[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

163 / LUGLIO 2021 (CXCIV)


filosofia & religione

ALBERTO CARACCIOLO (1918-1990)

FILOSOFO DELLA TRASCENDENZA

di Raffaele Pisani

 

Ha affrontato il problema del trascendente inteso come un a priori umano universale, al di là delle forme storiche, religiose o ideologiche nelle quali si manifesta. Apprezzando e amando profondamente il cristianesimo del quale si è nutrito fin dai primi anni di vita, il suo sguardo si è volto anche ad altre prospettive. Ha tenuto per alcuni anni, primo in Italia, la cattedra di filosofia della religione. Troppo religioso per una visione laica e troppo laico per una visione religiosa, specie cristiana, ha svolto il medesimo tema da una pluralità di angolazioni per tutta la sua esistenza.

 

Il filosofo napoletano Pietro Piovani, di qualche anno più giovane, ebbe a dire qualche decennio fa a proposito di Caracciolo: “È il solo pensatore italiano che possa essere definito, anche in senso stretto, filosofo della religione, nella moderna accezione europea del termine”.

 

Nacque in provincia di Verona in un piccolo paese chiamato San Pietro di Morubio. La sua famiglia proveniva dal Piemonte, dove tanti Caracciolo si erano trasferiti dopo il fallimento della Repubblica Partenopea del 1799. Il Nostro dunque era un discendente, probabilmente per via collaterale, dell’ammiraglio Francesco Caracciolo, considerato dalla storiografia uno dei primi martiri del Risorgimento italiano.

 

Compiuti a Verona gli studi ginnasiali e liceali, vinse un concorso col quale poté accedere al Collegio Ghislieri di Pavia e frequentare l’Università cittadina. Alla laurea in lettere nel 1940 seguì un corso di perfezionamento e il conseguimento dell’abilitazione per l’insegnamento nei licei; nel pieno del secondo conflitto mondiale vinse pure borsa di studio per un corso di estetica presso l’Università di Monaco di Baviera. Passò i restanti anni della guerra insegnando italiano a latino al liceo, prima a Lodi poi a Brescia.

 

Non è nostra intenzione, come questi brevi tratti biografici potrebbero far supporre, formulare un giudizio sbrigativo: considerarlo come uno studioso dedito alla letteratura e all’estetica che ha potuto vivere gli anni del terribile conflitto rimanendo in un mondo parallelo e relativamente comodo.

 

Non si impegnerà direttamente nella lotta armata ma parteciperà a riunioni clandestine, rischiando anche la vita per aver offerto la propria carta d’identità a un amico impegnato nella lotta di liberazione. Vedremo che anche durante i cosiddetti anni di piombo come professore universitario non esiterà a esporsi personalmente per la difesa del libero pensiero, minacciato da un’ideologia confusamente rivoluzionaria che voleva imporsi con la lotta armata.

 

La sua acuta sensibilità, dimostrata fin dall’infanzia, lo portò a interessarsi del prossimo a cominciare dall’ambiente del paese nel quale si trovò a vivere i suoi due primi decenni. Lo fece con i mezzi che gli erano propri: la riflessione, lo studio e il dialogo. Ancor prima di acquisire gli strumenti teorici del filosofare intuì il valore della libera ricerca della verità, una costante che lo ha accompagnato per tutta la sua esistenza.

 

Riflettendo in età adulta della sua vita di scolaro e studente, ricorda con piacere la sua maestra seria e mite, che parlava della patria e degli eroi del risorgimento, l’ideologia fascista non l’aveva contaminata. Anche negli anni di studio successivi, fino al 1935, ebbe modo di apprezzare tanti insegnanti che ben svolgevano il loro compito, senza farsi condizionare dal regime.

 

È noto che proprio da quegli anni la politica scolastica intesa a bonificare la scuola si faceva sempre più sentire nei vari ordini e gradi. Il ministro De Vecchi operava con metodi rozzi nella sua direzione della Minerva, poco apprezzati anche dal capo del governo. Da studente Caracciolo in questo periodo ebbe qualche problema: la sua concezione dell’umanità e anche la sua indole erano in contrasto con la retorica fascista e più concretamente con l’istruzione premilitare che veniva imposta ai giovani.

