N. 77 - Maggio 2014
(CVIII)
AGATOCLE
IL TIRANNO CHE VOLLE FARSI RE - parte xiV
di Massimo Manzo
Mentre
le
navi
cartaginesi
venivano
beffate
dalla
flotta
siracusana
ed
etrusca,
sulla
terraferma
Agatocle
racimolava
un’altra
vittoria
a
danni
degli
agrigentini,
che
ebbe
l’effetto
di
estromettere
definitivamente
Senodoco
dal
potere.
Le
truppe
di
Leptine,
infatti,
dopo
aver
saccheggiato
le
campagne
intorno
ad
Agrigento,
provocarono
gli
agrigentini
alla
battaglia,
spingendoli
ad
uscire
dalla
città.
Lo
scontro
fu
breve
e i
siracusani
non
ebbero
difficoltà
nel
mettere
in
fuga
i
nemici,
che
si
rifugiarono
nuovamente
dentro
le
mura.
Invece
di
prepararsi
per
l’assedio,
Leptine
decise
di
tornare
a
Siracusa,
forse
preoccupato
che
Dinocrate
potesse
accorrere
con
i
suoi.
Gli
esiti
della
sua
incursione
furono
soprattutto
politici:
Senodoco,
ritenuto
responsabile
dell’ennesimo
rovescio
militare,
fu
messo
sotto
processo
e
fuggì
a
Gela,
evitando
così
all’ira
dei
suoi
concittadini.
L'esperienza
autonomista,
portata
avanti
negli
ultimi
anni
dalla
lega
agrigentina
e
animata
da
ideali
da
sempre
presenti
nella
tradizione
delle
poleis
greche,
poteva
dirsi
definitivamente
archiviata.
L’ultimo
nemico
del
dinasta
in
Sicilia
rimaneva
dunque
Dinocrate
con
il
suo
esercito
di
esuli,
che
tuttavia
aveva
obiettivi
molto
diversi
e
sicuramente
meno
nobili
rispetto
a
quelli
di
Senodoco.
Il
fine
di
Dinocrate
era
infatti
la
semplice
presa
del
potere
a
Siracusa
e la
sostituzione
del
partito
agatocleo
con
quello
oligarchico.
Vittorioso
per
terra
e
per
mare,
Agatocle
poteva
prepararsi
a
prendere
il
largo
per
l’Africa,
ma
prima
di
salpare
pensò
bene
di
eliminare
i
concittadini
sospetti
di
essere
vicini
a
Dinocrate,
per
evitare
che
questi
ultimi,
dopo
la
sua
partenza,
potessero
spalleggiarlo
aprendogli
le
porte
di
Siracusa.
A
quanto
ci
riferisce
Diodoro,
l’epurazione
avvenne
durante
un
banchetto:
:”tra
le
piacevolezze
del
bere
egli
[Agatocle]
potè
scoprire,
in
mezzo
a
quelli
che
si
ubriacavano,
quanti
erano
ostili
alla
sua
signoria.
Invitò
separatamente
costoro
a un
nuovo
banchetto,
insieme
con
gli
altri
siracusani
che
avevano
alzato
troppo
la
testa;
erano
cinquecento
persone,
che
egli
fece
circondare
dai
più
indicati
fra
i
suoi
mercenari
e
massacrare
dal
primo
all’ultimo”.
Il
racconto
dello
storico
è
esageratamente
colorito,
ma
ci
illumina
su
alcuni
aspetti
del
carattere
di
Agatocle,
che
viene
descritto
come
un
uomo
“di
indole
pagliaccesca
e
istrionica”
tanto
che
“neppure
nelle
assemblee
si
asteneva
dal
motteggiare
i
presenti
e
dal
fare
il
verso
a
qualcuno
di
loro,
tanto
che
la
massa
scoppiava
a
ridere
più
e
più
volte
come
nello
spettacolo
di
un
imitatore
o di
un
prestigiatore.”
A
differenza
di
altri
tiranni,
Agatocle
fu
sempre
un
autocrate
“popolare”,
che
non
nascondeva
affatto
le
sue
origini
umili,
anzi
se
ne
gloriava,
per
sottolineare
un
rapporto
diretto
con
il
popolo.
Pur
avendo
una
nutrita
guardia
del
corpo,
entrava
in
assemblea
da
solo,
diversamente
dal
tiranno
Dionisio,
dipinto
invece
come
sospettoso
e
diffidente.
