N. 78 - Giugno 2014
(CIX)
AGATOCLE
IL TIRANNO CHE VOLLE FARSI RE - parte xV
di Massimo Manzo
La
precipitosa
fuga
di
Agatocle
era
avvenuta
di
notte,
al
tramonto
delle
Pleiadi,
in
pieno
autunno.
Sfidando
le
condizioni
metereologiche,
di
certo
non
adatte
alla
navigazione,
il
dinasta
era
sbarcato
con
pochi
fedelissimi
sulle
spiagge
della
Sicilia
occidentale
nei
pressi
di
Selinunte
e
ora
attendeva
che
da
Siracusa
arrivassero
rinforzi
via
mare
per
dargli
manforte.
Gli
oligarchici,
nel
frattempo,
avevano
il
controllo
quasi
totale
del
resto
dell’isola,
e a
parte
Siracusa
e
pochi
altri
centri
tutto
l’entroterra
era
saldamente
nelle
loro
mani.
A
corto
di
risorse
e in
posizione
nettamente
sfavorevole
rispetto
ai
suoi
nemici,
Agatocle
decise
di
raccogliere
quante
più
risorse
poteva
chiedendo
aiuto
alla
vicina
Segesta,
alla
quale
era
stato
in
passato
legato
da
un
vincolo
di
alleanza.
I
segestani
gli
opposero
però
un
fermo
rifiuto,
mandandolo
su
tutte
le
furie.
Per
tutta
risposta
il
tiranno
si
vendicò
in
modo
brutale,
prendendo
la
città
con
la
forza
e
radendola
al
suolo
senza
pietà.
Si
trattò
di
una
vera
e
propria
ecatombe,
tra
le
più
terribili
che
il
dinasta
avesse
mai
ordinato.
Tanta
fu
la
rabbia
del
tiranno
che
la
stessa
città,
dopo
essere
stata
ripopolata,
vide
cambiato
il
proprio
nome
in
Diceopoli
(letteralmente
città
giusta).
Diodoro
ci
fornisce
della
vicenda
un
racconto
vivido
e
dettagliato,
affermando
che
oltre
a
saccheggiare
le
case
e i
beni
dei
cittadini
più
ricchi,
Agatocle
ordinò
il
massacro
di
gran
parte
della
popolazione,
vendendo
come
schiavi
i
pochi
superstiti.
Addirittura,
secondo
lo
storico,
riservò
a
molti
di
essi
una
fine
orribile
utilizzando
uno
strumento
simile
al
famigerato
“toro
di
Falaride”.
Tale
marchingegno,
introdotto
quasi
duecento
anni
prima
dal
famigerato
tiranno
di
Agrigento
dal
quale
prese
il
nome,
consisteva
in
un
involucro
cavo
di
bronzo
dalla
forma
taurina
nel
quale
far
entrare
la
vittima.
Sotto
il
toro
veniva
poi
acceso
un
fuoco
per
rendere
il
metallo
incandescente,
causando
la
lenta
e
dolorosissima
morte
del
condannato.
Quando
poi
gli
giunse
la
notizia
dell’uccisione
dei
due
figli,
Agatocle
reagì
in
modo
efferato,
ordinando
a
Pasifilo,
uno
dei
suoi
generali,
di
recarsi
a
Siracusa
e
giustiziare
i
parenti
degli
ufficiali
rimasti
Africa.
Nonostante
questi
atti,
che
oggi
sarebbero
considerati
degni
del
più
severo
Tribunale
Internazionale
per
crimini
di
guerra,
la
posizione
di
Agatocle
non
era
migliorata:
l’esercito
degli
oligarchi
era
troppo
numeroso
e
sfidarlo
in
campo
aperto
equivaleva
ad
un
suicidio.
Persino….
uno
dei
luogotenenti
di
vecchia
data
del
dinasta,
decise
di
passare
dalla
parte
del
nemico
con
le
sue
truppe.
Consapevole
delle
difficoltà,
nel
tentativo
di
salvare
il
salvabile,
Agatocle
giocò
la
carta
della
diplomazia,
proponendo
a
Dinocrate
la
pace.
Avrebbe
lasciato
agli
oligarchi
il
dominio
su
Siracusa,
accontentandosi
di
mantenere
solo
le
città
di e
di
sotto
il
suo
controllo.
