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N. 67 - Luglio 2013 (XCVIII)

AGATOCLE
IL TIRANNO CHE VOLLE FARSI RE - PARTE IV

di Massimo Manzo

 

Più che una pace vera e propria, il trattato greco-punico del 313 a.C. fu una sorta di tregua a termine, che preludeva alla continuazione dello scontro mai sopito tra Agatocle e Cartagine, alleata delle città ancora ostili al tiranno.

 

Proprio per questo il siracusano, “sapendo che i cartaginesi, i quali avevano criticato le condizioni di pace stabilite da Amilcare, entro breve tempo gli avrebbero fatto la guerra”, cercò di ritagliarsi in Sicilia una condizione di superiorità politica e militare. Come abbiamo accennato in precedenza, il trattato gli consentiva un’ampia libertà d’azione.

 

Prese dunque a saccheggiare laddove poteva, a tessere alleanze e a esigere tributi per riarmarsi al più presto. Tali accorgimenti gli permisero di costituire un esercito di notevoli dimensioni, composto, secondo Diodoro, non solo da cittadini siracusani e di altre poleis siciliane alleate, ma anche da un numero cospicuo di mercenari. Questi ultimi per lo storico ammontavano più o meno a 13.000, dei quali 10.000 fanti e 3050 cavalieri.

 

L’utilizzo di truppe mercenarie non era una novità; a differenza che nella madrepatria, dove il fenomeno del mercenariato si affermò in modo massiccio solo nel IV secolo, nella travagliata storia dei greci di Sicilia esso fu sempre molto diffuso. Tutti i tiranni fecero infatti largo uso di mercenari. I motivi che spingevano al loro arruolamento erano ovvi: le truppe prezzolate formavano infatti degli autentici “eserciti personali”, indispensabili per cementare il potere autocratico dei tiranni e assecondarne le smanie di conquista.

 

Tra i ranghi dei mercenari si poteva trovare gente proveniente da diversi luoghi: non solo dalla Grecia, ma anche dalla Gallia a esempio, e dall’Italia continentale. Nel corso dei decenni nei quali fu al potere, Agatocle dovette alle truppe prezzolate buona parte dei suoi successi militari. E fu proprio Agatocle ad arruolare i Mamertini, quei feroci mercenari campani che qualche decennio dopo la sua morte, invocando l’aiuto di Roma, fornirono il casus belli per lo scoppio della prima guerra punica.

 

Con l’ausilio del suo esercito dunque, Agatocle tentò di fare “piazza pulita” delle opposizioni a Messana, Tauromenio, Centuripe; e non esitò a commettere stragi, usando l’inganno per stanare dalle città i componenti delle fazioni a lui ostili. Questi ultimi, morto Sosistrato, si raccoglievano intorno al suo braccio destro Dinocrate, esule siracusano da sempre in prima linea nella lotta contro Agatocle.

 

La prima contromossa di Dinocrate fu quella di armare gli esuli scampati alle persecuzioni agatoclee, racimolando un esercito. Con l’aiuto degli esuli cercò di dar fastidio al tiranno nelle poleis che covavano dei risentimenti. I tentativi di “sollevare” alcune città dall’interno, come Centuripe, fallirono però miseramente, non perché le popolazioni amassero Agatocle, ma perché erano evidentemente terrorizzate dalla sua reazione in caso di avventate sommosse. Evidentemente, in quel momento la paura era più grande dell’odio.

 

La seconda mossa di Dinocrate fu di invocare l’aiuto di Cartagine, premendo affinché l’intervento delle forze cartaginesi fosse finalmente massiccio. Dal canto loro, i punici riuscirono in questo frangente a effettuare, con cinquanta navi, solo una sortita nel porto grande di Siracusa, che non ebbe però nessuna conseguenza militare rilevante.

 

Gli armati di Dinocrate si scontrarono per la prima volta in battaglia con le forze del tiranno nei pressi di Galeria, città vicino alla quale si erano accampati. Contro di loro, Agatocle inviò un distaccamento di 5000 soldati, alla testa dei quali mise i due generali Pasifilo e Demofilo. Il resto delle truppe, comandato direttamente dal tiranno, si avvicinò invece al colle Ecnomo (sopra l’odierna Licata) occupato dai cartaginesi, per provocare i punici alla battaglia in campo aperto.

 

Come ci racconta Diodoro, a Galeria furono Pasifilo e Demofilo a trionfare, anche se il combattimento restò per molto tempo incerto “battendosi entrambi gli eserciti con generoso ardore”. Messi in rotta i nemici, Pasifilo e i suoi occuparono Galeria, punendo i suoi cittadini per l’appoggio dato a Dinocrate e agli esuli.