 

L’ambiente universitario che dal 1936 frequentò come studente consentiva una sia pur limitata possibilità di espressione del libero pensiero. In quel periodo strinse amicizia con Teresio Olivelli, un attivista cattolico che dopo l’otto settembre del 1943 entrerà nella Resistenza e per questo pagherà con la vita, morendo nel lager di Hersbruck in Germania nel gennaio del ‘45.

 

La fine della guerra coincise con un periodo particolarmente felice, nel ‘46 sposò Maria Perotti e dopo qualche anno ottenne la docenza universitaria all’Università di Genova. Estetica, filosofia della religione e filosofia teoretica sono le discipline che ha insegnato, per un po’ nella facoltà di magistero e più a lungo a quella di lettere e filosofia, fino al collocamento a riposo nel 1988. Verrà a mancare improvvisamente appena due anni dopo.

 

Il suo itinerario filosofico parte dalla constatazione del male nel mondo, dalla società ingiusta che manda a morire l’innocente. Il sacrificio di una generazione privata della libertà e gettata nel conflitto, della quale l’amico Olivelli rappresenta un caso emblematico, spinge il giovane Caracciolo verso un necessario approfondimento filosofico.

 

Nella Biografia di un martire che scrisse nel 1947 così si esprime: “Perché l’essere piuttosto che il nulla assoluto, se la struttura dell’essere, nella quale è incluso l’esistere dell’uomo, è tale che può consentire Flossenburg, Mauthausen, Auschwitz?”

 

Analogamente a Platone che scosso dall’ingiusta condanna inflitta a Socrate progetta una società caratterizzata dalla giustizia, anche Caracciolo s’incammina per questa strada. I filosofi che più hanno influito sulla sua formazione sono Croce, Kant, Jaspers e Heidegger; non si è limitato a nutrirsi del loro sapere ma ha dialogato con loro talvolta anche contrapponendosi.

 

Oltre che dalla filosofia in senso stretto anche dalla letteratura italiana e straniera e dalla cultura in generale ha saputo cogliere quegli spunti per lo svolgimento della sua visione del mondo e per l’etica che ne consegue. Leopardi con il suo filosofare poetico resta per lui un punto fondamentale che apre la condizione umana alla trascendenza.

 

Vediamo ora qualche testo caraccioliano a cominciare da quelli giovanili. L’estetica di Benedetto Croce nel suo svolgimento e nei suoi limiti, una serie di articoli degli anni Quaranta pubblicati sul Giornale di Metafisica poi riunititi in un libro, è una coraggiosa presa di posizione di un giovane professore agli inizi della sua carriera nei confronti di un grande maestro con il quale si trova in disaccordo su questioni fondamentali.

 

Fa notare come il concetto crociano di arte come intuizione sia passato da una prima fase per così dire naturalistica, legata alla mera sensazione, a una più matura nella quale c’è “il sentimento finalmente sollevato a piena dignità umana”. Quello che manca secondo Caracciolo è la ricerca del fondamento ontologico; Croce si accontenterebbe in un primo momento di un ingenuo realismo per poi passare a un immanentismo non risolto, così l’arte rimane priva di radici e di ali.

 

L’idea crociana di religione, come gioiosa espansione dello spirito dell’umanità e come libertà, è vista da Caracciolo come un semplice orientamento pratico che sottende a una posizione fideistica. Per quanto questa religione rivesta un carattere sereno e aperto, il Nostro non può mancare di sottolineare le carenze filosofiche di un pensiero che non va fino in fondo. Ma il significato di quanto è stato scritto va oltre la lettera e un’interpretazione aperta alla trascendenza è pur sempre rintracciabile. Croce non la nega ma si limita a ignorala, più interessato a delinearne lo sviluppo che a cercarne l’origine.

