N. 20 - Agosto 2009
(LI)
aGNESE VISCONTI
Una storia sbagliata
di
Cristiano Zepponi
La
vicenda
umana
di
Agnese
Visconti
capovolge
un
assioma
tradizionale:
sembra
proprio
che
per
una
volta
la
Letteratura
abbia
concesso
un
prestito
alla
Storia,
e
non
il
contrario.
é
una
pagina,
quindi,
già
di
per
sé
eccezionale.
Quasi
un
risarcimento.
Agnese
Visconti
-
figlia
di
Bernabò
e di
Regina
della
Scala
-
venne
al
mondo
a
Milano,
nel
corso
dell’anno
1363.
Quando
la
fanciulla
viveva
i
suoi
dodici
anni,
il
padre
(“imperioso,
aspro
e
crudele”
secondo
il
biografo
cinquecentesco
Paolo
Giovio)
cominciò
a
organizzarne
il
matrimonio,
badando
soprattutto
–
secondo
protocollo
– a
trarne
il
dovuto
beneficio
politico;
allo
stesso
modo
si
comportò
per
le
altre
nove
figlie
femmine
legittime
(Taddea,
Verde,
Valentina,
Antonia,
Caterina,
Maddalena,
Lucia,
Elisabetta,
Anglesia)
ed
un
numero
imprecisato
d’illegittime.
Agnese,
allora
si
ritrovò
promessa
al
quattordicenne
Francesco
Gonzaga,
figlio
di
Ludovico
II,
terzo
capitano
di
Mantova.
Le
finalità
politiche
erano
evidenti:
guadagnarsi
l’appoggio
dell’influente
casata
che
una
decina
d’anni
prima
aveva
parteggiato
per
il
papato,
e
continuava
a
dare
segni
d’instabilità
nei
confronti
del
biscione,
simbolo
del
potere
visconteo.
Il
matrimonio
fu
celebrato,
probabilmente
nel
corso
del
1380
(qualcuno
suggerisce
piuttosto
nel
1375),
dopo
una
faticosa
trattativa;
la
dote,
fissata
a
50.000
fiorini.
Bernabò
e
Beatrice
regalarono
alla
figlia
in
quell’occasione
un
Libro
delle
Istorie
del
Mondo,
opera
di
Giovanni
di
Benedetto
da
Como.
Agnese
e
Francesco
ebbero
una
sola
figlia,
Alda
(così
chiamata
in
onore
della
nonna,
Alda
d’Este),
che
avrebbe
poi
sposato
Francesco
da
Carrara;
in
compenso,
le
responsabilità
e le
sventure
non
tardarono
a
materializzarsi.
Due
anni
dopo
il
matrimonio,
infatti,
il
giovane
Francesco
dovette
succedere
al
padre
in
qualità
di
capitano
di
Mantova
(il
quarto,
dunque)
e
vicario
imperiale,
sostenuto
dalla
supervisione
di
Luigi
da
Grado,
tutore
fino
alla
maggiore
età.
E
proprio
in
quei
mesi
si
succedettero
calamità
naturali
(terremoti),
epidemiche
(la
peste)
e
militari
(il
tentativo
di
Antonio
della
Scala
d’impadronirsi
della
città).
Per
ultimo,
da
Milano
rimbalzò
la
notizia
del
colpo
di
stato
di
Gian
Galeazzo,
capace
di
confinare
il
vecchio
Bernabò
fuori
dalla
vita
politica
- al
buio
d’una
cella
nel
castello
di
Trezzo,
precisamente,
insieme
ai
figli
Ludovico
e
Rodolfo
- e
poi
d’eliminarlo
d’un
colpo
con
una
mortale
dose
di
veleno.
Agnese,
naturalmente,
soffrì
per
la
morte
del
padre;
e
all’affanno
dell’assenza
si
sommò
lo
sconcerto
ispirato
dalla
condotta
del
marito,
che
–
sull’altare
della
ragione
di
Stato,
ossia
dell’amicizia
del
nuovo
signore
di
Milano
–
sacrificò
la
dignità
d’una
moglie
e
d’una
figlia.
