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N. 75 - Marzo 2014 (CVI)

AGATOCLE
IL TIRANNO CHE VOLLE FARSI RE - PARTE XII

di Massimo Manzo

 

Dopo la morte di Ofella Agatocle decise di iniziare una vasta azione militare ad ovest di Cartagine, impegnando la maggior parte del suo esercito ormai quasi raddoppiato nei numeri.

Nel far ciò, sperava finalmente di imprimere una decisiva svolta alla campagna africana, prendendo possesso di alcune piazzeforti costiere, indispensabili per costituire una linea di collegamenti via mare con la Sicilia.

Fu allora che lo spregiudicato dinasta si auto-incoronò re, cingendosi il capo con un diadema, simbolo inequivocabile di regalità. Evidentemente, come ci informa Diodoro, i contatti diretti avuti con gli epigoni di Alessandro in Africa, tra cui Tolomeo e Ofella, lo avevano spinto a considerarsi a tutti gli effetti l' erede occidentale del macedone, al quale si sentiva idealmente legato da una insaziabile smania di conquista.

Appreso il fallimento della congiura ordita da Bomilcare, probabilmente il siracusano intuiva che con i cartaginesi c'erano pochi margini per trattare. Tanto valeva, allora, sfruttare al massimo il suo potenziale bellico per costruire la sua nuova signoria africana.

Il consolidamento in terra d’Africa era inoltre necessario in vista di un temporaneo ritorno in Sicilia, dove il dinasta intendeva chiudere i conti con la lega agrigentina di Senodoco, rompendo lo stallo politico in cui versava l’isola.

La prima città presa di mira fu Utica, situata in posizione strategica sulla costa tunisina, a pochi chilometri da Cartagine, nei pressi dell'attuale strada che collega Tunisi a Biserta. Fino a qualche tempo prima gli uticensi erano stati alleati di Agatocle, ma gli avevano poi voltato le spalle, appoggiando i punici.

Quella del dinasta fu dunque sia un'azione giustificata da ragioni strategiche che una spedizione punitiva, con la quale avrebbe dimostrato la sua inflessibilità contro i traditori non solo ai diretti interessati, ma soprattutto ai libi, i quali ancora esitavano a schierarsi apertamente con lui.

Già da questa premessa si capisce come Agatocle pianificasse un annientamento completo di Utica e dei suoi abitanti, come conferma Diodoro. Nel leggere il vivido racconto dello storico vengono alla luce da un lato l'estrema crudeltà del siracusano, dall'altra il coraggio degli uticensi, che fino all'ultimo tentarono disperatamente di resistere all'assedio.

Prima di fare breccia nelle mura nemiche Agatocle cercò in tutti i modi di fiaccare il morale degli assediati, costringendo questi ultimi ad uccidere i loro stessi concittadini. Quando le macchine d'assedio greche si avvicinarono alla cinta muraria bersagliandoli con un fitto lancio di frecce infuocate, infatti, i soldati dietro le mura si accorsero che i greci si stavano facendo scudo dei prigionieri catturati nei pressi della città. Furono così costretti ad abbatterli per respingere l'attacco. Fu un momento tragico, tuttavia ebbe l'effetto di moltiplicare il valore e la foga degli uticensi, che, spronati dalla rabbia, impiegarono tutte le loro energie prima di sacrificarsi in difesa della patria.

Ma si rivelò una lotta impari, il cui epilogo scontato furono il saccheggio e le violenze degli assalitori, ai quali fu data in pasto Utica.

La seconda città assaltata da Agatocle fu Hippo Diarrhytus, attuale Biserta. Il fatto che fosse dotata di un efficiente porto la rendeva una preda appetibile e un solido caposaldo per la flotta siracusana. L’occupazione era dunque indispensabile per controllare il canale di Sicilia. Da lì le navi greche si sarebbero mosse più facilmente e i punici avrebbero perso la loro sfera d'influenza nel territorio ad ovest di Cartagine.

La resistenza fu travolta e la città conquistata rapidamente. In merito, Diodoro accenna a una battaglia navale risolutiva; episodio probabile, dato che Agatocle aveva ormai dotato il suo corpo di spedizione di un buon numero di navi.

Alla conquista di Hippo Diarrhytus seguì la costruzione di un “corridoio di sicurezza”, tale da permettere una sicura via di comunicazione con la fortezza di Tunisi e gli altri insediamenti occupati. La conferma ci viene anche da alcuni ritrovamenti archeologici, che dimostrano la presenza di torri difensive e fortini nella zona.

La nuova città diventava insomma un presidio importantissimo per la continuazione della campagna africana.

Non appena ebbe preso questi accorgimenti Agatocle decise di recarsi sul fronte siciliano, per eliminare di persona la minaccia autonomista dell'agrigentino Senodoco. Quest'ultimo, facendo leva sulle mai sopite velleità di indipendenza delle poleis siciliane, aveva raccolto consensi in gran parte dell'isola reclutando un'armata di diecimila uomini a piedi e mille a cavallo.

Dall'altra parte, i generali siracusani Leptine e Demofilo avevano ai loro ordini un esercito di quasi ottomila fanti e milleduecento cavalieri, un misto tra cittadini, mercenari e soldati che venivano dagli insediamenti nei dintorni di Siracusa.

I due comandanti siracusani dimostrarono subito intraprendenza e capacità, uscendo allo scoperto e cercando lo scontro frontale con Senodoco. Compagni d'arme di Agatocle, col quale avevano condiviso numerose campagne militari, Leptine e Demofilo avevano ricevuto piena fiducia dal tiranno, tanto da ricoprire ruoli di spicco durante la prolungata assenza del dinasta in Africa.