 

Caracciolo non si è prodigato di lodi per il grande maestro, pur apprezzandone le indubbie qualità, Croce invece ha riconosciuto nel saggio del giovane studioso una delle migliori interpretazioni del suo pensiero. Ne è seguito un interessante scambio epistolare prolungato nel tempo.

 

Nel 1967, in una conferenza tenuta alla Biblioteca Filosofica di Torino, affronta il tema del rapporto tra religione ed etica. La trascendenza è un punto fondamentale, che tratta con l’originalità che gli è propria. Non parla di Dio ma lo sostituisce dall’espressione “spazio di Dio”, non parla di preghiera ma di “invocazione che non riesce farsi preghiera”.

 

Dal dialogo con Jaspers trae spunto per ampliare e approfondire la sua visione della trascendenza. Nella sua opera: Studi jaspersiani, al capitolo II, quando parla della filosofia come linguaggio dell’esistenza, considera anche la filosofia trascendentale kantiana, avendo ben chiaro che “Quel che interessa non è il trascendentale, il fluire del mondo e della storia, ma il suo eventuale costituire un punto di incontro con il Trascendente”.

 

Scorge nel testo di Jaspers, I grandi filosofi, uno spirito che dialoga e ricerca in una molteplicità di pensatori la comune tensione verso la trascendenza. Il termine filosofi è inteso nel senso più ampio, tale da includere profeti delle grandi religioni, poeti, santi, uomini di scienza e d’azione. Budda, Confucio, Gesù; Galileo, Keplero, Einstein; Dante, Shakespeare, Goethe e una miriade di altri si affacciano in un dialogo che sfida la spazialità e la temporalità.

 

Si diceva che Caracciolo si confronta e dialoga con gli altri filosofi; a Jaspers, al quale si rivolge con rispetto e ammirazione, non manca talvolta di avanzare delle critiche e delle prese di distanza. All’idea del filosofo tedesco di considerare la filosofia come una forma specifica all’interno dell’esperienza umana, Caracciolo contrappone la propria concezione che la vede invece come “struttura onnicomprensiva e ultima della coscienza”.

 

Un’altra presa di distanza riguarda il momento esistenziale dell’invocazione e della preghiera, che è in qualche modo conoscenza contemplativa e quindi giustificazione dell’essere di Dio. Jaspers assolutizza questa intuizione, la sigilla in modo tale da rendere superfluo ogni discorso che possa seguire. Caracciolo invece pensa che sia un diritto e anche un dovere per l’uomo che ha fatto questa sublime esperienza rientrare per così dire nel mondo, esprimendosi con il linguaggio umano e operando nelle concrete situazioni.

 

La filosofia trascendentale di Kant è vista da Jaspers come un liberarsi da una visione puramente intellettiva (Verstand) dell’oggettivo concreto; in ciò vi è uno slancio di trascendimento e di liberazione. Su questo e su ciò che segue pare che Caracciolo sia d’accordo con Jaspers. La filosofia critica kantiana è notoriamente formale, il vuoto di tali forme non è visto negativamente ma è considerato condizione di genuina pienezza. I tentennamenti e le contraddizioni di Kant, che riempie di contenuti quella che doveva essere una scienza solo formale (Metafisica dei costumi), sono la traccia per cogliere l’anelito esistenziale dell’uomo come persona verso la trascendenza. L’Io penso come pura forma, nasconderebbe l’io esistenziale.

 

Quando si parla di trascendenza viene spontaneo pensare al rapporto religioso con Dio. Caracciolo era nato nella provincia veronese in un ambiente cattolico che egli apprezzava, anche se non mancherà di avanzare qualche critica lamentando una eccessiva aderenza a una tradizione che poco teneva conto delle novità.

 

Quando era ancora studente universitario ebbe a scrivere in un appunto qualcosa di molto più rivoluzionario: “Come pensare che Dio non ascolti tutti, quando pregano nell’angoscia della vita, siano essi o maomettani, o buddisti, o cristiani?”.

 

Parlando di Dio si esprimeva ancora in termini antropomorfici, poi, confrontandosi con il pensiero di Heidegger e di Jaspers, ma anche di poeti come ad esempio Leopardi, maturerà la sua concezione della trascendenza, concepita come spazio di Dio o essere o nulla o Altro assoluto.