Dunque,
pur
conoscendo
l’avversione
di
Agnese
per
l’usurpatore
del
trono
paterno,
allontanò
dalla
corte
i
fratelli
di
Agnese,
Carlo
e
Ludovico,
precedentemente
accolti
umanamente;
aprì
le
porte
all’ambasciatore
visconteo,
Giorgio
Lampugnani,
che
da
subito
si
premurò
di
riferire
al
suo
signore
i
sentimenti
della
ragazza;
scortò
in
Francia
Valentina,
la
figlia
di
Gian
Galeazzo
promessa
a
Luigi
d’Orleans,
fratello
di
Carlo
VI;
e
soprattutto
proibì
alla
moglie
d’esternare
il
lutto
patito,
e
gl’ingiunse
piuttosto
di
prestarsi
a
banchetti
spensierati.
Il
matrimonio
che
avrebbe
dovuto
fare
le
fortune
delle
due
casate,
insomma,
entrò
presto
in
crisi;
l’ostilità
nei
confronti
del
Visconti
(e
di
conseguenza
del
marito,
in
condizione
di
subordinazione
assoluta)
e
l’incapacità
di
partorire
un
figlio
maschio,
degno
erede
Gonzaga
sarebbero
già
bastate
per
decretarne
il
fallimento.
E a
peggiorare
il
quadro
vanno
aggiunte
le
reiterate
e
spudorate
infedeltà
di
Francesco,
sempre
più
assorbito
dallo
sfarzo
della
sua
corte,
e le
altre
umiliazioni
inflitte
alla
consorte.
Il
conflitto
latente
esplose
nel
corso
del
1390,
in
occasione
di
una
festa
a
palazzo
per
il
carnevale;
allora,
Francesco
– in
presenza,
probabilmente,
del
legato
visconteo
–
propose
un
brindisi
in
onore
di
Gian
Galeazzo,
e
invitò
la
moglie
ad
alzare
con
lui
il
calice.
Agnese
si
rifiutò,
scatenando
le
ire
del
marito,
e
per
di
più
apostrofò
come
“traditore”
il
signore
di
Milano.
Le
speranze
della
donna,
all’epoca,
erano
appuntate
sull’avanzata
degli
eserciti
della
lega
anti-viscontea:
i
Carrara
avevano
appena
ripreso
Padova,
e
contemporaneamente
Verona
era
insorta.
E
per
questo,
pare,
Francesco
–
esasperato
dalla
malcelata
gaiezza
di
Agnese
–
ricorse
a
minacce
di
morte
e
percosse
contro
di
lei.
In
un
quadro
così
desolante,
comparve
d’un
colpo
Antonio
da
Scandiano
(che
qualche
cronista
chiama
“Vincenzo”),
un
affascinante
gentiluomo
particolarmente
noto
tra
le
dame
di
corte,
cui
fu
affidata
da
Francesco
la
tutela
della
moglie,
la
sua
compagnia
e la
sua
scorta.
Il
bel
giovane,
tra
le
altre,
godeva
anche
della
libertà
d’accedere
alla
stanza
da
letto
di
Agnese,
ormai
ventiduenne;
e
così,
fatalmente,
nacque
l’amore
tra
i
due.
Una
passione
così
improvvisa
e
violenta
da
sbaragliare
qualsiasi
genere
di
precauzione,
così
travolgente
da
relegare
la
ragione
di
Stato
in
un
cantuccio
dimenticato.
A
corte,
in
breve,
la
notizia
cominciò
a
circolare:
in
un
ambiente,
è
bene
precisare,
che
rimaneva
profondamente
ostile
alla
Domina
di
Mantova,
e
che
per
una
molteplicità
di
cause
–
l’attitudine
al
pettegolezzo
in
alcuni
casi,
ma
anche
l’infatuazione
per
Antonio,
l’invidia,
e
non
ultimo
il
disprezzo
puro
e
semplice
per
l’irriducibile
signora.
Agnese
dovette
accorgersene.
