l’importante porto
militare. Il presidio di forze
tedesche, supportate dalla
neocostituita Guardia Nazionale
Repubblicana, Brigate nere, X Mas, è
ramificato sul territorio, così come
vivaci sono le attività di
sabotaggio e attacchi da parte dei
gruppi partigiani, che nel giugno
del 1944 libereranno gran parte dei
comuni dell’Alta valle e alcuni
comuni liguri confinanti, sì da
istituire tra il giugno e il luglio
successivo il Territorio Libero del
Taro.
Badinell iè costretto a vivere
momenti difficili quindi anche
presso la piccola Stazione presso
cui presta servizio. I presidi
dell’Arma non vengono risparmiati.
Come racconterà un suo commilitone:
«Un giorno alcuni partigiani,
cercando di entrare con forza nella
caserma, spararono a un nostro
collega. Alcuni giorni dopo la
stessa caserma venne distrutta con
un bomba, sempre a opera dei
partigiani. Dopo quell’episodio ci
ordinarono di abbandonare la caserma
e di fare ritorno a casa».
Badinelli, senza una guida,
sbandato, si ritira allora nella sua
Allegrezze, dove conosce Albina, una
giovane con la quale intreccia una
affettuosa amicizia, mentre il
pensiero suo e dei genitori è al
fratello Marino, alpino sul fronte
russo, disperso sin dal dicembre del
‘43. In tal modo si sottrae alla
partecipazione alle forze della
Repubblica di Salò e al “bando
Graziani” (il Maresciallo ministro
della difesa nazionale), serie di
disposizioni che prevedonola pena di
morte per i militari sbandati dopo
l’8 settembre e per i giovani che si
sottraggono alla leva, molti dei
quali avevano ingrossato le fila
della Resistenza, nonché “immediati
provvedimenti anche a carico dei
capi famiglia”.
Saranno proprio le forze
repubblichine a segnare il destino
di Albino. Siamo nell’agosto del
‘44. La Divisione Alpina “Monterosa”
– mobilitata nel febbraio
precedente, addestrata e armata in
Germania e inviata nella zona ligure
per contrastare un possibile sbarco
e comunque l’avanzata degli
anglo-americani e le connesse
attività partigiane – insedia nel
vicino villaggio di Borzonasca il
Gruppo Esplorante guidato dal
Maggiore Girolamo Cadelo.
All’ufficiale gli impauriti abitanti
di quei villaggi affibbiano il
curioso soprannome di “Caramella”
per via del monocolo che è uso
portare. Alla guida dei suoi uomini,
uniti a truppe naziste, nei piccoli
centri della Val d’Aveto e della
contigua Val Trebbia vuole in
particolare stanare quanti sono
oggetto del Bando Graziani.
Di contro le azioni dei partigiani
si fanno più ficcanti: il 27 agosto
proprio nei pressi di Allegrezze è
attaccata una colonna della
Divisione in attività di
rastrellamento, mentre è diretta
alla vicina Santo Stefano. Il
giovane Antonio Brizzolara, preso in
ostaggio e costretto dai soldati a
precedere la colonna per verificare
se vi fossero partigiani, rimasti
ben nascosti prima dell’attacco,
verrà poi fucilato per rappresaglia.
Nello scontro si contano cinque
morti tra gli alpini, e uno tra i
partigiani, Silvio Solimano da Santa
Margherita Ligure, nome di battaglia
Berto. I soldati feriti vengono
trasportati nella Canonica del
villaggio. La reazione di Cadelo e
dei suoi è risoluta.
Ad Allegrezze il 29 agosto
successivo mentre la gran parte
della popolazione è in chiesa per la
celebrazione della Messa per la
venerata Madonna della Guardia
vengono appiccati incendi alle
abitazioni, poiché la comunità
locale è accusata di connivenza.
Posta la sua base presso la Casa
Littoria nella vicina Santo Stefano
d’Aveto e ammassati nella palestra
come ostaggi una cinquantina di
uomini, per la maggior parte
sfollati, Cadelo fa affiggere nel
capoluogo e frazioni i manifesti che
richiedono la consegna dei militari
sbandati presso il suo comando,
penala fucilazione di venti ostaggi
nonché l’incendio delle abitazioni
di Santo Stefano.
Albino, che non ha preso parte
attivamente alla Resistenza e nulla
ha a che vedere con lo scontro a
fuoco precedente, dopo aver raccolto
informazioni su quanto sta
accadendo, decide di presentarsi
spontaneamente. Ai suoi familiari
dice: «Se succedesse qualcosa a
quegli innocenti non avrei pace. Io
devo essere il primo».
