attualità
A proposito di Afghanistan
Storia di una terra agognata dalle
grandi potenze
di Francesco Biscardi
La notizia del ritiro del contingente
americano dall’Afghanistan e il ritorno
al potere dei talebani ha da parecchie
settimane catturato l’attenzione dei
media. Complici le crude immagini dei
disperati che hanno tentato in
extremis di fuggire rincorrendo gli
aerei, financo arrivando ad aggrapparsi
agli stessi, sono sorte polemiche a non
finire. Per comprendere meglio la
complessa situazione attuale, può essere
utile ripercorre la storia di questa
nazione, preda da un paio di secoli
dell’”appetito” delle potenze
occidentali, interessate alle risorse
del suo territorio (petrolio, gas
naturale, ferro, rame) e alla sua
strategica posizione geografia.
L’Afghanistan divenne un emirato
indipendente nel 1823, dopo aver vissuto
un passato burrascoso: nel Medioevo
entrò dapprima a far parte del califfato
arabo-islamico, fu poi occupato dai
mongoli, conquistato, in età moderna,
dai Moghul indiani prima e dai Safavidi
persiani dopo; conobbe infine una
stagione convulsa fra Sette e Ottocento
quando si susseguirono un periodo di
affrancamento da ingerenze straniere e
uno sotto controllo britannico.
A partire dalla seconda metà del XIX,
all’interesse per questa terra della
Gran Bretagna, che dominava in India, si
aggiunse quello della Russia, la quale,
dopo l’infelice conclusione della Guerra
di Crimea del 1864-66, mirava ad
espandersi verso il Golfo Persico.
Queste due potenze avviarono una contesa
volta all’accaparramento del maggior
numero possibile di terre asiatiche; una
“partita”, definita dagli inglesi “Great
Game” (“Grande Gioco”) e dai russi
“Turniry Teney” (“Torneo delle Ombre”),
che investì l’area compresa fra il Medio
Oriente, la penisola indiana e l’Asia
centrale. Fu tuttavia un conflitto di
bassa intensità: una sorta di “guerra
fredda” combattuta prevalentemente con
le armi dello spionaggio, degli accordi
e degli intrighi con i signori locali,
destinata a concludersi nel 1907 quando
i due paesi appianarono ogni divergenza
al fine di dare vita a quella coalizione
anti-tedesca che, insieme con la
Francia, sfocerà nella Triplice Intesa.
La Prima guerra mondiale vide una, per
così dire, “seconda fase” del Grande
Gioco, in quanto furono tedeschi ed
ottomani a raggiungere il territorio
controllato da Kabul per colpire gli
avamposti inglesi in India.
Chiuso il conflitto furono i vertici
della Repubblica di Weimar prima e del
Terzo Reich poi ad investire qui milioni
di marchi e notevoli risorse umane e
materiali. L’attenzione di Berlino verso
l’Afghanistan preoccupò l’Unione
sovietica, la quale, a sua volta, cercò
di ritagliarsi anch’essa un ruolo
privilegiato di partner
economico-strategico con il paese. A
quel punto si inserì nella “contesa”
anche l’Italia fascista: nell’autunno
del 1936 l’ex rappresentante italiano a
Kabul, Ugo Sabetta, suggerì a Galeazzo
Giano, allora Ministro degli Esteri, di
adoperarsi affinché sapesse cogliere
l’opportunità di “fiancheggiare l’azione
tedesca in quel baluardo asiatico per
opporsi ad ogni espansione del
bolscevismo che preme più che mai sui
confini afghani per avere poi agio di
liberamente dilagare e poi diffondersi
in India”. Il 19 novembre venne così
inviato a Kabul un ambasciatore, Piero
Quaroni, per sondare la possibilità di
una intesa con Roma.
L’Afghanistan si legò così sia
economicamente che diplomaticamente a
nazisti, fascisti e sovietici. L’intesa
raggiunta con il patto
Molotov-Ribbentrop dell’agosto 1939 e lo
scoppio del conflitto sembrava potessero
prefigurare per questa terra una futura
spartizione fra tedeschi e russi
similmente a quanto accaduto in Polonia:
nel 1940 Stalin ne pianificò
l’invasione, mentre Hitler, fino al
1943, caldeggiò l’idea che il paese
potesse divenire un primo avamposto in
Asia in funzione anti-britannica.
Tuttavia, il deterioramento dei rapporti
fra i due totalitarismi, l’ambizione del
führer ad assicurare ai tedeschi il loro
“spazio vitale” nell’est-Europa,
l’aggressivo imperialismo nipponico e
l’ingresso in guerra degli Stati Uniti,
garantirono all’Afghanistan una quasi
insperata neutralità e indipendenza.