Come
previsto,
la
risposta
di
Dinocrate
fu
negativa:
quest’ultimo
sapeva
bene
che
l’unico
modo
per
sbarazzarsi
del
dinasta
era
cacciarlo
dalla
Sicilia,
mentre
una
sua
permanenza,
seppur
minima,
nell’isola,
avrebbe
potuto
rivelarsi
pericolosa.
Il
rifiuto
fu
dunque
giustificato,
ma
rivelò
una
frattura
nel
fronte
oligarchico
tra
chi
era
disposto
ad
accettare
le
condizioni
del
tiranno
(soprattutto
gli
esuli
non
siracusani,
che
si
erano
potuti
ristabilire
senza
troppi
problemi
nelle
loro
città)
e
chi
invece
(i
siracusani)
voleva
chiudere
la
partita
una
volta
per
tutte.
A
causa
di
questi
malumori
sul
fronte
oligarchico
non
ci
fu
un
decisivo
attacco
ad
Agatocle,
ma
una
politica
attendista,
che
nelle
intenzioni
di
Dinocrate
avrebbe
dovuto
logorare
le
forze
del
nemico,
ma
che
in
realtà
dava
al
suo
avversario
ossigeno
e un
vitale
spazio
di
manovra,
militare
e
diplomatico,
per
sperare
in
un
rovesciamento
della
situazione.
Fu
un
errore
strategico
fatale,
che
lo
scaltro
Agatocle
sfruttò
a
pieno
stipulando
un
fondamentale
trattato
con
i
cartaginesi.
In
cambio
di
trecento
talenti
(una
somma
utilissima
per
le
sue
esigenze
di
riarmo)
e
della
fine
delle
interferenze
della
loro
flotta
nelle
acque
di
Siracusa,
il
tiranno
promise
ai
punici
la
Sicilia
occidentale,
ristabilendo
il
vecchio
confine
tra
la
potenza
siracusana
e
quella
cartaginese
segnato
dal
fiume
Alico.
Dal
canto
loro,
con
spirito
pragmatico,
i
punici
accettarono,
dato
che
il
loro
interesse
primario
era
proprio
il
mantenimento
di
centri
come
Lilibeo
e
Panormo,
essenziali
per
controllare
le
rotte
commerciali
tirreniche
battute
dalla
propria
flotta
mercantile.
La
scelta
si
rivelerà
per
una
volta
lungimirante,
dato
che
da
quel
momento
in
poi,
fino
all’arrivo
dei
romani,
nessuno
li
schioderà
più
dall’ovest
dell’isola.
L’ultima
battaglia
contro
gli
oligarchci
L’inverno
del
306
trascorse
così,
tra
giochi
diplomatici
e
preparativi
bellici,
fino
a
quando,
nella
primavera
del
305,
Agatocle
non
decise
di
marciare
verso
il
nemico
con
soli
cinquemila
fanti
e
ottocento
cavalieri
(a
fronte
dei
venticinquemila
soldati
e
ottomila
cavalieri
di
Dinocrate).
I
due
eserciti
si
scontrarono
in
una
località
dell’entroterra
siciliano
ancora
sconosciuta
agli
storici,
nei
pressi
del
monte
Gorgium,
vicino
all’attuale
Sclafani
Bagni.
Il
tiranno
riuscì
a
reggere
abilmente
l’impatto
degli
avversari
fino
a
quando
duemila
soldati
di
Dinocrate
decisero
di
passare
dalla
sua
parte,
scompaginando
le
fila
degli
oligarchici;
a
quel
punto
la
battaglia
fu
vinta
e
Agatocle
potè
offrire
una
tregua,
promettendo
salva
la
vita
ai
nemici
che
si
fossero
arresi
spontaneamente
consegnando
le
armi.
A
capo
della
delegazione
oligarchica
c’era
Dinocrate,
che
trattò
personalmente
col
tiranno.
Appena
gli
sconfitti
si
presentarono
disarmati,
però,
il
tiranno
ruppe
la
promessa
e
dopo
averli
circondati
ne
fece
massacrare
ben
quattromila.
Non
fu
però,
come
riferisce
Diodoro,
una
strage
dovuta
alla
conclamata
crudeltà
del
dinasta.
Un
massacro
indicriminato
sarebbe
stato
inutile,
rischiando
di
scatenare
ulteriori
complicazioni.
Il
che
avrebbe
costituito
un
danno,
dato
che
dopo
l’ultima
decisiva
vittoria
l’interesse
di
Agatocle
era
la
pacificazione
della
Sicilia.