Una
volta
salpato
e
giunto
sul
fronte
africano,
presumibilmente
accompagnato
da
un
cospicuo
numero
di
mercenari
etruschi
e
celti,
il
dinasta
si
rese
presto
conto
della
difficile
situazione
in
cui
versava
il
contingente
greco,
trincerato
dentro
le
mura
di
Tunisi
e
decimato
dalle
ultime
pesanti
sconfitte.
Dopo
aver
convocato
un’assemblea
in
armi,
si
convinse
che
l’ultima
speranza
per
i
greci
era
una
battaglia
campale.
I
punici,
superiori
per
numero,
erano
accampati
su
un’altura
a
poche
miglia
di
distanza
e
sembravano
poco
propensi
a
rischiare,
convinti
che
prima
o
poi
i
nemici
avrebbero
ceduto
per
fame.
Abbiamo
ormai
imparato
a
conoscere
l’atteggiamento
del
dinasta
nei
frangenti
disperati.
Confidando
nel
suo
incredibile
intuito
strategico,
egli
riteneva
maggiormente
accettabile
il
rischio
della
battaglia,
anche
se
in
condizioni
di
netta
inferiorità
numerica,
piuttosto
che
la
certezza
di
una
resa
dopo
un
lungo
logoramento.
Quella
volta
però
la
sua
audacia
non
fu
premiata.
I
cataginesi
infatti,
pur
accettando
lo
scontro,
sconfissero
i
greci,
facendo
svanire
così
qualsiasi
speranza
di
continuare
la
campagna
africana.
Le
forze
erano
d’altronde
troppo
sproporzionate:
il
coraggio
e
gli
eroismi
degli
uomini
di
Agatocle
furono
inutili.
La
notte
dopo
la
battaglia
fu
tragica
anche
per
i
cartaginesi,
a
causa
di
un
terribile
incendio
iniziato
nel
loro
accampamento.
A
raccontarcelo
è
sempre
Diodoro,
che
classifica
l’episodio
come
uno
dei
tanti
“vuoti
della
guerra”:
“Dopo
la
vittoria,
i
cartaginesi
di
notte
sacrificavano
agli
dèi
per
ringraziamento
i
più
bei
prigionieri.
Mentre
le
fiamme
divampavano
attorno
alle
vittime
umane,
un
improvviso
colpo
di
vento
appiccò
il
fuoco
al
padiglione
sacro,
che
si
trovava
vicino
all’altare,
e da
questo
lo
propagò
alla
tenda
del
generale
e,
via
via,
a
quelle
contigue
dei
comandanti,
sì
da
generare
sconcerto
e
paura
in
tutto
il
campo
[…]
ben
presto
tutto
l’accampamento
fu
in
fiamme
e
quelli
che
riuscirono
a
venir
fuori
fra
il
tumulto
e le
grida,
andarono
incontro
a un
altro
e
più
grande
pericolo”.
I
libi,
infatti,
che
avevano
disertato
i
ranghi
di
Agatocle,
si
trovavano
nei
pressi
del
campo
punico
e
nella
notte
scambiarono
i
fuggiaschi
per
l’armata
greca.
Il
risultato
fu
una
inutile
carneficina,
che
coinvolse
anche
i
greci.
Questi
ultimi,
a
loro
volta
confusi
da
ciò
che
stava
accadendo,
parteciparono
alla
zuffa,
pensando
di
essere
sotto
attacco.“Nel
corso
della
notte,
mentre
si
disperdevano
in
ogni
direzione
in
preda
a
uno
spaventoso
parapiglia,
restarono
uccisi
più
di
quattromila
uomini”.
La
mattina
seguente,
dopo
gli
ultimi
disastrosi
eventi,
ciò
che
era
rimasto
del
contingente
greco
chiedeva
a
gran
voce
la
fine
delle
ostilità
e il
pagamento
degli
stipendi.
Nell’accampamento
il
clima
non
era
dei
migliori:
serpeggiavano
scontento
e
rabbia.
La
pace
con
i
cartaginesi
a
condizioni
eque
non
era
d’altronde
facile
da
ottenere,
dato
che
le
ultime
sconfitte
erano
state
per
i
greci
eccessivamente
pesanti.
A
questo
punto
Agatocle
temeva
che
i
suoi
soldati
potessero
consegnarlo
al
nemico,
barattandolo
in
cambio
di
una
resa
onorevole.
