[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

166 / OTTOBRE 2021 (CXCVII)


attualità

LA CADUTA

CRONACA DEL DISASTRO AFGHANO / PARTE II

di Gian Marco Boellisi

 

Se si vogliono trarre dei bilanci dalla fine di questo conflitto, per le forze di occupazione occidentale appena ritiratesi non è di certo dei migliori. Sono passati esattamente 20 anni, e ciò che si è ottenuto è un paese interamente distrutto, decine di migliaia di morti tra personale militare e civile occidentale, nonché centinaia di migliaia di morti tra la popolazione locale, e un progetto politico costruito sul nulla che al nulla è prontamente ritornato nell’arco di una settimana.

 

Solo ora si può veramente comprendere a pieno quanto sia stata inutile la retorica statunitense e occidentale tutta nel corso di questi lunghi anni, atta principalmente a giustificare un conflitto le cui cause sono sempre state prevalentemente economiche e nell’interesse di pochi. Infatti tra chi ci ha guadagnato da questa lunghissima guerra sono state sicuramente le industrie d’armi e di idrocarburi, che hanno sfruttato le esigenze occidentali fornendo servizi e rifornimenti alla sempre assetata macchina da guerra statunitense.

 

Al netto di queste considerazioni fanno quindi ridere, oltre che arrabbiare, le parole del presidente Biden quando ha parlato di “obiettivi raggiunti”, riferendosi esplicitamente all’uccisione di Osama bin Laden nel 2011. Un terrorista saudita ucciso in una remota cittadina del Pakistan. Se questo era l’obiettivo unico e solo di 20 anni di guerra, il fallimento americano, politico prima ancora che militare, è molto più profondo di quanto si immagini.

 

Dal punto di vista prettamente militare, la ritirata è stata un esito assolutamente inevitabile. Nessuno dei paesi coinvolti nell’invasione sarebbe potuto rimanere in Afghanistan all’infinito, e questo tutti lo sapevano. Altra cosa che tutti gli analisti politici e militari sapevano era che sarebbe andata a finire esattamente così, ovvero con elicotteri che evacuano ambasciate e con ponti aerei che trasportano gli ultimi disperati fuori dal paese. L’unica cosa che non si poteva sapere, e alla quale nessuno ha voluto credere finché non lo ha visto con i propri occhi, è stata la velocità con cui tutto questo è avvenuto.

 

L’Occidente ha fatto lo stesso errore dell’Unione Sovietica in Afghanistan, ovvero ha inviato qui truppe e mezzi non adatti al combattimento in un territorio tanto aspro e contro combattenti così fortemente motivati. I soldati stessi inviati nelle valli afghane non sono stati istruiti a cercare di comprendere la complessa realtà in cui si trovavano, così come anche i politici a casa non capivano l’ambiente in cui stavano operando decisioni. Nessuno si è mai sforzato di capire l’Afghanistan.

 

Di ritirate frettolose Washington ha un’esperienza pluridecennale. Basti pensare al recentissimo abbandono dell’Iraq nel 2011 da parte dell’amministrazione Obama. Qui in pochissimi anni si sviluppò il purtroppo noto Stato Islamico, che ancora oggi piaga quelle terre con la sua follia e la sua violenza.

 

Cosa nascerà da questa disfatta, solo il tempo potrà dirlo. La prima lezione che gli Stati Uniti e i suoi alleati traggono da questa esperienza è l’impossibilità di “occidentalizzare” un paese e un intero popolo a proprio piacimento, tanto lontani ma soprattutto tanto diversi. Ed è forse solo ora che viene infranta quella barriera invisibile, percepita ma mai volutamente discussa, creatasi all’indomani della caduta dell’Unione Sovietica, ovvero la presunzione di superiorità morale dell’Occidente nei confronti del resto del mondo. All’epoca si era addirittura parlato di “fine della storia” a seguito della vittoria di Washington su Mosca, ma i fatti hanno dimostrato che, seppur ancora mastodonticamente potenti, gli Stati Uniti sono ancora in grado di perdere una guerra.

