N. 73 - Gennaio 2014
(CIV)
AGATOCLE
IL TIRANNO CHE VOLLE FARSI RE - PARTE X
di Massimo Manzo
Molto
presto
la
notizia
della
morte
di
Amilcare
giunse
in
Africa,
tra
lo
giubilo
delle
truppe
greche
e la
costernazione
dei
cartaginesi.
La
testa
del
valoroso
generale
punico
fu
inviata
ad
Agatocle,
il
quale
cavalcando
intorno
all’accampamento
a
portata
di
voce
la
mostrò
ai
nemici,
raccontando
per
filo
e
per
segno
la
disfatta
punica
in
Sicilia.
Nonostante
il
dolore
per
la
perdita
di
un
importante
stratega,
però,
i
cartaginesi
stavano
ancora
resistendo
tenacemente
all’invasione
greca.
Anzi,
come
vedremo
meglio
in
seguito,
si
erano
quasi
abituati
alla
presenza
di
Agatocle
sul
loro
territorio,
tanto
da
poter
elaborare
nuove
e
più
efficaci
strategie
per
contrastarlo.
Nel
308
a.C.,
quest’ultimo
dovette
fare
i
conti
per
la
prima
volta
con
una
ribellione
di
parte
delle
sue
truppe.
A
quanto
racconta
Diodoro,
la
scintilla
che
fece
divampare
la
rivolta
fu
un
alterco
tra
un
ufficiale
siracusano
e
Arcagato,
figlio
di
Agatocle.
L’ufficiale,
di
nome
Licisco,
era
un
veterano
che
godeva
di
una
certa
popolarità
tra
le
truppe.
Durante
un
banchetto,
in
preda
all’ubriachezza,
ebbe
l’ardire
di
insultare
Arcagato,
facendo
riferimento
alla
presunta
relazione
tra
questi
e la
matrigna.
In
uno
scatto
d’ira
violento,
il
figlio
del
tiranno
reagì
colpendolo
a
morte
con
una
lancia,
causando
così
la
reazione
dei
soldati.
La
questione
stava
per
prendere
una
piega
decisamente
grave.
Un
gruppo
di
ufficiali,
infatti,
usò
la
vicenda
come
pretesto
per
tentare
un
vero
e
proprio
ammutinamento,
lamentando
ritardi
nel
pagamento
del
soldo
e
minacciando
di
passare
al
nemico.
In
un
primo
momento,
il
dinasta
fu
messo
addirittura
sotto
stretta
sorveglianza,
insieme
al
figlio
e ad
alcuni
componenti
dello
stato
maggiore.
La
situazione
si
aggiustò
solo
quando
Agatocle,
in
uno
dei
suoi
consueti
colpi
di
teatro,
uscì
allo
scoperto
riconciliandosi
con
le
truppe,
sulle
quali
aveva
ancora
un
grande
ascendente.
Diodoro
racconta
bene
la
scena:
“[Agatocle]
vedendo
la
salvezza
appesa
a un
filo,
e
temendo
di
venir
consegnato
al
nemico
per
fare
una
fine
oltraggiosa,
reputò
preferibile
– se
proprio
doveva
soccombere
– di
ricevere
la
morte
dai
suoi
soldati.
Perciò,
dopo
aver
deposto
la
porpora
e
aver
indossato
al
suo
posto
una
veste
modesta,
da
privato
cittadino,
venne
allo
scoperto.
A
quella
mossa
imprevista
si
fece
silenzio;
quando
molta
gente
si
fu
radunata,
Agatocle
parlò
della
situazione
in
modo
acconcio:
ricordò
le
conquiste
già
ottenute
da
lui
e si
disse
pronto
a
morire
se
ai
suoi
commilitoni
fosse
sembrato
utile;
mai,
da
viltà
costretto,
aveva
egli
accettato
di
subire
una
situazione
sbagliata
per
attaccamento
alla
vita.
E,
indicando
in
loro
i
suoi
testimoni,
sguainò
la
spada
come
per
ammazzarsi.
Mentre
stava
per
vibrarsi
il
colpo
l’esercito
levò
un
grido
per
impedirglielo
e da
ogni
parte
sorsero
voci
che
lo
assolvevano
dalle
accuse.
