.

home

 

progetto

 

redazione

 

contatti

 

quaderni

 

gbeditoria


.

[ISSN 1974-028X]


RUBRICHE


attualità

.

ambiente

.

arte

.

filosofia & religione

.

storia & sport

.

turismo storico



 

PERIODI


contemporanea

.

moderna

.

medievale

.

antica



 

EXTEMPORANEA


cinema

.

documenti

.

multimedia



 

ARCHIVIO


.

filosofia & religione


N. 118 - Ottobre 2017 (CXLVIII)

LA PARABOLA ESISTENZIALE DI ALBERT CAMUS
IL DIVORZIO DAL MONDO: L’APPARIRE DELL’ASSURDO - parte ii

di Raffaele Pisani

 

Prendendo in considerazione alcune opere successive, il nostro riferimento è a Caligola, Lo straniero e Il mito di Sisifo, notiamo un significativo cambiamento nell’atteggiamento di Camus.

 

Se il senso della tragicità e dell’assurdo già manifestavano la loro presenza nelle opere della sua prima giovinezza, in Nozze dice: «Tutto ciò che esalta la vita ne accresce al tempo stesso l’assurdità», non si può dire tuttavia che ne fossero il motivo dominante, come invece appare in queste che andiamo ora ad analizzare.

 

Nell’opera teatrale Caligola, pubblicata nel 1938 e più volte rimaneggiata, il punto d’inizio è caratterizzato da una morte assurda che, squarciando ogni velo, mostra al giovane imperatore che l’esistenza è insopportabile. Ora che la morte gli ha tolto l’amante e sorella Drusilla, Caligola non è più disposto a continuare nella normalità il gioco della vita. Non è sua intenzione vivere di ricordi e di fantasticherie, li considera vizi che si compiace di non aver mai praticato.

 

Aveva appreso, stando accanto a Drusilla, che tutta la sua ricchezza era su questa terra e ora che ha perso l’amata si accorge di aver perso il mondo intero. Materialmente le cose esistono ancora, ma non hanno più senso, una cosa vale l’altra: «Tutto è sullo stesso piano: la grandezza di Roma e i tuoi attacchi di artrite», dice, rivolto alla sua confidente Caesonia.

 

Il mondo rimane estraneo al suo appello d’amore, il mondo è assurdo: questa è la verità dolorosamente appresa da Caligola, che ora si appresta ad annunciare al mondo. Lo fa portando alle estreme conseguenze l’assurdo stesso. Obbliga senatorie e patrizi a compiere servizi umilianti e dispensa condanne secondo il suo capriccio. Ad un banchetto, con un apparente buonumore, annuncia la condanna a morte di un cavaliere e, prevenendo le domande dei commensali, dice: «Voi avete finito per comprendere che non è necessario aver fatto qualche cosa per morire».

 

Paradossalmente però il capriccio del potente riveste la necessaria funzione pedagogica di far conoscere fino in fondo l’assurdo. Proprio perché è lui l’imperatore e possiede una libertà e un potere smisurati, agisce per così dire da catalizzatore, velocizzando e completando una situazione già virtualmente esistente. Caligola non crea l’assurdo, è la morte che vanificando il suo appello all’unione glielo rivela, egli fa comprendere di essere il caso particolare di una legge universale che deve essere esplicitata.

 

L’estraneità del mondo è il tema di fondo che unisce Caligola a Lo straniero (1942) e tuttavia dispone i due personaggi su posizioni divergenti quanto al loro agire: si parla di un attivismo forsennato per il primo e di un quietismo rassegnato che caratterizza invece il protagonista de Lo straniero, il signor Meursault.

 

Caligola vuole eliminare il mondo, colpevole di essergli estraneo, Meursault è eliminato dal mondo perché è ad esso estraneo, è al di fuori delle convenzioni della società nella quale vive, non sa stare al gioco e per questo viene condannato.

 

Per la verità Meursault, fino al momento dell’arresto, vive la sua esistenza in armonia con la natura e con gli esseri umani che gli stanno intorno. La morte della madre, alla quale a suo modo voleva bene, non lo scuote più di tanto, non piange e non si sente in dovere di darne spiegazione. Si preoccupa piuttosto degli aspetti puramente pratici connessi con l’evento: congedo per lutto familiare, tempo necessario per raggiungere la defunta madre all’ospizio che distava ottanta chilometri da Algeri, dove egli risiedeva. Durante il tragitto del corteo funebre la sua principale preoccupazione sembra essere il sole, che comincia picchiare forte.

 

Il giorno dopo si volta pagina, Meursault si reca presso uno stabilimento balneare, vuole rituffarsi nell’acqua come nella vita; ci riesce, incontra per caso Marie Cadorna, una ex collega di lavoro per la quale in passato aveva avuto una certa attrazione; bagni, sole, poi un film comico e infine un rapporto amoroso.

