N. 68 - Agosto 2013
(XCIX)
AGATOCLE
IL TIRANNO CHE VOLLE FARSI RE - PARTE V
di Massimo Manzo
La
spedizione
di
Agatocle
in
Africa
fu
uno
dei
momenti
più
avvincenti
del
lungo
scontro
tra
Siracusa
e
Cartagine.
Nel
corso
dei
decenni,
infatti,
il
campo
di
battaglia
solcato
da
mille
eserciti
era
stato
sempre
il
suolo
siciliano
e
mai
un
greco
aveva
osato
invadere
le
coste
africane.
La
scelta
del
tiranno,
seppur
dettata
dalla
cocente
sconfitta
sulle
rive
del
fiume
Imera,
non
fu
solo
frutto
della
disperazione.
Da
abile
stratega
quale
era,
Agatocle
decise
di
partire
in
armi
per
l’Africa
nel
tentativo
di
“alleggerire”
il
fronte
siciliano,
dando
respiro
alla
città
di
Siracusa
e
provando
ad
adottare
in
territorio
nemico
la
stessa
politica
che
i
cartaginesi
praticavano
da
decenni
in
Sicilia.
In
altri
termini,
sperava
che
i
popoli
soggetti
a
Cartagine,
come
i
libi
o i
numidi,
i
quali
da
sempre
covavano
velleità
indipendentiste,
passassero
dalla
sua
parte.
Confortati
dalla
presenza
dell’armata
greca,
essi
avrebbero
potuto
sollevarsi
contro
i
punici,
scompaginando
i
domini
africani
dei
cartaginesi.
Non
sappiamo
poi
con
precisione
quale
fosse
l’obiettivo
finale
di
Agatocle.
Dalle
poche
fonti
storiche
a
nostra
disposizione
(soprattutto
Diodoro)
sembra
verosimile
supporre
che
intendesse
usare
i
suoi
eventuali
successi
militari
per
ricominciare
a
trattare
con
le
fazioni
puniche
moderate,
trovando
uno
status
quo
che
gli
garantisse
una
volta
per
tutte
il
dominio
incontrastato
di
buona
parte
della
Sicilia.
Di
certo,
se i
cartaginesi
avessero
subito
dei
rovesci
sul
loro
territorio
il
partito
moderato
sarebbe
tornato
in
auge
e
Agatocle
avrebbe
potuto
sfruttare
al
meglio
le
sue
capacità
diplomatiche.
Ma
torniamo
a
Siracusa,
nei
giorni
immediatamente
precedenti
la
partenza.
La
mèta
e lo
scopo
della
spedizione,
a
detta
di
Diodoro,
furono
tenuti
fino
all’ultimo
nascosti
alle
truppe.
Solo
il
tiranno
(e
probabilmente
lo
stato
maggiore,
di
cui
facevano
parte
anche
i
due
figli
Eraclito
e
Arcagato)
erano
a
conoscenza
della
destinazione
finale.
Agli
altri,
fu
fatto
credere
che
l’obiettivo
era
razziare
i
domini
punici
nella
Sicilia
occidentale,
o
che
al
massimo
ci
si
sarebbe
spinti
verso
la
costa
meridionale
dell’Italia.
Raccogliere
il
denaro
per
un’impresa
simile
non
fu
facile:
Agatocle
dovette
usare
il
pugno
di
ferro,
spogliando
i
templi
cittadini
di
alcuni
dei
loro
tesori
e
ricorrendo
a
prestiti
forzosi.
A
detta
di
Diodoro,
arrivò
al
punto
di
utilizzare
anche
parte
dei
patrimoni
destinati
agli
orfani.
Comunque
sia,
i
suoi
metodi
dovettero
risultare
efficaci,
perché
in
pochissimo
tempo
il
tiranno
riuscì
a
organizzare
una
flotta
di
60
triremi
e
un’armata
numerosa,
composta
da
circa
14.000
uomini.
Tra
essi
c’era
un
po’
di
tutto:
cittadini
siracusani,
mercenari
greci,
celti
e
italici
(tra
cui
sicuramente
etruschi
e
sanniti)
e
persino
schiavi
liberati
per
l’occasione.