E
poiché
la
truppa
gli
ingiungeva
di
riprendere
la
veste
regale,
piangendo
e
ringraziando
la
folla
Agatocle
indossava
l’ornamento
che
gli
si
addiceva,
mentre
la
truppa
applaudendo
lo
incitava
a
ripristinare
il
suo
rango”.
Qualche
ufficiale
e un
migliaio
di
soldati
decise
comunque
di
passare
ai
punici
abbandonando
l’armata.
L’episodio
è
interessante
e
dimostra
da
un
lato
che
esistevano
dei
malumori
tra
gli
uomini,
oltre
che
una
malcelata
ostilità
per
alcuni
componenti
dello
stato
maggiore
tra
cui
Arcagato,
dall’altro
che
l’autorità
di
Agatocle
era
ancora
forte,
ma
bisognava
dare
una
svolta
decisiva
alla
campagna
militare
perché
non
cominciasse
ad
incrinarsi.
Il
riferimento
alla
“porpora”
e
alla
“veste
regale”,
sottolinea
inoltre
che
il
dinasta
si
comportava
ormai
come
un
vero
e
proprio
sovrano
più
che
come
un
semplice
tiranno.
I
suoi
uomini,
d’altronde,
avevano
accettato
questo
cambiamento.
Un
ultimo
aspetto
da
notare
è
come
i
cartaginesi
fossero
a
conoscenza
di
tali
malumori,
tanto
da
intrattenere
rapporti
con
gli
ufficiali
rivoltosi.
Non
è un
caso
che
questi
ultimi
siano
potuti
passare
senza
problemi
dalla
parte
dei
punici.
Probabilmente
c’erano
stati
dei
tentativi
di
corruzione,
che
cominciavano
ad
avere
degli
effetti.
Subito
dopo
il
fallito
ammutinamento,
forse
anche
per
ricompattare
le
truppe
e
consolidare
il
suo
comando,
Agatocle
decise
di
organizzare
una
fulminea
azione
offensiva
contro
i
cartaginesi.
Lasciò
dunque
un
presidio
dietro
le
mura
di
Tunisi
agli
ordini
di
Arcagato,
uscendo
allo
scoperto
con
un
folto
e
agguerrito
contingente
formato
da
8000
fanti
e
800
cavalieri.
Lo
scopo
era
intercettare
l’armata
punica,
in
quel
momento
impegnata
contro
alcune
tribù
numide
che
avevano
fatto
defezione.
Nel
corso
del
conflitto,
infatti,
i
numidi
erano
sempre
stati
volubili,
appoggiando
ora
i
greci
ora
i
punici
a
seconda
delle
convenienze.
Lo
scontro
fu
molto
duro
e
ancora
una
volta
Agatocle
ebbe
la
meglio,
malgrado
fosse
in
inferiorità
numerica
e la
posizione
occupata
dal
suo
schieramento
fosse
nettamente
sfavorevole
rispetto
a
quella
degli
avversari.
Un
fattore
decisivo
fu,
oltre
all’intuito
strategico
del
siracusano,
la
maggiore
esperienza
dei
greci,
ormai
induriti
dalle
fatiche
della
campagna
africana.
Per
celebrare
la
vittoria
fu
innalzato
un
grande
trofeo,
mentre
ai
soldati
fu
distribuito
il
bottino
razziato
nell’accampamento
nemico.
In
questo
modo,
Agatocle
riuscì
a
sopire
i
malcontenti
esplosi
poco
tempo
prima.
I
mille
prigionieri
greci
che
erano
passati
al
nemico
furono
invece
puniti
in
modo
esemplare,
per
evitare
che
in
futuro
si
verificassero
episodi
simili.
L’alleanza
con
Ofella
Anche
quella
vittoria,
come
quasi
tutti
i
trionfi
ottenuti
dai
greci
in
Africa,
non
fu
decisiva
per
le
sorti
del
conflitto.
Il
quadro
era
anzi
preoccupante
per
Agatocle.
Le
notizie
che
arrivavano
dalla
Sicilia
parlavano
di
una
situazione
confusa
e
rischiosa.
Siracusa
era
minacciata
dalla
lega
agrigentina
e
logorata
dalla
flotta
punica,
mentre
Cartagine
si
ostinava
a
resistere.
