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N. 58 - Ottobre 2012 (LXXXIX)

Alba Fucens
Un sito archeologico tutto da scoprire

di Salvina Pizzuoli

 

Non è stato facile, complici le indicazioni stradali inesistenti, ma chiedendo e scrutando, con molta pazienza, si può arrivare a visitare un autentico gioiello archeologico: Alba Fucens, dall’antico nome latino.

A pochi chilometri da Avezzano su uno sperone roccioso sospeso tra la piana di quello che fu il lago del Fucino da una parte e la piana di Magliana e di Tagliacozzo dall’altra, i resti dell’antica colonia riportati alla luce a partire dal secondo dopoguerra dall’Accademia Belgica e dall’Università di Lovanio.

Nell’antico territorio degli Equi, tra i Marsi e i Sabini, in prossimità del Lacus Fucinus, fu fondata dai Romani la colonia di Alba Fucens lungo la via Tiburtina Valeria il cui tracciato ricalcava quello degli antichi tratturi della transumanza, là dove già sorgeva un precedente villaggio. Livio ne attesta la nascita nel 303 a.C. e la troviamo citata in altri scrittori latini come Appiano, Cesare e Cicerone.

La colonia divenne fiorente probabilmente per la sua posizione geografica; fungeva infatti da importante collegamento tra i territori del Sanniti e dei loro alleati, gli Umbri e gli Etruschi, divenendo importante crocevia nei traffici commerciali lungo la direttrice appenninica dell’Italia centrale.

Della sua rilevanza si hanno notizie fino al IV secolo d.C. quando, forse anche a causa del terribile terremoto del 346, ebbe inizio la sua decadenza e il suo parziale abbandono.

Procopio, nel suo scritto sulla guerra gotica del 540 d.C, ci dà notizia di una città quasi del tutto priva di abitanti. Successivamente l’area che aveva alloggiato la felice colonia divenne preda di razzie di materiali lapidei ad opera di Carlo d’Angiò dopo la battaglia di Tagliacozzo per la costruzione di un tempio dedicato a S. Maria della vittoria, degli Orsini per la costruzione della fortezza di Avezzano e della stessa Albe, attorno alla cui rocca si ricostituirà il superstite ed esiguo numero di abitanti per tutto il periodo medioevale fino al nuovo devastante terremoto del 1915.

Mura poderose, quasi interamente conservate, accolgono il visitatore; anticamente la circondavano per circa tre chilometri, larghe quasi tre metri e in alcuni punti anche di più: i grossi blocchi di calcare sono accostati gli uni sugli altri a combaciare a secco; non uno spigolo, non uno spunzone, ma ben levigati per evitare ogni appiglio ad eventuali molesti arrampicatori; maestose e imponenti richiamano alla memoria altre mura dette ciclopiche come quelle di Micene o di Tirinto; niente roccaforti, ma solo quattro porte che si aprono lungo la cinta. Quella settentrionale, l’attuale e visibile porta Fellonica, larga quattro metri, è rinforzata da un bastione di forma quadrangolare su cui è possibile vedere raffigurati dei simboli fallici come se la robustezza e la levigatezza dei massi non fossero state sufficienti a scoraggiare i nemici e i simboli fallici dovessero scongiurare ulteriormente il pericolo con la funzione apotropaica che gli era propria.

Oltre le mura, più avanti, nella piazzetta del paese un ufficio gestito da una cooperativa di benemeriti propone una ricostruzione su plastico, una serie di testi sul sito che nell’Ottocento fu invece molto indagato e studiato fino agli scavi degli anni ’50, foto e vedute aeree e carte, visite guidate.

Il sito archeologico è invece lì, sotto il sole, aperto a tutti. Non una recinzione a proteggere le sue antiche e illustri pietre, non un custode, niente e nessuno. Sembra quasi di profanare tanta vetusta bellezza entrando a camminare ancora per le sue strade o cercando di rintracciare, guida alla mano, i resti della basilica, delle tabernae, delle terme, del macellum o mercato.

Tra i massi che molto dicono agli archeologi e poco ai profani, se non guidati, si individuano chiaramente i lastricati di due grandi strade con gli appositi attraversamenti, due colonne con capitelli che si elevano snelle, un cippo; trascorrendo poi in mezzo ai ruderi si individuano facilmente le terme con le loro strutture sospensive.

In prossimità delle terme un sacello dedicato al culto di Ercole. È qui che la grande statua marmorea del dio, oggi conservata nel museo di Chieti, con parti in bronzo e stucco assisa su un seggio di legno, venne infatti ritrovata in pezzi.

Il culto di Ercole era legato all’attività mercantile e soprattutto alla protezione degli armenti e dei pastori; niente di più congeniale ad un territorio che aveva e avrebbe costruito la sua cultura e la sua ricchezza sulle greggi e sulla transumanza.

Più avanti colpisce per la costruzione imponente e ben conservata l’ingresso principale all’anfiteatro con la sua bella struttura ad arco; dopo averlo attraversato la suggestione continua guardando all’intorno, dal basso, le gradinate incomplete seguendone la circolarità.

Dall’alto lo si può invece abbracciare con lo sguardo dalla collina di S. Pietro che lo sovrasta; qui il respiro di pace e serenità che vi aleggia è tutt’uno con il luogo e con l’antica chiesa romanica omonima che lo occupa; era stata probabilmente un antico tempio pagano come ricordano in parte la struttura laterale e la singolare facciata costituita da una torre mozza con un bel portale e una breve scalinata. L’abside si eleva liscia e bianca su un forte basamento con una bella fascia di archetti che la rifiniscono in alto ornati di teste a rilievo.

Restaurata dopo il devastante terremoto del 1915, l’interno ha perso comunque buona parte dei dipinti romanici e cinquecenteschi che la abbellivano e i soffitti; restaurato invece il bell’ambone, rimasto miracolosamente in piedi, e l’iconostasi di Andrea, un anonimo marmoraro romano, che pare abbia realizzato i decori detti appunto cosmateschi, propri cioè dei cosmati, architetti, scultori e mosaicisti laziali.

Da qui lo sguardo corre tra colline verdeggianti e rocche dirute e i resti del sito archeologico, come se il tempo potesse essere misurato anche visivamente: dal romano al romanico fino all’alto medioevale. 



 

 

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