 

Ai piedi del colle Ecnomo, invece, la tattiche di Agatocle non ebbero successo: i cartaginesi, non sentendosi sicuri, rimasero infatti sulla difensiva, evitando lo scontro. Non ci furono quindi spargimenti di sangue. Ma fu il tiranno a sfruttare al meglio tale situazione di stallo; sentendosi comunque vincitore, rientrò con spavalderia a Siracusa abbellendo i templi con i frutti dei suoi saccheggi e le spoglie di guerra, utilizzando al meglio una delle sue armi più efficaci: la propaganda.

 

Il clima politico a Cartagine stava però cambiando. La città era infatti sempre più insofferente nei confronti della strategia adottata da Amilcare.

 

Quest’ultimo, come abbiamo visto in varie occasioni, era un ottimo diplomatico, ma non aveva mai preso in considerazione l’idea di una “guerra totale” contro Agatocle. Era stato, è vero, protagonista di conflitti e battaglie in Sicilia, ma nessuno scontro era stato mai campale. Piuttosto che mettere seriamente a rischio la potenza cartaginese, per sua natura Amilcare preferiva giostrarsi nei burrascosi rapporti tra greci con l’arte del compromesso, traendone il massimo vantaggio.

 

Nonostante la politica di Amilcare avesse all’inizio portato buoni frutti, a distanza di anni Cartagine si era stancata di giocare di rimessa e di essere continuamente soggetta ai capricci dei greci; voleva al contrario chiudere definitivamente la partita con Agatocle, impiegando le sue truppe migliori. Insomma, preparava una guerra in grande stile. E aveva bisogno di generali energici e risoluti per condurla al meglio.

 

Per questi motivi, dopo gli ultimi deludenti risultati, il senato cartaginese sostituì il vecchio generale con un nuovo comandante in capo. In comune con il precedente il nuovo arrivato aveva solo il nome: si trattava infatti di Amilcare figlio di Gisco (indicato comunemente dalle fonti come Amilcare Giscone).

 

Proveniente da una ricca e nobile famiglia, Amilcare Giscone, come si aspettava il senato, cambiò radicalmente approccio rispetto ai problemi siciliani. Senza perder tempo, armò una flotta di 130 triremi e arruolò un esercito imponente, formato, oltre che da mercenari libici ed etruschi, anche da 2000 soldati cartaginesi scelti. Nel complesso, dunque, comprese le truppe già presenti in Sicilia, la sua armata era numericamente superiore a quella di cui disponeva Agatocle.

 

La traversata che portò il generale punico in terra siciliana iniziò malissimo: un fortunale distrusse infatti ben sessanta triremi, oltre a duecento navi che trasportavano viveri. Fu un rovescio molto grave, tanto che a detta di Diodoro “perirono non pochi dei nobili cartaginesi, per i quali la città elevò pubblico lutto”. Per riparare a quello che si profilava come un vero e proprio sfascio, appena sbarcato in Sicilia Amilcare cercò di rimpinguare il suo esercito con una vasta campagna di arruolamenti, coinvolgendo soprattutto gli alleati siciliani che militavano intorno a Dinocrate e i mercenari presenti in loco. In breve, grazie alle sue ottime capacità organizzative, riuscì inoltre a guadagnarsi la fiducia di molte città, le quali fino ad allora, per paura non avevano osato opporsi ad Agatocle.

 

Dal canto suo, il tiranno dovette accorgersi in fretta che gli eventi stavano mutando in peggio. Di fronte all’ennesimo “tradimento” delle poleis fino a poco tempo prima sotto il suo controllo, decise infatti di occupare con pugno di ferro Gela e il territorio circostante, lasciando che altri presidi cadessero in mano cartaginese. La scelta non era casuale: strategicamente, perdere Gela avrebbe significato spalancare al nemico la via per Siracusa. Nel frattempo, anche sul mare le cose si mettevano male. Lì i cartaginesi godevano di una netta superiorità, che permetteva loro di controllare praticamente tutti i punti strategici essenziali. A conferma di ciò, nei pressi dello stretto di Messina la flotta punica aveva infatti catturato venti navi siracusane, assestando un duro colpo alla flotta di Agatocle.

 

La battaglia presso il colle Economo

 

L’esercito greco e quello cartaginese a un certo punto si trovarono accampati l’uno di fronte all’altro. I punici erano attestati sul colle Ecnomo, lo stesso che un anno prima Agatocle non era riuscito a espugnare, mentre i greci avevano messo il campo presso la piazzaforte del Falarione. A separare i due accampamenti scorreva il fiume Imera. Entrambi i luoghi, come precisa Diodoro, erano stati un tempo delle roccaforti di Falaride, il celebre e crudele tiranno agrigentino vissuto nel VI secolo a.C.. Quest’ultimo le aveva costruite durante la sua conquista dell’entroterra siciliano occupando parte del territorio di Gela.