Gli
storici
ritengono
che
i
soli
ad
essere
condannati
a
morte
furono
i
siracusani,
ultimi
irriducibili
nemici
del
tiranno
dai
tempi
delle
lotte
contro
Sosistrato,
più
di
dodici
anni
prima.
La
conferma
di
questa
ipotesi
è
data
dal
singolare
destino
di
Dinocrate,
il
quale
non
solo
si
salvò,
ma
fu
addirittura
nominato
luogotenente
di
Agatocle.
La
trasformazione
di
Dinocrate
da
acerrimo
nemico
a
braccio
destro
chiarisce
tutto:
il
capo
degli
oligarchici
tradì
i
suoi,
consegnandoli
ad
Agatocle
con
l’assicurazione
che
non
gli
sarebbe
stato
torto
un
capello.
Con
questo
atto
subdolo
barattò
la
sua
vita
con
quella
dei
suoi
compagni.
Da
quel
momento
in
poi
Dinocrate
divenne
uno
dei
generali
più
fedeli
ad
Agatocle,
accompagnandolo
e
consigliandolo
in
tutte
le
campagne
militari.
Per
una
volta,
il
tiranno
si
dimostrò
riconoscente,
trattando
sempre
bene
il
suo
ex
nemico.
Fianco
a
fianco,
i
due
completarono
con
facilità
l’annessione
pochissime
città
rimaste
indipendenti,
avvalendosi
spesso
di
astuti
tranelli
e
trappole,
come
avvenne
con
la
presa
di
Leontini.
Un
nuovo
regno
Dopo
la
battaglia
del
monte
Gorgium
Agatocle
era
finalmente
diventato
l’indiscusso
padrone
della
Sicilia
greca.
A
partire
da
questo
momento
il
suo
intento
principale,
in
un’isola
ormai
pacificata,
fu
quello
di
porsi
a
capo
di
un
regno
simile
a
quelli
dei
diadochi,
inserendosi
nelle
dinamiche
politiche
e
diplomatiche
delle
nascenti
nazioni
ellenistiche.
A
differenza
di
quanto
avveniva
con
i
suoi
omologhi,
però,
sulle
monete
coniate
dalla
zecca
siracusana
non
venne
mai
raffigurato
il
suo
volto,
ma
solo
il
nome,
insieme
alla
dicitura
“re
di
Sicilia”
e
alla
triscele,
classico
simbolo
dell’isola,
che
diveniva
così
il
suo
sigillo
personale.
Per
cementare
il
suo
legame
con
il
potente
regno
egizio,
il
nuovo
sovrano
sposò
Teossena,
figlia
di
Tolomeo
I,
dalla
quale
ebbe
due
figli.
Si
trattava
della
sua
terza
moglie
e, a
quanto
intuiamo
da
alcune
fonti
storiche,
si
trattò
probabilmente
della
sua
prediletta.
Sempre
nell’ottica
di
Negli
anni
seguenti
il
conflitto
con
Cartagine
fu
archiviato,
permettendo
una
feconda
ripresa
dei
commerci
tra
l’est
e
l’ovest
della
Sicilia,
con
notevoli
benefici
per
la
popolazione
locale.
L’epoca
delle
grandi
guerre
si
era
finalmente
conclusa
e
gli
isolani,
martoriati
da
decenni
di
razzie
e
violenze,
tentavano
faticosamente
di
tornare
alla
normalità.
Tuttavia
Agatocle
non
perse
la
sua
rinomata
passione
per
la
guerra.
Anzi.
Per
fortuna
dei
siciliani,
le
mire
del
nuovo
re
si
concentrarono
sull’Italia
meridionale
e le
coste
adriatiche,
con
varie
spedizioni
contro
il
popolo
dei
Bruzzi
(nell’attuale
Calabria),
attraverso
le
quali
si
intromise
nei
conflitti
tra
le
città
della
Magna
Grecia
e le
popolazioni
locali
con
l’obiettivo
di
espandere
il
suo
dominio.
Nel
far
ciò,
si
destreggiò
con
furbizia
nelle
fitte
reti
della
diplomazia,
sfruttando
al
meglio
la
sua
conoscenza
di
quei
territori
acquisita
quando
da
giovane
aveva
combattuto
come
mercenario
proprio
contro
i
Bruzzi.