N. 78 - Giugno 2014
(CIX)
Abd al-Fattah Khalil al-SisI
STORIA DI UN GENERALE DIVENTATO FARAONE
di Filippo Petrocelli
Il nuovo faraone dell’Egitto si
chiama
Abd
al-Fattah
Khalil
al-Sisi.
Proviene
dal
mondo
militare
così
come
gli
ultimi
raìs
Mubarak,
Sadat
e
Nasser
e
sulla
divisa
ha
appuntati
i
gradi
di
generale
supremo
di
corpo
d’armata.
Vanta
studi
strategici
all’estero
–
negli
Usa
e
nel
Regno
Unito
– ed
è
stato
al
vertice
dello SCAP,
il
Consiglio
Supremo
delle
forze
armate
che
ha
traghettato
il
paese
nel
dopo-Mubarak
nonché
ministro
della
Difesa.
Del suo programma si sa poco ma in
ogni
quartiere
o
città
del
paese
campeggia
un
suo
ritratto,
in
un
crescente
culto
della
personalità
che
sta
contagiando
il
paese.
Uomo
molto
prudente,
è
apparso
in
pochi
comizi
elettorali,
disertando
la
maggior
parte
degli
incontri
pubblici
e
coltivando
un’ossessione
maniacale
per
la
privacy.
La sua “incoronazione” è avvenuta
il
28
maggio
attraverso
una
votazione
democratica
sulla
carta
che
lo
ha
fatto
trionfare
con
oltre
il
93%
dei
consensi,
ma
che
ha
sollevato
più
di
qualche
perplessità
e
non
solo
per
il
basso
tasso
di
affluenza
(neanche
il
50%
degli
aventi
diritto
ha
votato).
La situazione di caos e instabilità
in
cui
vive
l’Egitto
contemporaneo
da
oltre
un
anno
e le
pressioni
internazionali
hanno
infatti
fortemente
“favorito”
l’affermazione
del
generale,
diventato
poi
feldemaresciallo
dell’esercito.
In
realtà
più
che
una
sincera
espressione
della
volontà
popolare,
le
votazioni
sono
sembrate
un
plebiscito
imposto,
un
aut-aut
senza
appello.
Gradito agli Stati Uniti e all’Arabia
Saudita,
al-Sisi
ha
avuto
un
ruolo
di
primo
piano
nell’operazione
di
repressione
della
Fratellanza
Musulmana
seguita
al
colpo
di
stato
contro
il
governo
Morsi.
Il
nuovo
faraone
è
diventato
il
salvatore
della
patria,
l’uomo
della
provvidenza,
il
restauratore
dello
stato
di
diritto,
dopo
la
parentesi
islamista
e la
guerra
civile
latente
fra
Fratellanza
e
militari.
Ma
se
di
golpe
si è
trattato,
lui
è
stato
l’eminenza
grigia,
il
mandante
morale
dell’operazione.
Il paradosso è che proprio il partito
islamista
aveva
favorito
la
sua
ascesa
al
vertice
del
Consiglio
Supremo
delle
forze
armate,
preferendolo
a
Tantawi,
troppo
legato
al
vecchio
regime.
L’unico candidato realmente antagonista
di
questa
tornata
elettorale
è
stato
invece
Hamdeen
Sabahi,
nasseriano
di
lungo
corso,
sul
quale
si
sono
coagulate
le
forze
della
sinistra
egiziana,
attraverso
un
fronte
ampio
capace
di
riunire
diverse
forze
politiche,
ma
non
di
“sfondare”
su
un
piano
elettorale,
ottenendo
appena
il
3%
dei
voti.
Il grande assente della competizione
invece
è
stata
proprio
la
Fratellanza
Musulmana
che
aveva
ottenuto
oltre
il
50%
dei
consensi
nelle
precedenti
votazioni
ma
che
ora
è
tornata
nuovamente
illegale
dopo
l’arresto
dei
vertici
dell’organizzazione.
Dopo
i
processi
infatti
sono
arrivate
le
condanne
a
morte
per
molti
membri
del
movimento
islamista
e
questo
è
stato
il
biglietto
da
visita
di Al-Sisi
per
le
presidenziali,
protagonista
di
una
forte
repressione
interna
che
ha
coinvolto
anche
le
forze
protagoniste
della
rivoluzione
di
Piazza Tahrir.
Pugno di ferro, ordine e disciplina,
forti
restrizioni
dei
diritti
civili,
divieto
di
manifestare:
questa
la
politica
del
generale
nel
più
classico
modus
operandi
da
dittatura
militare.
Una scelta che sa di conservazione
e
status
quo,
di
passo
indietro
rispetto
alla
rivoluzione
25
gennaio
del
2011
ma
che
appare
reazionaria
anche
se
confrontata
al
governo
Morsi.
Queste elezioni infondo, non hanno
fatto
altro
che
“benedire”,
che
fornire
legittimità
alla
“democrazia”
limitata
e
controllata
in
vigore
oggi
in
Egitto.
Il più popoloso dei paesi del mondo
arabo
sembra
essere
diventato
un
laboratorio
politico
in
cui
si
ridisegnano
gli
equilibri
della
regione
e si
sperimentano
tattiche
spregiudicate
di
regime
change.
E
questo
processo
sembra
guidato,
o
almeno
controllato,
da
forze
al
di
sopra
del
popolo
egiziano,
a
cui
una
volta
di
più,
è
stato
imposto
un
nuovo
faraone.