Terminata la Seconda guerra mondiale ed
iniziata la stagione del Bipolarismo, la
nazione continuò ad essere preda ambita
dei sovietici, a cui ora si
contrapposero gli americani, interessati
a “contenere” l’espansione dell’Urss e
del comunismo. Nel 1947 il presidente
Truman tentò di inserire il paese nel
piano di sicurezza globale, ma lo
shah di Kabul, Mahmud Khan, che
aveva l’anno precedente regolato delle
questioni di confine con altri paesi
asiatici, si allontanò dal blocco
occidentale (i rapporti con gli Usa
resteranno freddi fino al 1963). La
motivazione principale era stata la
nascita, il 14 agosto 1947, del
Pakistan, cosa che cozzava contro il
sogno nazionalista di dare vita ad un
“Grande Afghanistan” nel centro
dell’Asia. Kabul partecipò così alla
guerra indo-pakistana del 1947-49 per il
possesso del Kashmir, e si legò
strettamente a Mosca per una quindicina
di anni.
Alcuni studiosi hanno sostenuto che la
decade 1963-73 fu l’”età dell’oro” che
fece dell’Afghanistan il “giardino del
Medio Oriente”, per il progressivo clima
di distensione e perché venne varata una
Costituzione di stampo democratico che
introduceva un sistema parlamentare,
libere elezioni e riconosceva i diritti
civili alle donne. Tuttavia, questa
immagine idillica è stata parzialmente
sottoposta a revisione critica, in
quanto, dietro il miglioramento delle
condizioni socio-economiche generali,
cresceva la corruzione ai vertici del
paese ed il biennio 1971-73 fu
contrassegnato da una carestia che mieté
fra le 50 e 500.000 mila vittime.
Nel 1973 fu attuato un colpo di stato
sostenuto dall’esercito e dal Partito
democratico del popolo afghano (Pdpa),
che revocò la Costituzione, liquidò il
sistema parlamentare e portò al potere
Mohammed Daud, autoproclamatosi
Presidente della Repubblica afghana.
I buoni rapporti con i sovietici
andarono a deteriorarsi, finché, nel
1977, il capo dello stato non decise di
voltare definitivamente le spalle al suo
partito e all’Urss, a favore di America,
India, Iran ed Arabia Saudita. Tuttavia,
quando Daud avviò trattative con la Nato
per la concessione di basi in terra
afghana, l’Urss e il Pdpa sostennero un
secondo golpe che condusse alla nascita
di una Repubblica democratica, la quale
procedette ad una laicizzazione forzata,
imponendo l’obbligatorietà
dell’istruzione femminile e vietando il
burqa.
Per paradossale che possa sembrare la
condizione di molte donne peggiorò,
perché, nelle famiglie altolocate,
queste divennero soventemente “merce” di
scambio e di trattativa nei matrimoni
combinati, mentre il clima di tensione
che si creò portò alla guerriglia dei
“muyaheddin” (“combattenti di Allah”),
che si richiamarono al jihad
contro gli “infedeli”. La guerra civile
dilagò in tutto il paese, mentre Mosca
inviò dapprima un migliaio di
“consiglieri” militari, fino ad optare
per l’invasione del paese nel 1979. Lo
scontro, che fu sostanzialmente l’ultimo
terreno di confrontazione della Guerra
fredda (con gli americani che
fiancheggiarono la guerriglia contro
l’Armata rossa), durò nove anni. Fra
coloro che accorsero a sostegno dei
ribelli vi era un gruppo di rigidi
fondamentalisti: i talebani, gli
“studenti” (da taleb, “studente”)
formatisi nelle scuole coraniche del
Pakistan, i quali, dopo il ritiro delle
truppe sovietiche, si insediarono
gradualmente al potere.
Fra i “combattenti per la fede” spicca
il nome di Osama Bin Laden, che proprio
in Afghanistan si addestrò e maturò i
suoi propositi. Nato in Arabia Saudita
nel 1957, negli anni Settanta-Ottanta
era un miliardario arabo assiduo
frequentatore dell’Occidente, non
diversamente da tanti altri. Si è
speculato molto sui legami fra questi,
al-Qaeda (cellula terroristica fondata
nel 1988 e capace di ramificarsi con una
struttura tentacolare in vari paesi del
mondo), la CIA e la Casa Bianca, ma in
proposito l’unica cosa certa è che
inizialmente sia lui sia i jihadisti
sauditi e yemeniti ricevettero
notevoli supporti finanziari e logistici
dagli Usa.
