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N. 59 - Novembre 2012 (XC)

AGATOCLE
IL TIRANNO CHE VOLLE FARSI RE - Parte II

di Massimo Manzo

 

Pur avendo conquistato il potere in modo a dir poco brutale, nel periodo che va dal 317 al 315 a.C.  Agatocle fu volutamente incline ad accontentare le richieste di gran parte del popolo, ad esempio redistribuendo le terre ai più poveri o ancora la cancellando i debiti che oberavano molti siracusani, rendendoli di fatto succubi delle classi più agiate.

                        

Lo stesso Diodoro, spesso spietato nei suoi giudizi sul tiranno, deve ammettere che in quel momento Agatocle “incontrava un favore straordinario[….]né aveva guardie del corpo e neppure studiò di rendersi inaccessibile, come di solito fanno i tiranni”.

 

Il consenso ottenuto all’interno di Siracusa in questo frangente, reso più agevole dalla cacciata in massa degli oppositori al nuovo regime, permise il formarsi, nella coscienza popolare, dell’immagine di un despota diverso dagli altri, più vicino alle masse anche in ragione della propaganda sulle sue umili origini.

 

L’imbonimento del popolo non era però l’unica attività a cui si dedicava Agatocle. Contemporaneamente veniva dato ossigeno alle dissestate finanze pubbliche siracusane e somme ingenti cominciavano ad essere spese per l’acquisto di armamenti, il potenziamento dell’esercito e la ricostruzione della flotta. Tutto ciò in vista della realizzazione di una più ampia strategia di politica estera, volta alla riaffermazione dell’egemonia siracusana sui territori greci dell’isola e, infine, allo scontro decisivo con Cartagine.

 

A questo punto, per comprendere a pieno le intricate vicende successive, occorre aprire una parentesi che spieghi il ruolo dei principali protagonisti della scena politica siciliana e i loro equilibri di forza.

 

Nel 338 a.C., quasi ventitré anni prima che Agatocle divenisse tiranno, il corinzio Timoleonte, alla guida dell’esercito siracusano, aveva sconfitto i cartaginesi in una memorabile battaglia svoltasi nei pressi del fiume Crimiso, poco distante da Segesta. Il trattato di pace che ne era scaturito inaugurò un nuovo assetto nelle relazioni tra Siracusa, Cartagine e le altre importanti poleis greche di Sicilia.

 

Il confine tra la zona controllata dai cartaginesi e quella greca venne fissato (in questo ritornando ad una ripartizione tradizionale) presso il fiume Alico (attuale Platani in provincia di Agrigento) in prossimità dell’antica città di Eraclea Minoa. A ovest di tale frontiera naturale si sviluppava la cosiddetta epicrazia, ovvero l’insieme dei territori controllati direttamente da Cartagine e dai suoi alleati elimi; a est, invece, la zona greca.

 

All’interno di quest’ultima il trattato non riconosceva una vera e propria egemonia siracusana su tutte le altre poleis; l’influenza diretta di Siracusa non si estendeva infatti a centri come Messana, Gela, Agrigento, Tindari, i quali rimanevano formalmente liberi ed indipendenti. In altri termini dal gruppo delle città obbligate al pagamento di un tributo ai siracusani erano escluse le più potenti.

 

Per far fronte a quella che si profilava come l’ennesima dispersione degli interessi comuni dei greci di Sicilia, dovuta alle solite velleitarie pretese di autonomia proprie di ogni polis, Timoleonte aveva tentato di costituire tra esse una symmachia, cioè un’alleanza politico-militare paritaria, che avrebbe dovuto contemperare i diversi interessi in gioco attraverso un consesso decisorio comune.

 

Nonostante seguisse un ventennio di relativa tranquillità (definito appunto “età timoleontea”) caratterizzato da pace e grande espansione economica, la trovata del corinzio non poteva che rivelarsi un fallimento dal punto di vista politico. Già subito dopo la sua morte, infatti, nessuno dei greci considerava la symmachia come un’opzione credibile per risolvere le controversie e si ritornò ai soliti giochi in cui ogni polis cercava di sopraffare l’altra attraverso alleanze e intese che si facevano e disfacevano continuamente.