Da
una
parte,
le
effusioni
dei
due
giovani
amanti
proseguivano
senza
ritegno
alcuno;
dall’altra,
la
ragazza
andò
immalinconendosi
un
poco,
e
cominciò
a
temere
che
la
voce
raggiungesse
l’orecchio
del
libertino
che
gli
faceva
da
marito,
tanto
da
costringere
le
due
assistenti
all’abbigliamento
(Beatrice
di
Ser
Gori
e
Sidonia
di
Pavarolo)
a
giurare
sul
proprio
silenzio.
Ma
comunque,
il
sesto
senso
della
Domina
aveva
visto
giusto.
Il
bell’Antonio
si
lasciò
infatti
coinvolgere
in
un
deprecabile
incidente
diplomatico:
un’inopportuna
rissa
con
alcuni
cremonesi,
sudditi
viscontei.
A
quel
punto,
come
fosse
un
segnale
convenuto,
la
fazione
che
aveva
sempre
guardato
con
ostilità
alla
liaison
tra
i
due
decise
di
muoversi;
il
compito
di
riferire
la
relazione
al
signore
tradito
fu
affidato
alla
bambinaia,
Elisabetta
dè
Combaguti,
che
–
approfittando
dell’assenza
dei
due
amanti,
usciti
a
cavallo
–
raggiunse
Francesco
al
santuario
di
Santa
Maria
delle
Grazie,
ed
espose
la
situazione
Forse,
Francesco
sapeva
già
quanto
la
zelante
bambinaia
s’era
affrettata
a
rivelargli.
Ma
tant’è,
il
Domino
evitò
scenate
furenti,
e
reagì
tutto
sommato
con
compostezza
alla
notizia.
Antonio,
invece,
si
lasciò
prendere
dal
panico,
e
cominciò
a
prospettare
ad
Agnese
una
fuga
da
Mantova,
prima
che
la
donna
lo
dissuadesse:
sarebbe
equivalsa,
in
effetti,
ad
una
confessione.
Allora,
Antonio
si
volse
a
progetti
ben
più
arditi:
nientemeno
che
una
ribellione
al
potere
del
signore
di
Mantova
(e
rivale
in
amore),
per
restituire
la
città
al
governo
repubblicano
tramite
il
supporto
di
alcuni
membri
della
corte
dei
Carrara
e di
Carlo
Visconti,
fratello
dell’amata.
Il
suo
piano
prevedeva
che
i
due
si
unissero
ai
soldati
in
marcia
verso
Verona,
per
lasciare
la
sempre
più
pericolosa
Mantova.
Anche
stavolta,
però,
qualcuno
s’affrettò
a
rivelare
tutto:
fu
il
paggio,
Pierino
da
Bologna,
a
spifferarlo
a
Giovanni
da
Vicenza;
e da
questi
venne
la
notizia
raggiunse
il
Domino,
Francesco,
che
così
scoprì
come
quel
giovanotto,
non
pago
d’insidiare
la
fedeltà
coniugale,
tentava
lo
stesso
con
quella
politica.
Qualcuno,
invece,
sussurrò
che
lo
stesso
Gian
Galeazzo
avesse
provveduto
a
fabbricare
le
prove,
ed a
recapitarle
allo
stesso
capitano
di
Mantova.
Antonio,
dunque,
fu
imprigionato,
per
la
precisione
la
sera
del
27
gennaio
del
1391;
Agnese
subì
lo
stesso
trattamento,
con
il
solo
privilegio
di
ritrovarsi
confinata
nelle
sue
stanze,
nostalgiche
della
passione
d’un
tempo.
Adesso
spettava
a
Francesco
d’attuare
una
precisa
scelta
politica,
rispettando
(o
meno)
le
leggi
della
città
(gli
Statuti
Mantovani),
particolarmente
espliciti
riguardo
la
pena
prevista
per
l’adulterio:
la
pena
di
morte.
Una
scelta
di
tolleranza,
sollecitata
da
alcuni
dei
maggiorenti
della
città
riuniti
in
Consiglio,
e
l’applicazione
rigorosa
della
legge,
che
servisse
come
monito
in
tempi
tanto
agitati,
a
sua
volta
sostenuta
dai
“falchi”
di
corte,
si
disputarono
il
dominio
della
reale
coscienza.