L’escalation di Bin Laden da
“pedina” contro i sovietici a “sceicco
del terrore” avvenne gradualmente: nel
1992, accusato di tramare contro
l’Occidente, fu costretto a riparare in
Sudan, dove rimase fino al 1996, anno in
cui dovette nuovamente fuggire per non
cadere in mano statunitense. L’accusa
principale che gli venne mossa mentre
era in Africa era quella di essere stato
l’ideatore di un primo attentato sul
suolo americano: l’esplosione, il 26
febbraio del 1993, di un camion bomba a
New York. Tornò in Afghanistan, dove si
affidò alla protezione del leader
islamico Omar, e da qui lanciò i suoi
messaggi minacciosi agli Usa, mentre
furono attribuiti a lui altri due
attentati: quelli alle ambasciate
americane in Kenya e Tanzania del 1998.
Prima dell’attacco al World Trade
Center, erano arrivati dei moniti a
stare in guardia: il 30 gennaio 2001 un
rappresentante della CIA denunciò
l’esistenza di un micidiale piano
terroristico contro gli States,
seguito, il 6 agosto, da un altro
ragguaglio sui progetti di Bin Laden.
Tuttavia non si dette sufficiente
attenzione a queste voci e l’11
settembre 2001 diverrà una delle
peggiori date della storia americana. Il
presidente Bush annunciò la sua
decisione di combattere il terrorismo
tre giorni dopo, il 14 settembre, dando
avvio alla guerra contro il regime
talebano di Kabul, accusato di
connivenza con al-Qaeda. Due anni dopo
il terreno degli scontri si ampliò a
seguito della denuncia, pronunciata
dallo stesso commander in chief
in occasione del suo discorso sullo
Stato dell’Unione del 29 gennaio 2002,
dell’esistenza di un “axis of evil”, un
“asse del male”, composto da altri tre
nemici dell’America: l’Iran, l’Iraq e la
Corea del Nord. Iniziò così la Seconda
guerra del Golfo contro il regime
iracheno di Saddam Hussein, imputato, in
totale malafede, di possedere armi di
distruzione di massa. Da allora “guerra
preventiva” ed “esportazione della
democrazia” sono state due delle
enunciazioni d’ordine che hanno guidato
la politica estera americana. Tuttavia,
ad oggi, sembra che gli sforzi compiuti
non abbiano prodotto risultati del tutto
soddisfacenti, come provato dalla
recente vicenda afghana e dalle
“primavere arabe” che, a partire dal
2010-11, hanno scosso l’Africa
mediterranea e il Vicino Oriente.
Dubbi ed incertezze dominano le
operazioni che sono state condotte dopo
l’11 settembre. Già in quel frangente
non sono mancate accuse alla Casa Bianca
di aver spinto la CIA ad orchestrare
l’attentato, o di non averlo voluto
prevenire allo scopo pretestuoso di
muovere guerra in Asia per fini
egemonici ed economici. Sono poi seguite
polemiche sulla misteriosa morte di Bin
Laden, ucciso nel 2011 in seguito ad un
poco chiaro blitz nel rifugio
dove si era nascosto in Pakistan, e di
Saddam Hussein, catturato nel 2006 e
condotto non dinnanzi alla Corte di
Giustizia Internazionale, ma affidato ad
un tribunale locale, bramoso di mettere
fine alla sua vita. Mentre è ormai
accertato non solo che il leader
iracheno non possedeva armi di
distruzione di massa, ma anche che gli
stessi vertici governativi americani e
inglesi ne erano al corrente fin
dall’inizio (come dovette ammettere
pubblicamente l’ex premier
britannico Tony Blair nel 2015).
Viste le recenti vicissitudini
geopolitiche mondiali, non possiamo che
guardare al futuro dell’Afghanistan con
un misto di paura e apprensione. In
proposito è interessante riportare
un’affermazione di Andrea duca di York,
terzogenito della regina Elisabetta, il
quale, il 30 novembre del 2010, in
occasione di un colloquio con
l’ambasciatore di Washington in
Kirghizistan, si espresse con queste
parole: “Il Regno Unito, l’Europa
occidentale e gli Stati Uniti sono di
nuovo nel mezzo del Grande Gioco e ci
resteranno fino a quando non avranno
vinto tutto l’oro della puntata”.
Riferimenti bibliografici:
Campanini M., Storia del Medio
Oriente contemporaneo, Il Mulino,
Bologna 2016.
Cardini F., Il califfato e l’Europa.
Dalle crociate all’ISIS: mille anni di
paci e guerre, scambi, alleanze e
massacri, DeAgostini, Novara 2015.
Di Rienzo E., Afghanistan. Il Grande
Gioco, Salerno Editrice, Roma 2014.
Gentile E., La democrazia di Dio. La
religione americana nell’era dell’impero
e del terrore, Laterza, Roma-Bari
2006. |