Inizialmente nessuno dei due eserciti se la sentì di attaccare per primo; entrambi preferirono studiare la consistenza del nemico provocando al massimo qualche scaramuccia. A rompere gli indugi fu Agatocle, che dopo aver attirato parte dei punici in un’imboscata presso il fiume, facendo inscenare ai suoi una razzia, attaccò con foga il campo nemico, penetrandovi all’improvviso.

 

Amilcare e i suoi furono presi alla sprovvista e si difesero con coraggio, cercando di resistere come meglio potevano alla furia dei greci, che intanto gli piombavano addosso senza sosta. Questo fu certamente uno dei momenti decisivi della battaglia, nonché uno dei più violenti. Entrambe le parti erano consapevoli che da quella lotta sarebbero dipese le sorti della guerra. Per darci un’idea della furia dei combattimenti Diodoro racconta che il fossato dell’accampamento punico si riempì rapidamente di cadaveri, “infatti da un lato la nobiltà cartaginese, vedendo che l’accampamento veniva preso, accorreva a difenderlo; dall’altro Agatocle e i suoi, incoraggiati dal vantaggio e convinti di risolvere l’intera guerra in uno scontro, incalzavano i barbari”.

 

Il combattimento volse dunque inizialmente a favore di Agatocle, senza dubbio agevolato dal fattore sorpresa. Nel condurre l’attacco il tiranno aveva però commesso un errore che gli costò caro: i suoi uomini, privi della copertura della cavalleria (la quale era rimasta sulle posizioni iniziali) si erano spinti troppo in avanti e non riuscendo a infrangere l’accanita resistenza dei nemici, si trovarono presto in grave pericolo. Notando subito la leggerezza dell’avversario, Amilcare decise di scompaginare le già confuse file dei greci ordinando ai suoi frombolieri delle Baleari di intervenire lanciando dardi a più non posso.

 

Al contributo dei frombolieri si aggiunse l’arrivo inaspettato di rinforzi dal mare, che capovolsero definitivamente l’esito della battaglia. Ripreso coraggio, furono le truppe di Amilcare ad andare all’attacco, inseguendo i nemici ormai stanchi. Quello che era stato uno scontro alla pari si trasformò allora in una orrenda carneficina. La cavalleria punica non diede scampo ai greci, che tentavano in tutti i modi di fuggire attraversando il fiume. Dall’altra parte dell’Imera, i cavalieri di Agatocle guardavano inermi la conclusione di una battaglia alla quale non avevano neppure partecipato. Sul campo rimasero 7000 greci, mentre le perdite puniche non superavano i 500 uomini.

 

Per il tiranno di Siracusa, la battaglia del colle Ecnomo fu un disastro pesantissimo. Eppure, come abbiamo più volte notato, l’uomo non si dava mai completamente per vinto. Dato fuoco all’accampamento, infatti, raccolse i superstiti e si rifugiò a Gela, dove disponeva ancora di truppe e viveri. Contava così di far perdere tempo ai punici, mentre Siracusa guadagnava istanti preziosi per ammassare generi alimentari ed effettuare il raccolto in vista dell’imminente attacco cartaginese.

 

Amilcare provò ad assediare Gela, ma non riuscì a scalfirne le mura e dovette desistere dal suo intento iniziale. Avanzò invece verso Catania, Tauromenio, Lentini, Messina, Abaceno e Camarina. Una dopo l’altra, tutte le città gli spalancavano le porte, accogliendolo come un liberatore.

 

Nel frattempo Agatocle rientrò con i superstiti a Siracusa. La situazione peggiorava di ora in ora e il tiranno si trovava ormai alle corde. Chiunque altro, preso dalla disperazione, avrebbe a quel punto avuto due opportunità, opposte ma ovvie: tentare di stipulare una tregua con Amilcare, o al contrario resistere fino all’ultimo uomo asserragliandosi in città. Agatocle invece, assecondando la sua natura spregiudicata, prese una decisione mai fatta da nessun greco di Sicilia prima di lui: attaccare Cartagine in casa, sbarcando in armi sul suolo africano. Preparata la città all’assedio, vi lasciò un numero di truppe sufficiente a resistere, mentre il nerbo dell’armata, sotto il suo diretto comando, si apprestava a salire sulle navi della flotta per compiere un’impresa al contempo folle e geniale.



 

 

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