Decise
perciò
di
salpare
di
nascosto
verso
la
Sicilia
portando
con
sé i
figli
e
pochi
fedelissimi.
Non
sappiamo
con
esattezza
come
andarono
le
cose
date
le
versioni
discordanti
di
Diodoro
e
Giustino.
Secondo
Diodoro
lo
stesso
Arcagato
venne
tenuto
all’oscuro
del
piano,
a
dimostrazione
dei
pessimi
rapporti
tra
il
dinasta
e il
suo
primogenito.
Su
questo
particolare
è
lecito
dubitare,
vista
la
fine
a
cui
andrà
incontro
quest’ultimo.
L’unica
certezza
che
abbiamo
è
che
le
truppe
scoprirono
l’inghippo
e
reagirono
mettendo
sotto
stretta
sorveglianza
il
dinasta.
Poco
tempo
dopo,
però,
nel
campo
scoppiò
un
incredibile
trambusto
che
permise
ad
Agatocle
di
evadere,
abbandonando
per
sempre
l’Africa.
Nella
notte
era
risuonato,
inatteso,
l’ennesimo
allarme
generale:
i
soldati
erano
nel
panico
totale.
Fu
in
questa
confusione
che
Agatocle
riuscì
a
sfuggire
ai
suoi
carcerieri
imbarcandosi
con
pochissimi
uomini
su
un
naviglio.
Arcagato
ed
Eraclio
rimasero
invece
intrappolati
nella
ressa,
finendo
alla
mercé
della
soldataglia.
Entrambi
furono
messi
a
morte.
La
rocambolesca
avventura
africana
del
dinasta
siracusano,
che
per
ben
tre
anni
aveva
fatto
tremare
Cartagine,
finiva
così
nel
sangue
e
nella
tragedia.
Le
truppe
rimaste
in
Africa
nominarono
dei
nuovi
capi
e
trattarono
subito
con
i
punici.
Gli
fu
imposto
di
pagare
un
risarcimento
di
trecento
talenti
e di
abbandonare
tutte
le
città
che
avevano
occupato.
Altri
furono
arruolati
nelle
file
dei
cartaginesi,
che
ingrossarono
così
i
ranghi
dei
propri
mercenari.
I
presidi
che
invece
decisero
di
resistere,
rimanendo
comunque
fedeli
ad
Agatocle,
furono
presi
d’assalto
ed
espugnati.
Su
di
loro
si
riversò
la
vendetta
di
Cartagine:
gli
occupanti
furono
ridotti
in
schiavitù
e i
loro
capi
giustiziati.
Era
il
307
a.C..
Nel
suo
insieme,
il
resoconto
della
guerra
africana
e
delle
sue
imprevedibili
conseguenze
merita
qualche
considerazione,
perché
ci
svela
in
modo
chiarissimo
i
punti
di
forza
e di
debolezza
di
Agatocle;
quelle
caratteristiche,
insomma,
che
lo
distinguono
da
altri
leggendari
conquistatori,
primo
fra
tutti
Alessandro
magno,
o da
politici
lungimiranti
come
Tolomeo
d’Egitto.
Il
carisma,
il
coraggio
e lo
straordinario
intuito
strategico
sono
senza
dubbio
tra
i
maggiori
pregi
del
dinasta
e
gli
permisero
di
uscire
vittorioso
da
una
serie
di
situazioni
quasi
impossibili
sia
in
Sicilia
che
in
Africa.
La
stessa
spedizione
al
di
la
del
mare
era
nata
come
contrattacco,
improvviso
e
rischiosissimo,
per
reagire
all’assedio
di
Siracusa.
I
tre
anni
seguenti,
come
abbiamo
visto,
furono
un
susseguirsi
di
rovesci
e
vittorie,
di
conquiste
e
ritirate.
Un
aspetto
salta
subito
agli
occhi:
fino
a
quando
Agatocle
ebbe
il
controllo
assoluto
della
situazione,
gli
avvenimenti
militari
arrisero
ai
greci;
quando
invece
fu
costretto
ad
allontanarsi
in
Sicilia
per
fronteggiare
la
lega
agrigentina
le
fortune
del
corpo
di
spedizione
declinarono
repentinamente,
risultando
definitivamente
compromesse.