La loro era una mossa strategica dettata dall'esperienza, che certo non gli mancava, e non dalla paura.

Anche se in inferiorità numerica, i due sapevano di contare su uomini meglio addestrati, mentre l'esercito della lega agrigentina era un accrocco formato alla bell'e meglio, privo inoltre di una guida chiara.
Senodoco era infatti un politico più che un militare. La sua leadership, se efficace politicamente, poteva rivelarsi inutile sul campo di battaglia.

Consapevoli della loro superiorità strategica e delle contraddizioni dello schieramento nemico i generali siracusani andarono direttamente all’attacco, che si svolse in una località non citata dalle fonti, ma presumibilmente nell'entroterra, a metà strada tra Agrigento e Siracusa.

Lo scontro fu duro ma alla fine si risolse in una completa disfatta per le forze della lega, che lasciarono sul campo millecinquecento uomini. Senodoco riuscì a fuggire tra le mura di Agrigento, ma dopo quella sconfitta perse qualsiasi influenza politica e militare. Insieme all’armata autonomista, crollò anche la fiducia che le poleis nutrivano nella causa della lega, portando molte di esse a riposizionarsi a favore del partito siracusano.

Il principale oppositore di Agatocle rimaneva, ancora una volta, Dinocrate, il quale poteva di nuovo ergersi a campione della libertà dopo il fallimento dell’esperimento di Senodoco. La scaltrezza e la tenacia erano d’altronde indubbie qualità di Dinocrate, che gli avevano permesso di resistere per quasi un decennio al dinasta, anche nel momento in cui sembrava imbattibile.

Sbarcato a Selinunte poco dopo questi avvenimenti, Agatocle cominciò la marcia verso l’entroterra siciliano in vista di un ricongiungimento con le truppe di Demofilo e Leptine, sottomettendo gli insediamenti di dubbia fedeltà o autonomisti. Nei confronti di alcune città usò, com’era suo solito, metodi brutali: a Segesta ed Apollonia ad esempio, la popolazione fu oggetto della sua cieca rabbia.

A Terme il dinasta allontanò il presidio cartaginese senza spargimenti di sangue, mentre a Centuripe un gruppo di oppositori mise a segno un agguato contro il suo l’esercito, che perse un gran numero di uomini, cinquecento secondo le fonti.

Mentre Agatocle e i suoi continuavano nelle loro feroci repressioni, Dinocrate radunava un’altra armata, che per Diodoro contava ben ventimila fanti e milleduecento cavalieri. Non si trattava sicuramente di un esercito di professionisti, ma il numero era tale da impensierire chiunque, tanto più che le abilità militari di Dinocrate erano di gran lunga superiori a quelle di Senodoco.

Messo alle strette e intimorito dalle intenzioni del suo peggior nemico, Agatocle decise di evitare per il momento il contatto, ripiegando saggiamente dentro le mura di Siracusa, la quale continuava ad essere in balìa dell’embargo navale cartaginese.

Arcagato e la fine della campagna Africana

Per tutto il periodo della sua assenza Agatocle aveva nominato come luogotenente in Africa il figlio Arcagato, il quale in meno di un anno vanificherà gli sforzi del padre compromettendo definitivamente il successo della spedizione.

Arrogante e rissoso per natura, Arcagato aveva ereditato tutti i vizi del padre senza tuttavia possederne le doti. Inviso a parte delle truppe, che in alcune occasioni gli si erano rivoltate contro, nel corso delle operazioni militari il rampollo non aveva brillato come stratega. Il carisma paterno lo aveva inevitabilmente oscurato.

Non sappiamo che istruzioni avesse ricevuto Arcagato, ma da come aveva lasciato le cose Agatocle, fortificando i presidi e creando salde vie di comunicazione tra le sue basi, è quasi certa una cosa: non voleva che il figlio prendesse iniziative in sua assenza. Al contrario, le difese gli avrebbero consentito di resistere agevolmente in caso di attacchi punici.

Ma non aveva fatto i conti con il carattere di Arcagato, che in assenza dell’ingombrante figura paterna cercava ora di riscattare la propria reputazione organizzando rischiose offensive.

Per condurre la prima tra queste scelse Eumaco, un capace e valoroso generale siracusano vicino al padre, ordinandogli di marciare verso l’interno con una forza consistente di ottomila soldati appiedati e ottocento cavalieri.

Il compito di Eumaco era sottomettere le numerose tribù, soprattutto numidiche, che popolavano l’entroterra, saccheggiandone le città.

La marcia di Eumaco fu veloce e coronata da successi. La prima tappa fu Toca, attuale Dougga, abitata da numidi, porta d’accesso ai territori interni. In seguito la spedizione toccò la città di Meschela (che la leggenda voleva fosse stata fondata dagli Achei dopo la guerra di Troia) e poi Hippuacra, Acris, tutte espugnate con facilità.

Tra i popoli assoggettati, Diodoro menziona anche un popolo che a dalla carnagione talmente scura da sembrare uguale a quella degli etiopi. Circostanza, questa, che testimonia come i greci fossero arrivati a lambire zone molto distanti dalla costa, abitate da popolazioni di colore.

Nonostante le fonti storiche menzionino solo questi insediamenti il percorso compiuto dall’armata greca è quasi del tutto sconosciuto. Il ritorno di Eumaco alla base si svolse comunque senza intoppi. Il generale era arrivato con un sostanzioso bottino, tanto da spingere Arcagato ad affidargli una nuova missione verso sud, nella speranza di replicare il successo della prima.

Questa volta, però, le cose andarono diversamente.



 

 

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