filosofia & religione
ALBERTO CARACCIOLO (1918-1990)
FILOSOFO DELLA TRASCENDENZA
di Raffaele Pisani
Ha affrontato il problema del
trascendente inteso come un a priori
umano universale, al di là delle forme
storiche, religiose o ideologiche nelle
quali si manifesta. Apprezzando e amando
profondamente il cristianesimo del quale
si è nutrito fin dai primi anni di vita,
il suo sguardo si è volto anche ad altre
prospettive. Ha tenuto per alcuni anni,
primo in Italia, la cattedra di
filosofia della religione. Troppo
religioso per una visione laica e troppo
laico per una visione religiosa, specie
cristiana, ha svolto il medesimo tema da
una pluralità di angolazioni per tutta
la sua esistenza.
Il filosofo napoletano Pietro Piovani,
di qualche anno più giovane, ebbe a dire
qualche decennio fa a proposito di
Caracciolo: “È
il solo pensatore italiano che possa
essere definito, anche in senso stretto,
filosofo della religione, nella moderna
accezione europea del termine”.
Nacque in provincia di Verona in un
piccolo paese chiamato San Pietro di
Morubio. La sua famiglia proveniva dal
Piemonte, dove tanti Caracciolo si erano
trasferiti dopo il fallimento della
Repubblica Partenopea del 1799. Il
Nostro dunque era un discendente,
probabilmente per via collaterale,
dell’ammiraglio Francesco Caracciolo,
considerato dalla storiografia uno dei
primi martiri del Risorgimento italiano.
Compiuti a Verona gli studi ginnasiali e
liceali, vinse un concorso col quale
poté accedere al Collegio Ghislieri di
Pavia e frequentare l’Università
cittadina. Alla laurea in lettere nel
1940 seguì un corso di perfezionamento e
il conseguimento dell’abilitazione per
l’insegnamento nei licei; nel pieno del
secondo conflitto mondiale vinse pure
borsa di studio per un corso di estetica
presso l’Università di Monaco di
Baviera. Passò i restanti anni della
guerra insegnando italiano a latino al
liceo, prima a Lodi poi a Brescia.
Non è nostra intenzione, come questi
brevi tratti biografici potrebbero far
supporre, formulare un giudizio
sbrigativo: considerarlo come uno
studioso dedito alla letteratura e
all’estetica che ha potuto vivere gli
anni del terribile conflitto rimanendo
in un mondo parallelo e relativamente
comodo.
Non si impegnerà direttamente nella
lotta armata ma parteciperà a riunioni
clandestine, rischiando anche la vita
per aver offerto la propria carta
d’identità a un amico impegnato nella
lotta di liberazione. Vedremo che anche
durante i cosiddetti anni di piombo come
professore universitario non esiterà a
esporsi personalmente per la difesa del
libero pensiero, minacciato da
un’ideologia confusamente rivoluzionaria
che voleva imporsi con la lotta armata.
La sua acuta sensibilità, dimostrata fin
dall’infanzia, lo portò a interessarsi
del prossimo a cominciare dall’ambiente
del paese nel quale si trovò a vivere i
suoi due primi decenni. Lo fece con i
mezzi che gli erano propri: la
riflessione, lo studio e il dialogo.
Ancor prima di acquisire gli strumenti
teorici del filosofare intuì il valore
della libera ricerca della verità, una
costante che lo ha accompagnato per
tutta la sua esistenza.
Riflettendo in età adulta della sua vita
di scolaro e studente, ricorda con
piacere la sua maestra seria e mite, che
parlava della patria e degli eroi del
risorgimento, l’ideologia fascista non
l’aveva contaminata. Anche negli anni di
studio successivi, fino al 1935, ebbe
modo di apprezzare tanti insegnanti che
ben svolgevano il loro compito, senza
farsi condizionare dal regime.
È noto che proprio da quegli anni la
politica scolastica intesa a
bonificare la scuola si faceva
sempre più sentire nei vari ordini e
gradi. Il ministro De Vecchi operava con
metodi rozzi nella sua direzione della
Minerva, poco apprezzati anche dal capo
del governo. Da studente Caracciolo in
questo periodo ebbe qualche problema: la
sua concezione dell’umanità e anche la
sua indole erano in contrasto con la
retorica fascista e più concretamente
con l’istruzione premilitare che veniva
imposta ai giovani.