 

Ci limitiamo a cogliere dalla sua vasta produzione di questo aspetto essenziale del suo pensiero i due scritti, entrambi del 1987, Nulla religioso e imperativo dell’eterno e Leopardi e il nichilismo.

 

Parola, silenzio e rumore si intendono in vari modi. Parlano gli uomini e questo costituisce un tratto fondamentale che li distingue da altre creature; parla anche la natura nel suo splendore come nelle situazioni più scabrose. Parla infine la ginestra che allieta il suolo desertico alle pendici del Vesuvio. D’altra parte la parola quando è illogica, fuori luogo o comunque inopportuna non comunica l’autentico ma è solo rumore. La parola autentica quindi non è in antitesi al silenzio ma al rumore; è nel silenzio che scaturisce e si leva la parola originaria.

 

Leopardi è sempre stato interlocutore privilegiato di un lungo discorso; la pubblicazione dei primi Appunti di bibliografia leopardiana risale al 1947, gli ultimi due saggi: Nulla religioso e imperativo dell’eterno e Leopardi e il nichilismo vedono la luce esattamente quarant’anni dopo. L’uomo nella sua ricerca della verità non si avvale della sola filosofia ma di “ciascuno dei modi in cui si articola il suo esistere”. Poesia e filosofia, “Poìesis e nòesis sono modi diversi del realizzarsi e del dirsi della verità intesa come la verità che instaura il senso e illumina sul senso”.

 

Ci par di capire che la verità profonda del messaggio leopardiano scaturisca quando finalmente il poeta rigetta il freddo intellettualismo derivantegli dalla cultura illuminista, che ben conosceva e che comunque ha avuto il pregio di mostrare i suoi limiti e la necessità di andare oltre.

 

La parola originaria che scaturisce dagli interminati spazi, dai sovrumani silenzi e dalla profondissima quiete dell’Infinito ci dice del “malum mundi diverso dai mala in mundo, anche se concretamente rivelantesi all’interno di questi”. Questa amara constatazione, già peraltro annunciata dai testi biblici: la vanitas del Qohelet e il peccato del mondo dell’evangelista Giovanni, caratterizzano ontologicamente l’umanità, le altre creature viventi e il cosmo intero. Il dolore è per tutti, la noia è degli uomini, il piacere è solo una momentanea attenuazione del dolore.

 

L’uomo che invoca, interroga o agisce nella prassi cerca sempre la giustificazione piena della vita, la pienezza del valore della sua esistenza, in altre parole: la vita eterna. Leopardi non dice espressamente questo; nell’Inno ad Arimane parla di questa divinità del male ma il fatto che la maledice a nome di tutta la creazione significa che “in ciascuna creatura vive e opera l’imperativo ontologico ed etico dell’eterno o – che è lo stesso – del divino”.

 

L’atteggiamento di Caracciolo è quello di uno che cerca e che ha intravvisto qualcosa all’orizzonte, non afferma perentoriamente ma dice che potrebbe essere. Questo spazio del divino non è rifugio o esaltazione mistica, la vita terrena va vissuta nel cammino della conoscenza, nell’agire etico-politico e nell’espressione del sentimento.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Alberto Caracciolo, Teresio Olivelli. Biografia di un martire, La Scuola, Brescia 1947.

Alberto Caracciolo, L’estetica e la religione di Benedetto Croce, Paideia, Arona 1958.

Alberto Caracciolo, Studi jaspersiani, Marzorati, Milano 1958.

Alberto Caracciolo, Religione ed etica, Edizioni di Filosofia, Torino 1967.

Alberto Caracciolo, Nulla religioso e imperativo dell’eterno. Studi di etica e di poetica, Il Melangolo, Genova 2010.

Francesco Favalli, L’orizzonte umano e filosofico di Alberto Caracciolo, Grafiche Stella, Legnago (Vr) 2000.

Giovanni Moretto, Filosofia umana. Itinerario di Alberto Caracciolo, Morcelliana, Brescia 1992.

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