Erano
poi
giunte
all’orecchio
del
siracusano
voci
di
un
possibile
golpe
ordito
da
Bormilcare
ai
danni
del
Senato,
che
se
fosse
riuscito
avrebbe
facilitato
delle
trattative.
Ma
non
c’erano
ancora
segnali
di
instabilità
nelle
istituzioni
puniche.
In
più,
come
abbiamo
visto
nel
caso
dei
numidi,
Agatocle
non
si
poteva
fidare
degli
alleati
africani,
ma
solo
delle
sue
forze,
la
cui
consistenza
andava
diminuendo
a
causa
delle
vicissitudini
belliche.
Per
questi
motivi
il
tiranno
decise
di
mandare
un’ambasceria
guidata
da
Ortone
di
Siracusa
al
macedone
Ofella,
che
governava
Cirene
e il
territorio
circostante
per
conto
di
Tolomeo
I,
al
fine
di
proporgli
un’alleanza.
Originario
di
Pella,
Ofella
era
stato
un
alto
ufficiale
di
Alessandro
e
aveva
ricoperto
durante
la
spedizione
asiatica
il
prestigioso
grado
di
“compagno”
del
re.
Apparteneva,
cioè,
a
quel
ristretto
gruppo
di
cavalieri
considerati
“fedelissimi”
al
sovrano.
Alla
morte
di
Alessandro,
nel
323,
cominciarono
le
guerre
tra
i
diadochi
per
la
spartizione
del
suo
immenso
impero
e
Ofella
si
schierò
subito
dalla
parte
di
Tolomeo,
il
quale
riuscì
a
ritagliare
per
sé e
i
suoi
successori
il
ricco
regno
d’Egitto.
Nel
322
a.C.
Tolomeo
assegnò
ad
Ofella
la
città
di
Cirene
e la
regione
ad
ovest
del
regno,
come
compenso
per
i
servigi
che
gli
aveva
reso
durante
il
conflitto.
Da
allora
il
suo
dominio
su
Cirene
era
stato
indiscusso,
tanto
che
la
sua
posizione
sembrava
quasi
quella
di
un
principe
indipendente,
più
che
di
un
governatore.
Ofella
era
un
personaggio
abile
e
coraggioso,
ma
anche
accecato
dall’ambizione.
Le
sue
qualità
gli
avevano
permesso
di
distinguersi
come
comandante
e di
sopravvivere
alle
faide
successive
alla
morte
di
Alessandro,
ma
adesso
cercava
in
tutti
i
modi
di
costruirsi
una
signoria
indipendente
in
Africa,
affrancandosi
da
Tolomeo.
Tra
il
322
e il
309,
egli
cercò
infatti
con
ogni
mezzo
di
guadagnare
una
certa
influenza
in
Grecia,
aspettando
che
gli
si
presentasse
l’occasione
propizia
per
espandere
i
suoi
territori
ad
ovest,
nella
sfera
di
influenza
punica.
Tolomeo
era
consapevole
delle
smanie
di
conquista
potenzialmente
pericolose
del
suo
braccio
destro,
ma a
quanto
ne
sappiamo
non
remò
contro
Ofella,
almeno
fino
al
308.
E
proprio
in
quell’anno
Ortone
raggiunse
Cirene
con
le
proposte
del
suo
padrone.
L'offerta
che
Agatocle
metteva
sul
piatto
era
allettante.
In
cambio
di
un
consistente
aiuto
militare,
ad
Ofella
era
stato
promesso
tutto
il
territorio
della
Libia.
Agatocle,
garantiva
Ortone,
non
desiderava
niente
per
sé
in
Africa
a
parte
la
distruzione
di
Cartagine.
Era
stata
la
necessità
ad
aver
spinto
il
siracusano
sull’altra
sponda
del
Mediterraneo,
non
il
desiderio
di
conquista.
Al
contrario,
gli
interessi
di
Agatocle
erano
il
dominio
assoluto
della
Sicilia
e
dell’Italia
del
sud.
A
queste
parole,
il
macedone
rispose
in
modo
entusiasta.
Se
l’avesse
aiutato
a
eliminare
Cartagine,
lui
e
Agatocle
avrebbero
potuto
costituire
due
regni
indipendenti
e
per
giunta
alleati.
I
due
strateghi
sancirono
dunque
formalmente
l’alleanza.