N. 76 - Aprile 2014
(CVII)
AGATOCLE
IL TIRANNO CHE VOLLE FARSI RE - PARTE XIII
di Massimo Manzo
Dopo aver oltrepassato i territori già domati durante la prima spedizione, Eumaco entrò con le sue truppe a Miltine prendendo di sorpresa gli abitanti, ma cadde in un’imboscata, e dopo una furibonda lotta tra le strade della città fu costretto a fuggire subendo una prima dura sconfitta. L’esito inaspettato dell’incursione rese la sua avventura particolarmente difficoltosa, trasformando quella che era partita come una semplice spedizione per fare bottino in una faticosa marcia all’interno di territori impervi lunga decine di chilometri.
Forse
esagerando
con
l’aneddotica,
Diodoro
racconta
che
durante
la
marcia
i
greci
attraversarono
luoghi
sconosciuti,
venendo
a
contatto
con
popolazioni
dalle
abitudini
stranissime.
Tra
questi
c’era
un
intero
paese
in
cui
le
scimmie
erano
considerate
sacre,
come
oggi
le
vacche
tra
gli
induisti.
Alle
scimmie
veniva
consentito
di
popolare
liberamente
le
città
senza
essere
toccate
e
l’uccisione
di
una
di
esse
era
considerata
un
sacrilegio
punito
con
la
morte.
Persino
ai
nuovi
nati
venivano
imposti
nomi
“tratti
per
lo
più
dalle
scimmie,
come
presso
di
noi
dagli
dei”
ricorda
Diodoro.
Possiamo
immaginare
lo
stupore
negli
occhi
dei
greci
di
fronte
a
tali
abitudini.
Presa
con
la
forza
una
di
queste
città,
Eumaco
tornò
in
fretta
verso
la
costa,
temendo
che
il
suo
esercito,
indebolito
dalle
perdite
subite,
potesse
essere
oggetto
di
un
attacco
cartaginese.
Girava
infatti
voce
che
i
punici
stessero
preparando
un’offensiva,
dunque
era
meglio
non
rischiare
ulteriori
disfatte.
A
Cartagine,
in
effetti,
approfittando
dell’assenza
di
Agatocle,
il
Senato
decise
che
era
ora
di
provocare
il
nemico
allo
scontro.
Vennero
create
a
questo
scopo
tre
grandi
armate:
la
prima,
comandata
da
Imilcone,
avrebbe
marciato
sulla
costa,
la
seconda,
agli
ordini
di
Annone,
attraverso
i
territori
intermedi
e
infine
la
terza
verso
l’entroterra.
In
questo
modo
la
folla
di
rifugiati
dentro
le
mura
della
città
sarebbe
stata
arruolata
ingrossando
notevolmente
le
file
puniche.
Dal
punto
di
vista
tattico,
i
greci
sarebbero
stati
costretti
a
scegliere
se
affrontare
i
nemici
separatamente
o se
invece
dividere
anche
loro
le
proprie
forze,
rischiando
l’inferiorità
numerica.
Di
fronte
a
questo
difficile
dilemma
Arcagato
preferì
separare
i
suoi,
forse
spaventato
di
perdere
l’appoggio
degli
alleati
africani
nel
caso
avesse
evacuato
i
presidi
greci
nell’entroterra.
A
quanto
ne
sappiamo,
solo
a
Tunisi
fu
mantenuta
una
guarnigione
consistente.
La
scelta
si
rivelò
però
sbagliata
e
porterà
di
lì a
poco
al
quasi
totale
annientamento
del
corpo
di
spedizione
africano.
Lasciata
al
sicuro
la
città,
le
colonne
cartaginesi,
forti
in
totale
di
ben
trentamila
uomini,
cominciarono
immediatamente
la
marcia,
proprio
mentre
Eumaco
e i
suoi
stavano
ritornando
dalla
loro
sfortunata
incursione
nell’entroterra
e
Arcagato
usciva
da
Tunisi
alla
testa
della
sua
colonna.
I
primi
scontri
furono
fatali
per
i
greci.