L’unica
parte
delle
truppe
rimasta
intatta
dopo
la
battaglia
dell’Imera
era
la
cavalleria
siracusana.
Tutti
i
cavalieri
si
imbarcarono
portando
con
sé
solo
finimenti
e
gualdrappe,
non
essendoci
spazio
per
i
cavalli
sulle
navi.
Per
evitare
di
perdere
il
potere
durante
la
sua
assenza,
Agatocle
dovette
prendere
alcune
precauzioni.
A
Siracusa
lasciò
una
guarnigione
al
comando
del
fratello
Antandro,
conferendo
a
quest’ultimo
i
pieni
poteri.
Diodoro
aggiunge
un
ulteriore
dettaglio:
“separò
inoltre
l’uno
dall’altro
i
parenti,
specialmente
fratelli
da
fratelli
e
padri
da
figli,
lasciando
gli
uni
in
città
gli
altri
portando
con
sé:
era
chiaro
infatti
che
quelli
che
restavano
a
Siracusa,
quand’anche
fossero
ostilissimi
al
dinasta,
per
amore
dei
familiari,
non
avrebbero
mosso
un
dito
contro
Agatocle”.
Insomma
il
tiranno
prendeva
degli
ostaggi.
E
non
avrebbe
esitato
ad
attuare
le
più
feroci
ritorsioni
nei
loro
confronti
se
solo
a
Siracusa
il
suo
potere
avesse
vacillato.
Al
fine
di
eludere
il
controllo
dei
navigli
cartaginesi,
che
pattugliavano
ormai
quasi
tutte
le
coste
siciliane,
Agatocle
attese
il
momento
propizio.
La
flotta
siracusana
uscì
dal
porto
proprio
nel
frangente
in
cui
i
punici
stavano
per
attaccare
delle
navi
frumentarie
dirette
in
città.
I
cartaginesi
credettero
che
fosse
una
sortita
per
difendere
i
mercantili
e
restarono
interdetti
vedendo
che
la
flotta
greca
prendeva
il
largo
a
tutta
velocità.
Confusi,
provarono
ad
inseguire
i
greci,
che
ormai
erano
fuori
pericolo.
La
beffa
per
i
punici
fu
doppia:
Diodoro
racconta
che
essi
non
riuscirono
né a
intercettare
la
flotta
di
Agatocle
né a
bloccare
le
navi
che
trasportavano
i
viveri,
le
quali
giunsero
indenni
a
Siracusa.
Era
il
14
Agosto
del
310
a.C.
ed
il
primissimo
ostacolo
era
stato
fortunosamente
superato.
Ma
il
viaggio
riservò
un’altra
curiosa
sorpresa.
Durante
il
secondo
giorno
di
viaggio
un
ambiguo
presagio
scosse
gli
animi
della
flotta
greca:
in
pieno
giorno,
il
sole
si
eclissò
totalmente,
oscurando
il
cielo.
All’inizio
gli
uomini
credettero
fosse
un
segno
funesto;
gli
dei
li
stavano
avvertendo
che
la
loro
spedizione
sarebbe
finita
in
rovina.
Ma
Agatocle,
con
la
sua
proverbiale
furbizia,
colse
la
palla
al
balzo
per
rovesciare
i
pronostici
divini.
Fece
infatti
girare
tra
le
truppe
una
interpretazione
opposta
del
presagio:
gli
dei,
con
quel
segno,
annunciavano
il
tramonto
di
una
grande
potenza,
Cartagine.
Erano
dunque
i
punici
a
dover
tremare,
non
i
greci!
L’astuta
interpretazione
non
faceva
una
piega,
e
siamo
sicuri
dovette
avere
i
suoi
effetti
positivi
sul
morale
delle
truppe.
La
vicenda
dell’eclissi,
presente
nel
racconto
di
Diodoro
e
Giustino,
non
è
inventata,
anzi,
proprio
grazie
ad
essa
gli
storici
hanno
potuto
datare
con
esattezza
il
giorno
della
partenza
del
tiranno
per
l’Africa.
Il
fenomeno
è
infatti
databile
al
15
agosto
del
310
avanti
Cristo.