L’ambiente universitario che dal 1936
frequentò come studente consentiva una
sia pur limitata possibilità di
espressione del libero pensiero. In quel
periodo strinse amicizia con Teresio
Olivelli, un attivista cattolico che
dopo l’otto settembre del 1943 entrerà
nella Resistenza e per questo pagherà
con la vita, morendo nel lager di
Hersbruck in Germania nel gennaio del
‘45.
La fine della guerra coincise con un
periodo particolarmente felice, nel ‘46
sposò Maria Perotti e dopo qualche anno
ottenne la docenza universitaria
all’Università di Genova. Estetica,
filosofia della religione e filosofia
teoretica sono le discipline che ha
insegnato, per un po’ nella facoltà di
magistero e più a lungo a quella di
lettere e filosofia, fino al
collocamento a riposo nel 1988. Verrà a
mancare improvvisamente appena due anni
dopo.
Il suo itinerario filosofico parte dalla
constatazione del male nel mondo, dalla
società ingiusta che manda a morire
l’innocente. Il sacrificio di una
generazione privata della libertà e
gettata nel conflitto, della quale
l’amico Olivelli rappresenta un caso
emblematico, spinge il giovane
Caracciolo verso un necessario
approfondimento filosofico.
Nella Biografia di un martire che
scrisse nel 1947 così si esprime: “Perché
l’essere piuttosto che il nulla
assoluto, se la struttura dell’essere,
nella quale è incluso l’esistere
dell’uomo, è tale che può consentire
Flossenburg, Mauthausen, Auschwitz?”
Analogamente a Platone che scosso
dall’ingiusta condanna inflitta a
Socrate progetta una società
caratterizzata dalla giustizia, anche
Caracciolo s’incammina per questa
strada. I filosofi che più hanno
influito sulla sua formazione sono
Croce, Kant, Jaspers e Heidegger; non si
è limitato a nutrirsi del loro sapere ma
ha dialogato con loro talvolta anche
contrapponendosi.
Oltre che dalla filosofia in senso
stretto anche dalla letteratura italiana
e straniera e dalla cultura in generale
ha saputo cogliere quegli spunti per lo
svolgimento della sua visione del mondo
e per l’etica che ne consegue. Leopardi
con il suo filosofare poetico resta per
lui un punto fondamentale che apre la
condizione umana alla trascendenza.
Vediamo ora qualche testo caraccioliano
a cominciare da quelli giovanili.
L’estetica di Benedetto Croce nel suo
svolgimento e nei suoi limiti, una
serie di articoli degli anni Quaranta
pubblicati sul Giornale di Metafisica
poi riunititi in un libro, è una
coraggiosa presa di posizione di un
giovane professore agli inizi della sua
carriera nei confronti di un grande
maestro con il quale si trova in
disaccordo su questioni fondamentali.
Fa notare come il concetto crociano di
arte come intuizione sia passato da una
prima fase per così dire naturalistica,
legata alla mera sensazione, a una più
matura nella quale c’è “il sentimento
finalmente sollevato a piena dignità
umana”. Quello che manca secondo
Caracciolo è la ricerca del fondamento
ontologico; Croce si accontenterebbe in
un primo momento di un ingenuo realismo
per poi passare a un immanentismo non
risolto, così l’arte rimane priva di
radici e di ali.
L’idea crociana di religione, come
gioiosa espansione dello spirito
dell’umanità e come libertà, è vista da
Caracciolo come un semplice orientamento
pratico che sottende a una posizione
fideistica. Per quanto questa religione
rivesta un carattere sereno e aperto, il
Nostro non può mancare di sottolineare
le carenze filosofiche di un pensiero
che non va fino in fondo. Ma il
significato di quanto è stato scritto va
oltre la lettera e un’interpretazione
aperta alla trascendenza è pur sempre
rintracciabile. Croce non la nega ma si
limita a ignorala, più interessato a
delinearne lo sviluppo che a cercarne
l’origine.
Caracciolo non si è prodigato di lodi
per il grande maestro, pur apprezzandone
le indubbie qualità, Croce invece ha
riconosciuto nel saggio del giovane
studioso una delle migliori
interpretazioni del suo pensiero. Ne è
seguito un interessante scambio
epistolare prolungato nel tempo.