Poco
a
sud
della
costa,
Imilcone
aveva
intercettato
Eumaco
attirando
la
sua
armata
in
un
terribile
tranello:
sopravvissero
solo
in
trenta.
Lo
stesso
comandante
siracusano,
uno
dei
migliori
veterani
che
Agatocle
aveva
portato
con
sé
in
Africa,
cadde,
armi
in
pugno,
durante
l’ultimo
disperato
tentativo
di
resistenza.
A
subire
un
destino
simile
a
quello
di
Eumaco
fu
Escrione,
abbattuto
insieme
ai
quattromila
fanti
e
duecento
cavalieri
che
comandava
in
seguito
a
un’imboscata
punica
organizzata
dalla
colonna
di
Annone.
Quando
i
trenta
superstiti
dell’armata
di
Eumaco
raggiunsero
Arcagato,
il
figlio
di
Agatocle
fu
preso
dal
panico:
in
un
frangente
brevissimo
aveva
perduto
il
nerbo
delle
sue
forze,
insieme
a
due
ottimi
generali.
Gli
alleati
africani,
appena
sentirono
cosa
era
successo
decisero
ovviamente
di
abbandonare
qualsiasi
residua
alleanza
con
gli
invasori,
la
cui
avventura
era
praticamente
al
capolinea.
Asserragliato
dentro
le
mura
di
Tunisi,
in
cui
era
tornato
come
una
preda
braccata,
Arcagato
spedì
d’urgenza
dei
messi
in
Sicilia,
sperando
che
Agatocle
giungesse
rapidamente
in
suo
aiuto.
Ma
l’esercito
greco
era
ormai
in
pezzi.
Nel
frattempo,
sul
fronte
siciliano
il
dinasta
aveva
finalmente
spezzato
il
blocco
navale
cartaginese,
con
il
supporto
decisivo
della
flotta
etrusca.
Durante
la
sua
permanenza
nell’isola
infatti,
Agatocle
aveva
preso
contatto
con
degli
emissari
etruschi,
riuscendo
ad
allacciare
con
loro
una
importante
alleanza
in
funzione
antipunica.
Tale
legame
non
avvenne
a
caso,
ma
ebbe
una
precisa
ragione
nei
rapporti
di
forza
allora
esistenti
in
Italia.
In
quegli
anni
infatti,
la
coalizione
di
città
stato
etrusche
aveva
un
forte
interesse
a
trovare
un
accordo
con
i
siracusani
per
bilaciare
i
rapporti
con
Roma,
la
quale
aveva
appena
trovato
una
solida
intesa
con
i
cartaginesi.
Non
conosciamo
i
dettagli
del
patto
tra
il
dinasta
e
gli
etruschi,
possiamo
però
ipotizzare
che,
a
fronte
di
un
dispiegamento
nei
pressi
di
Siracusa
di
diciotto
navi
italiane
e
data
la
situazione
generale
ancora
incerta,
Agatocle
abbia
offerto
un
consistente
supporto
in
denaro
più
che
un
concreto
appoggio
militare.
Dal
punto
di
vista
diplomatico,
il
siracusano
giocò
con
estrema
abilità,
mantenendo
fino
all’ultimo
minuto
il
massimo
riserbo.
Proprio
la
segretezza
permise
alla
flotta
etrusca,
partita
con
ogni
probabilità
da
Tarquinia,
di
penetrare
nella
notte
nei
pressi
del
porto
di
Siracusa,
invisibili
agli
occhi
delle
vedette
puniche.
In
quel
momento
le
diciassette
navi
di
Agatocle
uscirono
allo
scoperto,
facendosi
inseguire
di
proposito
dai
legni
cartaginesi,
che
si
trovarono
così,
ignari,
in
bocca
agli
etruschi.
La
vittoria
del
dinasta
fu
di
gran
lunga
superiore
alle
aspettative:
i
cartaginesi
furono
travolti,
la
rotta
verso
l’Africa
si
spalancò
e
siracusani
si
liberarono
finalmente
dall’embargo
nemico,
che
da
lungo
tempo
aveva
ridotto
la
città
alla
fame.