 

Segue un incontro casuale con Raymond, un tipo poco raccomandabile, uno sfruttatore di donne – a detta dei vicini – ma Meursault non lo disprezza né lo evita, stringe anzi con lui una sorta di amicizia; sempre il caso lo porta ad accettare l’invito di passare una domenica in un capanno in riva al mare. Masson, il proprietario del capanno, la moglie, Meursault, Marie e Raymond vivono una bella giornata: sole, mare compagnia, cibi appetitosi. Poi la rissa per una vecchia ruggine tra Raymond e un arabo, fratello della sua ex amante, e la pistola finita nelle mani di Meursault.

 

Il sole implacabile, il caldo opprimente, il luccichio di una lama di coltello e il sudore che scendendo sulle sopracciglia appanna la vista portano Meursault ad estrarre la pistola e a sparare ripetutamente. L’arresto, il processo per omicidio, gli ingenui tentativi dei suoi amici di poter dire qualcosa a suo favore non evitano la condanna capitale, secondo il costume francese dell’epoca, con l’uso della ghigliottina.

 

La fine del romanzo vede il protagonista abbandonato «alla tenera indifferenza del mondo». Quale significato si debba attribuire a questa frase, simile ad un’espressione de Il rovescio e il diritto quando si accenna alla indifferenza e tranquillità di ciò che non muore?

 

Se per l’uomo il problema fondamentale è vivere o morire, ciò che è destinato a perdurare risulta tranquillo e indifferente. Morire sarebbe quindi un tornare allo stato elementare al di fuori del circuito: vita-assurdo-morte.

 

Ne Il mito di Sisifo, un saggio filosofico maturato tre il 1936 e il 1940 e steso in forma definitiva solo nel 1941, l’autore si propone di presentare il problema dell’assurdo in modo sistematico e oggettivo, anche se il coinvolgimento personale risulta fuori dubbio e il parlare in prima persona ne è un’ulteriore conferma.

 

Camus intende distillare l’essenza di quella che egli ritiene «una sensibilità assurda che possiamo trovar diffusa nel secolo» affinché, non più mascherata da sostanze inerti, essa possa apparire nella realtà che le è propria e, una volta conosciutala compiutamente, l’uomo possa agire di conseguenza scegliendo di vivere o di morire.

 

Fin dalle prime righe Camus pone il problema del rapporto tra assurdo e suicidio: « Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia».

 

La routine, métro-bulot-dodo, ci fa vivere in una sorta di torpore che ci fa andare avanti per un’inerzia meccanica, quando la catena si interrompe c’è la presa dolorosa della coscienza dell’assurdo, nessuna meraviglia se la statistica dice che i suicidi aumentano nei giorni delle festività. Anche il passare del tempo è rivelatore dell’assurdo, a trent’anni, ci dice Camus, l’uomo è portato a scoprire il suo destino di morte e a vedere nel tempo il suo peggior nemico.

 

Al un livello più profondo l’assurdo si rivela nella estraneità del modo: «Accorgersi che il mondo è denso, intravedere fino a che punto una pietra sia estranea e per noi irriducibile, con quale intensità la natura, un paesaggio possano negarci. Nel fondo di ogni bellezza sta qualche cosa di inumano, ed ecco che le colline, la dolcezza del cielo, il profilo degli alberi perdono, nello stesso momento, il senso illusorio di cui noi li rivestivamo, più distanti ormai di un paradiso perduto».

 

Se la vita non trova il suo senso, se l’appello umano si infrange contro la muraglia dell’incomprensione di un mondo denso (épais) e impenetrabile, quale deve essere la condotta umana? La scienza si dimostra incapace di togliere i veli e farci conoscere il senso del mondo.

 

Alcuni compiono un salto in una fede consolatoria attuando, a suo dire, un suicidio filosofico, condannabile come il suicidio tout-court, cita come esempio Chestov e Kierkegaard.

 

Se gli Stoici ammettevano il suicidio come mezzo estremo, piuttosto che vivere l’irrazionalità, l’uomo che delinea Camus è uno che non cerca scappatoie è «colui che, senza negarlo, nulla fa per l’eterno. Non che la nostalgia gli sia estranea; ma preferisce il proprio coraggio e il proprio ragionamento. Il primo gli insegna a vivere senza appello e a contentarsi di ciò che ha; il secondo gli fa conoscere i suoi limiti. Sicuro della sua libertà a termine, della sua rivolta senza avvenire e della sua coscienza peritura, l’uomo assurdo corre la sua avventura per tutto il tempo della vita». 



 

 

COLLABORA


scrivi per InStoria



 

EDITORIA


GBe edita e pubblica:

.

- Archeologia e Storia

.

- Architettura

.

- Edizioni d’Arte

.

- Libri fotografici

.

- Poesia

.

- Ristampe Anastatiche

.

- Saggi inediti

.

catalogo

.

pubblica con noi



 

links


 

pubblicità


 

InStoria.it

 


by FreeFind

 

 


[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE]


 

.