Nel 1967, in una conferenza tenuta alla
Biblioteca Filosofica di Torino,
affronta il tema del rapporto tra
religione ed etica. La trascendenza è un
punto fondamentale, che tratta con
l’originalità che gli è propria. Non
parla di Dio ma lo sostituisce
dall’espressione “spazio di Dio”, non
parla di preghiera ma di “invocazione
che non riesce farsi preghiera”.
Dal dialogo con Jaspers trae spunto per
ampliare e approfondire la sua visione
della trascendenza. Nella sua opera:
Studi jaspersiani, al capitolo II,
quando parla della filosofia come
linguaggio dell’esistenza, considera
anche la filosofia trascendentale
kantiana, avendo ben chiaro che “Quel
che interessa non è il trascendentale,
il fluire del mondo e della storia, ma
il suo eventuale costituire un punto di
incontro con il Trascendente”.
Scorge nel testo di Jaspers, I grandi
filosofi, uno spirito che dialoga e
ricerca in una molteplicità di pensatori
la comune tensione verso la
trascendenza. Il termine filosofi è
inteso nel senso più ampio, tale da
includere profeti delle grandi
religioni, poeti, santi, uomini di
scienza e d’azione. Budda, Confucio,
Gesù; Galileo, Keplero, Einstein; Dante,
Shakespeare, Goethe e una miriade di
altri si affacciano in un dialogo che
sfida la spazialità e la temporalità.
Si diceva che Caracciolo si confronta e
dialoga con gli altri filosofi; a
Jaspers, al quale si rivolge con
rispetto e ammirazione, non manca
talvolta di avanzare delle critiche e
delle prese di distanza. All’idea del
filosofo tedesco di considerare la
filosofia come una forma specifica
all’interno dell’esperienza umana,
Caracciolo contrappone la propria
concezione che la vede invece come
“struttura onnicomprensiva e ultima
della coscienza”.
Un’altra presa di distanza riguarda il
momento esistenziale dell’invocazione e
della preghiera, che è in qualche modo
conoscenza contemplativa e quindi
giustificazione dell’essere di Dio.
Jaspers assolutizza questa intuizione,
la sigilla in modo tale da rendere
superfluo ogni discorso che possa
seguire. Caracciolo invece pensa che sia
un diritto e anche un dovere per l’uomo
che ha fatto questa sublime esperienza
rientrare per così dire nel mondo,
esprimendosi con il linguaggio umano e
operando nelle concrete situazioni.
La filosofia trascendentale di Kant è
vista da Jaspers come un liberarsi da
una visione puramente intellettiva (Verstand)
dell’oggettivo concreto; in ciò vi è uno
slancio di trascendimento e di
liberazione. Su questo e su ciò che
segue pare che Caracciolo sia d’accordo
con Jaspers. La filosofia critica
kantiana è notoriamente formale, il
vuoto di tali forme non è visto
negativamente ma è considerato
condizione di genuina pienezza. I
tentennamenti e le contraddizioni di
Kant, che riempie di contenuti quella
che doveva essere una scienza solo
formale (Metafisica dei costumi), sono
la traccia per cogliere l’anelito
esistenziale dell’uomo come persona
verso la trascendenza. L’Io
penso come pura forma, nasconderebbe
l’io esistenziale.
Quando si parla di trascendenza viene
spontaneo pensare al rapporto religioso
con Dio. Caracciolo era nato nella
provincia veronese in un ambiente
cattolico che egli apprezzava, anche se
non mancherà di avanzare qualche critica
lamentando una eccessiva aderenza a una
tradizione che poco teneva conto delle
novità.
Quando era ancora studente universitario
ebbe a scrivere in un appunto qualcosa
di molto più rivoluzionario: “Come
pensare che Dio non ascolti tutti,
quando pregano nell’angoscia della vita,
siano essi o maomettani, o buddisti, o
cristiani?”.
Parlando
di Dio si esprimeva ancora in termini
antropomorfici, poi, confrontandosi con
il pensiero di Heidegger e di Jaspers,
ma anche di poeti come ad esempio
Leopardi, maturerà la sua concezione
della trascendenza, concepita come
spazio di Dio o essere o nulla o
Altro assoluto.