Accompagnato dalla madre si reca
presso la Casa Littoria, dove
riferisce a Cadelo di essere un
carabiniere. Il maggiore non ha
dubbi sul destino del giovane: in
ossequio al Bando Graziani, deve
essere fucilato immediatamente.
Monsignor Giuseppe Monteverde viene
chiamato da un giovane del luogo, e
si accosta al carabiniere, che lungo
la via che lo porta – scortato dai
soldati – verso il cimitero, scelto
come luogo dell’esecuzione, ha la
possibilità di confidarsi.
Come il Monsignore testimonierà:
«Camminammo e pregammo insieme.
Albino stringeva tra lemani il
crocifisso, che baciò più volte.
Poi, in prossimità della curva, mi
riferì che perdonava i suoi
uccisori. Poco dopo vennesistemato
contro il muro del camposanto, e
alcuni istanti primache fossero dati
i colpi mortali, disse con serenità
e fiducia: “Padre, perdonali, perché
non sanno quello che fanno!” Poi
cadde a terra sotto i tre colpi del
fucile, tenendo sempre stretto a sé
il crocifisso.
Un giovane seminarista a sua volta è
testimone dell’uccisione, don Pietro
Tassi: «Un mesto corteo formato dal
Carabiniere Badinelli, con a fianco
Monsignor Monteverde e alcuni
militari, si dirigeva verso il
cimitero. Dei colpi di arma da fuoco
ruppero il silenzio, poi le grida
della madre. Quando vidi che il
Sacerdote che aveva assistito il
giovane Albino faceva ritorno verso
la chiesa, salii anche io e lui,
ancora sconvolto e commosso, mi
disse: “È morto sereno, perdonando
ai suoi uccisori”».
Il sacrificio del carabiniere placa
il Maggiore Cadelo che libera gli
ostaggi. La sua esistenza terrena
non durerà molto: il 27 settembre
successivo, mentre era in auto fu
oggetto di un agguato predisposto da
tre partigiani, appostatisi nel
bosco in prossimità di una curva in
località Brizzolara. All’apparire
dell’auto una raffica colpì
l’ufficiale, seduto accanto
all’autista. Cadelo fu trasportato
all’ospedale di Chiavari, dove
giunse cadavere.
La famiglia Badinelli dei cinque
figli militari, ne pianse due
caduti: Marino, disperso in Russia
dal 1943, e Albino. Un signore del
luogo, che all’epoca aveva dieci
anni, nel ricordare che la mamma
aveva accompagnato Albino presso la
Casa Littoria, e si era accomiatata,
fiduciosa, per tornare verso casa e
lì attendere il suo ritorno,
racconta che ella udì il crepitio
dei colpi che finirono suo figlio e
corsa verso il cimitero, ne vide il
corpo straziato. Raggiunta tempo
dopo nella sua casa da un Cappellano
Militare, inviato dal Comando
Generale dell’Arma, fu trovata
seduta in un angolo della cucina,
intenta a recitare il Rosario:
«Prego per coloro che hanno ucciso
mio figlio”.
Al carabiniere Badinelli, freddato
nel fiore dei suoi 24 anni, a Santo
Stefano d’Aveto è dedicata una via e
la caserma sede della Stazione
dell’Arma. Gli è stata conferita l’8
agosto 2017 la Medaglia d’Oro al
Merito Civile, alla memoria,con la
seguente motivazione: “Carabiniere
effettivo alla Stazione di Santa
Maria del Taro (Pr), dopo
l’armistizio dell’8 settembre 1943,
non volendo venir meno al giuramento
prestato e deciso a non far parte
delle milizie della Repubblica di
Salò, si dava dapprima alla macchia
e successivamente decideva di
consegnarsi al reparto nazifascista
che, come rappresaglia a un attacco
subito, minacciava di trucidare
venti civili inermi. Condotto
davanti al plotone di esecuzione
sacrificava la propria vita per
salvare quella dei prigionieri.
Chiaro esempio di eccezionale senso
di abnegazione e di elette virtù
civiche spinte fino all’estremo
sacrificio. 2 settembre 1944, Santo
Stefano d’Aveto (GE)”.
È in corso l’iter canonico per la
Causa di Beatificazione e
Canonizzazione del Servo di Dio
Albino Badinelli, la cui competenza
è affidata al Vescovo della Diocesi
di Chiavari. Attore promotore dei
lavori è il Comitato appositamente
costituito.
Riferimenti bibliografici:
Tommaso Mazza, L’Amore più grande,
2015.