Il
processo,
alfine,
si
fece.
Ma –
per
dare
un
colpo
al
cerchio
ed
uno
alla
botte
–
Francesco
stabilì
che
i
giudici
(Obizzone
dei
Gardesini,
podestà,
e
Giovanni
Della
Capra,
esperto
di
diritto
civile)
e il
cancelliere
(Bartolomeo
de
Bonatti,
notaio)
svolgessero
il
loro
mestiere
a
porte
chiuse,
nel
palazzo
del
Domino,
probabilmente
con
l’intento
di
soffocare
uno
scandalo
di
cui
con
tutta
probabilità
parlava
tutta
Mantova;
ma
riuscendo
soltanto,
in
fondo,
ad
incoraggiare
la
fazione
che
da
allora
seguitò
a
sostenere
che
forse
un
processo
vero
e
proprio
non
c’era
mai
stato,
e la
cattura
con
le
mani
nel
sacco
avesse
costituito
di
per
sé
una
prova
sufficiente
per
corroborare
un
verdetto
già
scritto.
Il 5
febbraio,
alle
10,
cominciò
l’interrogatorio
dei
testimoni.
All’inizio
dame
di
palazzo,
camerari,
il
paggio,
addirittura
la
delatrice
prima
– la
bambinaia
Elisabetta
dè
Combaguti
–
non
seppero
precisare
la
tipologia
dei
rapporti
tra
Agnese
e
Antonio;
ma
poi,
d’un
colpo,
cominciarono
a
sbucare
i
testimoni
d’eccezione.
Una
delle
assistenti
all’abbigliamento
della
Domina,
Sidonia
di
Pavarolo,
ammise
la
tresca;
l’altra,
Beatrice
di
Ser
Gori,
rincarò
la
dose
confermando
gli
assalti
notturni
e
rivelando
anche
il
giuramento
cui
era
stata
costretta
fin’allora
dalla
padrona.
Ma
fu
Antonio,
alla
fine,
il
più
loquace
teste
contro
sé
stesso,
evidentemente
nel
tentativo
di
sobbarcarsi
la
gran
parte
delle
colpe:
il
suo
resoconto
apparve
particolareggiato
e
realistico.
Il
giorno
successivo,
la
sua
amante
fece
lo
stesso.
Poi,
entrambi
lasciarono
scorrere
le
ore,
fino
al
Vespro,
che
il
presidente
aveva
concesso
per
addurre
nuovi
elementi
difensivi.
Sapevano
di
sicuro.
Si
concluse
così
il
“Processus
ac
sententiae
contra
dominam
Agnatem
Vicecomitem
et
Antonium
Scandianum”;
i
due
finirono
“damnatos
mulierem
in
amputazione
capitis
virum
furcis”,
ovvero
l’una
alla
scure,
e
l’altro
alla
forca.
L’esecuzione
fu
fissata
per
il
giorno
dopo
su
precisa
disposizione
del
Domino.
Egli
la
ratificò,
con
grande
sconcerto
tra
i
popolani,
rifiutandosi
quest’ultimo
atto
di
clemenza
e
piegando
di
nuovo
il
capo
di
fronte
alla
maschera
di
sé
stesso.
Comunque
sia,
all’alba
del
7 di
febbraio
dell’anno
1391,
in
un
angolo
dell’orto
del
palazzo,
il
boia
operò;
accanto
–
ironico
protagonismo
del
destino
– ad
una
serra
profumata.
I
corpi
furono
poi
tumulati
senza
segni
distintivi.
La
gran
parte
delle
fonti
riferiscono
che
Francesco,
in
compenso,
si
dimostrò
un
ottimo
governante;
l’anno
seguente,
a
sorpresa,
si
voltò
contro
Gian
Galeazzo
e
aderì
alla
lega
anti-viscontea.
Quanto
alla
figlia
Alda
fu
presto
spedita
lontano,
dagli
zii
estensi
di
Ferrara.
Come
a
dire...
per
il
segno
che
c'è
rimasto
non
ripeterci
quanto
ti
spiace,
oggi
una
lapide
ottocentesca,
sola,
testimonia
quella
storia
sbagliata.