Ci limitiamo a cogliere dalla sua vasta
produzione di questo aspetto essenziale
del suo pensiero i due scritti, entrambi
del 1987, Nulla religioso e
imperativo dell’eterno e
Leopardi e il nichilismo.
Parola, silenzio e rumore si intendono
in vari modi. Parlano gli uomini e
questo costituisce un tratto
fondamentale che li distingue da altre
creature; parla anche la natura nel suo
splendore come nelle situazioni più
scabrose. Parla infine la ginestra che
allieta il suolo desertico alle pendici
del Vesuvio. D’altra parte la parola
quando è illogica, fuori luogo o
comunque inopportuna non comunica
l’autentico ma è solo rumore. La parola
autentica quindi non è in antitesi al
silenzio ma al rumore; è nel silenzio
che scaturisce e si leva la parola
originaria.
Leopardi è sempre stato interlocutore
privilegiato di un lungo discorso; la
pubblicazione dei primi Appunti di
bibliografia leopardiana risale al
1947, gli ultimi due saggi: Nulla
religioso e imperativo
dell’eterno e Leopardi e il
nichilismo vedono la luce
esattamente quarant’anni dopo. L’uomo
nella sua ricerca della verità non si
avvale della sola filosofia ma di “ciascuno
dei modi in cui si articola il suo
esistere”. Poesia e filosofia,
“Poìesis e nòesis sono modi diversi del
realizzarsi e del dirsi della verità
intesa come la verità che instaura il
senso e illumina sul senso”.
Ci par di capire che la verità profonda
del messaggio leopardiano scaturisca
quando finalmente il poeta rigetta il
freddo intellettualismo derivantegli
dalla cultura illuminista, che ben
conosceva e che comunque ha avuto il
pregio di mostrare i suoi limiti e la
necessità di andare oltre.
La parola originaria che scaturisce
dagli interminati spazi, dai
sovrumani silenzi e dalla
profondissima quiete dell’Infinito
ci dice del “malum mundi
diverso dai mala in mundo, anche
se concretamente rivelantesi all’interno
di questi”. Questa amara constatazione,
già peraltro annunciata dai testi
biblici: la vanitas del Qohelet e il
peccato del mondo dell’evangelista
Giovanni, caratterizzano ontologicamente
l’umanità, le altre creature viventi e
il cosmo intero. Il dolore è per tutti,
la noia è degli uomini, il piacere è
solo una momentanea attenuazione del
dolore.
L’uomo che invoca, interroga o agisce
nella prassi cerca sempre la
giustificazione piena della vita, la
pienezza del valore della sua esistenza,
in altre parole: la vita eterna.
Leopardi non dice espressamente questo;
nell’Inno ad Arimane parla di
questa divinità del male ma il fatto che
la maledice a nome di tutta la creazione
significa che “in ciascuna creatura vive
e opera l’imperativo ontologico ed etico
dell’eterno o – che è lo stesso – del
divino”.
L’atteggiamento di Caracciolo è quello
di uno che cerca e che ha intravvisto
qualcosa all’orizzonte, non afferma
perentoriamente ma dice che potrebbe
essere. Questo spazio del divino non è
rifugio o esaltazione mistica, la vita
terrena va vissuta nel cammino della
conoscenza, nell’agire etico-politico e
nell’espressione del sentimento.
Riferimenti bibliografici:
Alberto Caracciolo, Teresio Olivelli.
Biografia di un martire, La Scuola,
Brescia 1947.
Alberto Caracciolo, L’estetica e la
religione di Benedetto Croce,
Paideia, Arona 1958.
Alberto Caracciolo, Studi jaspersiani,
Marzorati, Milano 1958.
Alberto Caracciolo, Religione ed
etica, Edizioni di Filosofia, Torino
1967.
Alberto Caracciolo, Nulla religioso e
imperativo dell’eterno. Studi di etica e
di poetica, Il Melangolo, Genova
2010.
Francesco Favalli, L’orizzonte umano
e filosofico di Alberto Caracciolo,
Grafiche Stella, Legnago (Vr) 2000.
Giovanni Moretto, Filosofia umana.
Itinerario di Alberto Caracciolo,
Morcelliana, Brescia 1992. |