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STORIA & SPORT


N. 59 - Novembre 2012 (XC)

Agostino Di Bartolomei
ascesa e declino di un campione vero

di Francesco Agostini

 

È il 30 maggio 1994 e sono passati esattamente dieci anni dalla finale di Coppa dei Campioni che la Roma perdette contro il Liverpool. Agostino Di Bartolomei esce sul terrazzo della sua villa a San Marco (frazione di Castellabate), impugna una Smith & Wesson calibro 38 e si spara un colpo dritto al cuore: è la fine di “Dibba”, capitano ombroso della grande Roma di Nils Liedholm.

 

Il caso all’epoca fece molto scalpore e ci si interrogò spesso sulla natura di un gesto così estremo: si parlò, per esempio, di alcuni debiti che il giocatore aveva contratto e di alcuni prestiti non concessi. Aveva tirato su uno studio assicurativo a Salerno e aveva aperto una scuola calcio a San Marco, perché quello era il suo campo e quella era la sua vita. Ma, oltre a questo, c’erano anche altri fattori che lo portarono al suicidio: in primis l’indifferenza che gli aveva riservato la squadra a cui aveva dato tutto se stesso, ossia la sua Roma. Durante tutti quegli anni nemmeno una chiamata, nemmeno un gesto e questo, più dei debiti, lo aveva fatto scivolare in “quel buco in cui si sentiva chiuso”, come scrisse in una lettera scritta di suo pugno poco prima di morire. Agostino Di Bartolomei si sentiva solo.

 

Nato a Roma l’8 aprile 1955, cresce calcisticamente nel quartiere periferico di Tor Marancia, nell’oratorio San Filippo Neri, all’OMI, per poi approdare nelle giovanili della Roma. Esordisce a soli diciassette anni in uno scialbo Inter-Roma finito zero a zero: quello sarà l’inizio di una luminosa carriera che lo vedrà protagonista assoluto nel campionato italiano. L’anno successivo, nella stagione 1973-1974 arriva il primo goal in serie A contro il Bologna: “Dibba” calcia in rete un cross teso arrivato dalla destra ed esulta per la prima volta.

 

Il tiro è preciso, sul secondo palo e per il portiere dei felsinei è impossibile arrivarci: in panchina l’allenatore Manlio Scopigno capisce di avere fra le mani un talento vero. Di Bartolomei però è ancora troppo giovane e nelle successive tre stagioni gioca solamente 23 partite, trovando poco spazio.

 

La società a quel punto decide di mandarlo in prestito a fare esperienza e lo spedisce a Vicenza dove gioca 33 gare, siglando 4 reti: è l’anno della piena maturazione e del salto di qualità, al termine del quale è finalmente pronto per fare ritorno a Roma.

 

Ad accoglierlo c’è Nils Liedholm che ne sfrutta al meglio la classe e la visione di gioco, posizionandolo a schermo protettivo della difesa: qui Agostino può permettersi anche di andare più lento di tanti altri e di far correre solamente il pallone, cosa che fa egregiamente. Il suo apporto alla Roma di quegli anni è straordinario: gioca moltissimo e tutte le sue prestazioni sono un mix di classe, aggressività e carattere. Batte punizioni e calci di rigore e verso la fine degli anni ’70 arriva anche la fascia di capitano a coronare un sogno: Di Bartolomei prende per mano la sua Roma, finalmente. Inizia il periodo d’oro. Nel 1982 nasce il figlio Luca e l’anno dopo, nel 1983, arriva il secondo scudetto della storia giallorossa e gli interpreti di quella vittoria vengono innalzati a dei dell’Olimpo: lui, Falcao e Bruno Conti appartengono per sempre al mito, eroi di una squadra leggendaria e di un calcio d’altri tempi.

 

Le strade si riempiono di bandiere giallorosse e quando, l’anno dopo, nel 1984, la Roma arriva in finale nella Coppa dei Campioni giocando in casa, tutto sembra presagire una vittoria già scritta. Di fronte c’è il Liverpool e dopo una battaglia durissima arrivano i calci di rigore. Qui accade l’incredibile: Falcao, il giocatore più talentuoso della squadra, si tira indietro rifiutandosi di calciare e Bruno Conti e Ciccio Graziani falliscono miseramente, lasciando che la Coppa voli via in Inghilterra.

 

30 maggio 1984. E’ qui che inizia l’irrefrenabile declino di Agostino Di Bartolomei: cominciano i primi dissapori con i compagni, in primis con Ciccio Graziani con cui non si è mai capito fino in fondo e con il resto della squadra, dalla quale ha avuto sempre rispetto ma mai amicizia. L’anno dopo sulla panchina giallorossa arriva il tecnico Sven Goran Eriksson e Di Bartolomei viene ceduto al Milan, dove gioca complessivamente 88 partite in tre anni, siglando 9 gol. L’ambientamento a Milano è difficile, complice anche la volontà di Agostino di finire la carriera in giallorosso: un sogno che non si realizzerà mai. Dopo il Milan viene ceduto al Cesena e poi alla Salernitana, dove riesce nell’impresa di far tornare la squadra campana in serie B dopo svariati anni e nel 1990 arriva il ritiro dalla carriera agonistica.

 

Segue i mondiali di calcio di quello stesso anno come opinionista RAI e poi più nulla. Di Bartolomei si isola e tiene dentro di se quel dolore che lo porterà alla morte, non riuscendo mai ad esternarlo in nessun modo. La sera prima del fatidico giorno, infatti, nessuno si era accorto di nulla e tutto sembrava essere normale.

 

Dopo la sua fine tragica iniziano ad arrivare le prime dediche rivolte soprattutto all’uomo e in seconda battuta al calciatore: il cantautore Venditti, per esempio, gli dedica la canzone “Tradimento e perdono”, tratta dal fortunato album “Dalla pelle al cuore”, nel 2010 la sua vita viene raccontata nel libro “L’ultima partita” di Giovanni Bianconi e Andrea Salerno e nel 2011 viene girato un documentario, “Undici metri”, di Francesco Del Grosso. Nel 2012 infine, il campo A del centro sportivo Fulvio Bernardini a Trigoria viene intitolato alla sua memoria.

 

Agostino Di Bartolomei lasciò il mondo a soli trentanove anni in silenzio, come era sua consuetudine. Nessuno però potrà mai rimanere senza parole di fronte alla sua classe, alla sua signorilità e al suo ricordo.



 

 

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