Guardando a ciò che stava succedendo nel resto del mondo greco, la symmachia era inoltre una soluzione ormai antistorica, se pensiamo che nello stesso periodo Filippo il macedone inaugurava il primo “stato nazionale” dell’occidente antico superando il modello della polis.   

 

Dall’altra parte, come abbiamo visto raccontando le vicende relative all’ascesa di Agatocle, Cartagine approfittava delle discordie tra greci per intrufolarsi come mediatrice nei loro affari, interessata in realtà a che nessuna fra esse prevalesse sull’altra. Insomma, il debole equilibrio politico tra le poleis  era una garanzia che permise ai cartaginesi di tenere sotto controllo la situazione a loro esclusivo vantaggio.

 

Amilcare dimostrò di essere perfettamente tagliato per il ruolo di mediatore. L’astuto generale sapeva che spesso la forza della persuasione e l’intrigo diplomatico possono essere armi decisive, persino più efficaci di una vittoria esclusivamente militare; per tale motivo preferiva mantenere in Sicilia presidi non troppo numerosi, utilizzando le armate solo come deterrente al fine di costringere gli altri attori politici ad adeguarsi alla linea cartaginese.

 

Questo lo status quo nel momento in cui il tiranno Agatocle si assestava al potere cominciando a pensare alla costruzione del dominio siracusano. Come fino ad ora abbiamo notato, egli amava agire per gradi, mescolando in modo sapiente audacia e spregiudicatezza nelle azioni militari e freddo calcolo nelle questioni politiche. E anche questa volta non si smentì.

 

Oltre al già citato riarmo, infatti, si curò di accogliere in massa a Siracusa tutti gli esuli cacciati dalle città sue nemiche. Si trattava per lo più di democratici, i quali avevano avuto la peggio nell’eterno scontro con i nemici oligarchici. L’asilo concesso da Agatocle non era però un atto di semplice generosità nei loro confronti: un domani gli esiliati avrebbero svolto la funzione di “cavalli di Troia” aiutandolo a controllare politicamente le poleis che man mano avrebbe riconquistato. Insomma sarebbero stati loro ad assicurargli la solidità politica delle eventuali vittorie militari.

 

Il primo bersaglio sul quale Agatocle si lanciò come un rapace fu Messene (attuale Messina), la cui posizione geografica era strategicamente importantissima per il controllo militare ed economico dello Stretto. Chiunque volesse controllare la Sicilia doveva iniziare da lì. Dopo aver tentato inutilmente una veloce sortita notturna sfruttando un punto debole nelle mura, che però fu respinta, il tiranno decise di intraprendere nella primavera del 315/314 una più massiccia campagna militare contro la città, accampandosi nei pressi di essa con le sue truppe. Sperava così di conquistarla in fretta, prima che altri potessero intervenire in sua difesa.

 

Ma anche in questo caso fu sfortunato; i continui assalti, infatti, si infrangevano continuamente contro la barriera invalicabile delle mura di Messene. I difensori, dal canto loro, combattevano con grande ardore, dimostrando di non temere la forza del tiranno. Dentro Messene c’erano anche dei siracusani, scampati al colpo di stato agatocleo, che indubbiamente dovettero avere un ruolo importante nella resistenza. Tra di essi, forse, anche Sosistrato.

 

La prima campagna di Agatocle contro Messene si risolse dunque in un nulla di fatto non solo per l’eroismo dei difensori, ma anche perché, fallito l’assalto “lampo”, intervennero, com’era prevedibile, i  cartaginesi. Attraverso Amilcare il tiranno fu convinto a desistere dai suoi propositi per non aver rispettato l’indipendenza della polis assediata prevista dal trattato del 338.

 

Gli ambienti diplomatici cartaginesi iniziarono a preoccuparsi della situazione siciliana, e probabilmente fu da questo momento che i nemici personali di Amilcare in patria cominciarono a tramare contro di lui, criticando il suo modo di condurre la politica nell’isola.

 

Agatocle, da parte sua, non si sentiva ancora pronto per sfidare apertamente i cartaginesi. Decise quindi di ritirarsi momentaneamente a Siracusa, pronto ad agire attendendo il momento opportuno.



 

 

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