Fu
questa
la
prima
grande
debolezza
di
Agatocle:
l’estrema
fiducia
data
ai
figli,
in
particolare
ad
Arcagato,
decisamente
impreparati,
piuttosto
che
a
comandanti
validi
come
Eumaco,
sprecati
in
missioni
strategicamente
inutili.
La
tendenza
al
familismo
determinò
tragici
errori
nella
conduzione
della
guerra.
In
aggiunta
a
ciò,
il
temperamento
del
dinasta
(almeno
in
questo
frangente)
fu
sempre
quello
dell’avventuriero,
volubile
e
amante
del
rischio,
incapace
di
pianificare
con
pazienza
il
futuro
assetto
politico
delle
terre
che
man
mano
conquistava.
La
superficialità
di
molte
sue
azioni,
come
ad
esempio
l’uccisione
di
Ofella,
lo
rende
diversissimo
da
personaggi
come
Tolomeo
che
negli
stessi
anni
si
stabiliva
in
modo
definitivo
sul
trono
egiziano.
Vi
furono
però
anche
tre
importanti
motivi
“strutturali”
a
cui
è
dovuta
almeno
in
parte
la
disfatta
siracusana.
In
primo
luogo
la
mancanza
di
una
forte
flotta,
paragonabile
a
quella
punica
e in
grado
di
supportare
logisticamente
l’invasione.
Tant’è
vero
che
per
sopperire
a
questo
gap,
lo
stesso
Agatocle
dovette
imbastire
un’alleanza
con
gli
etruschi.
Il
suo
esercito
inoltre,
formato
per
la
maggior
parte
da
mercenari
e
come
tale
sempre
inquieto,
era
per
sua
stessa
natura
incapace
di
accettare
una
strategia
di
consolidamento
e
spinse
il
tiranno
a
continui
e
spesso
controproducenti
scontri
col
nemico.
Non
è
raro
che
nel
corso
del
suo
racconto
Diodoro
usi
l’espressione
“Agatocle
ritenne
che
le
truppe
avevano
bisogno
di
combattere”.
Tradotta,
questa
frase
ha
un
significato
molto
chiaro:
le
continue
richieste
delle
truppe,
sull’orlo
della
ribellione,
costrinsero
a
numerose
azioni
di
guerra
che
avevano
il
solo
scopo
di
racimolare
bottino
e
pagare
gli
stipendi
dei
soldati.
L’ultimo
ostacolo
furono
infine
le
popolazioni
africane
soggette
a
Cartagine,
che
Agatocle
non
riuscì
mai
a
legare
a sé
in
modo
definitivo.
Lo
stesso
identico
guaio
che
avrà
Annibale
con
le
popolazioni
italiche
decenni
dopo,
durante
la
sua
invasione
della
penisola.
Dal
canto
loro
i
cartaginesi,
malgrado
il
trionfo
militare,
ne
uscivano
malconci,
soprattutto
dal
punto
di
vista
economico,
dopo
anni
in
cui
un
esercito
rapace
aveva
devastato
il
loro
florido
territorio.
Ma
la
tenacia
dei
punici
fu
grandissima:
avevano
imbastito
una
resistenza
straordinaria,
riuscendo
a
correggere
col
tempo
gli
errori
commessi
all’inizio.
Non
fu
facile,
specialmente
dopo
le
numerose
battaglie
perse,
la
morte
di
Amilcare
e il
tentativo
di
colpo
di
stato
imbastito
da
Bomilcare.
Nel
complesso
però,
le
istituzioni
ressero
l’urto
e la
perseveranza
fu
alla
fine
premiata.
Ancora
una
volta,
il
paragone
col
comportamento
di
Roma
durante
la
seconda
guerra
punica
è
scontato.
Detto
ciò,
la
spedizione
africana
fu
un
evento
di
portata
storica
straordinaria.
Mai
nessun
greco
aveva
osato
un
azzardo
simile.
E
Agatocle
dimostrò
che
la
potenza
Cartagine
non
era
affatto
invincibile,
fornendo
un
precedente
fondamentale
per
le
future
imprese
di
Attilio
Regolo
e
Scipione.
Ora
il
dinasta
doveva
ricominciare
tutto
d’accapo,
prendere
nuovamente
le
armi
in
Sicilia
per
l’ultima
battaglia
contro
Dinocrate,
da
cui
dipenderà
l’avvenire
suo
e di
Siracusa.