 

Guardando in una prospettiva ancora più ampia, la sconfitta in Afghanistan ha dimostrato a tutta la comunità degli stati come gli Stati Uniti e i suoi alleati sono restii a mantenere i propri impegni internazionali, qualora messi alle strette. Sembrerebbe un luogo comune, tuttavia le notizie in campo internazionale degli ultimi anni parlano da sé.

 

Gli Stati Uniti si ritirano da Afghanistan, Iraq e Siria ogni volta che vi è la parvenza di un risultato raggiunto, quando invece vi è la perfetta consapevolezza del contraio. Nel Sahel la Francia si sta ritirando unilateralmente dalla missione Barkhane a seguito delle eccessive perdite sia umane sia economiche, delegando senza successo la sicurezza dell’area agli attori locali. In Libia quella che sarebbe dovuta essere una ricostruzione coadiuvata dalla comunità internazionale dopo l’intervento unilaterale della N.A.T.O. nel 2011 si è tramutata una guerra civile di cui la fine ancora non è chiara. Gli esempi da fare potrebbero essere ancora innumerevoli.

 

Dall’altro lato invece, sempre negli stessi anni, altri attori hanno dimostrato l’esatto contrario, ovvero di mantere inamovibilmente i propri impegni, anche a costo di enormi sacrifici politici, economici, militari. Un esempio fra tutti è la Russia, la quale nonostante le sanzioni, il discredito internazionale e innumereveli miliardi di dollari non ha mai abbandonato lo storico alleato siriano in nessuna sede, che sia quella delle Nazioni Unite o sul campo di battaglia. Sia chiaro, Mosca non ha fatto tutto questo per puro spirito umanitario, ma per ben precisi fini strategici e politici.

 

Tuttavia al netto dell’intervento nella Guerra Civile Siriana la Russia ha guadagno anche una notevole credibilità internazionale in quegli scenari dove il credito morale dell’Occidente si è esaurito ormai da tempo. Ed è proprio per questo che gli analisti parlano sempre più frequentemente dell’emergere di un modello alternativo di governance a quello occidentale, capeggiato principalmente da Russia e Cina, dove un diverso approccio alle relazioni tra Stati potrebbe col tempo essere più attraente di quello di matrice occidentale. Se ciò sia vero o meno, lo scopriremo solo nei prossimi decenni.  

 

Per quanto tali considerazioni politiche siano state fatte sin dalle prime ore del ritiro statunitense, nelle ore dell’evacuazione da Kabul l’opinione pubblica mondiale si è focalizzata su un aspetto che per i più era finito nel dimenticatoio da svariato tempo: la situazione delle donne in Afghanistan.

 

Come è ben noto ormai, nel periodo in cui i talebani hanno governato sull’Afghanistan le donne erano relegate in casa senza alcun diritto e senza alcuna speranza di averne mai. Con l’arrivo della missione N.A.T.O. le cose sono cambiate drasticamente, permettendo a migliaia di donne di avere una carriera, ricevere un’istruzione di livello oppure banalmente camminare per strada senza dover chiedere il permesso ad alcuna persona. Oggi, con la ripresa del potere da parte dei talebani, le conquiste del genere femminile in Afghanistan sono in forse.

 

Sebbene sicuramente la situazione non rimarrà invariata rispetto a quando il paese era governato dagli americani, non è per nulla scontato che si torni alle condizioni disastrose del 1996. Questo banalmente perché i talebani in questo momento cercano legittimità e un riconoscimento generale da parte della comunità internazionale e sanno quanta attenzione vi sia sulla questione delle donne. Riportare le donne afghane a una condizione medievale non gioverebbe ai loro scopi politici.

 

Nel febbraio 2020 alcune fonti vicini ai negoziati avevano asserito che i talebani, una volta andati via gli americani, avrebbero voluto lasciare alle donne la possibilità di lavorare, studiare e godere di svariati diritti acquisiti negli ultimi decenni a patto solamente di indossare il velo. I primi segnali di queste settimane non sono incoraggianti in questo senso, tuttavia è veramente ancora presto poter dire cosa accadrà su questo tema tra le remote montagne dell’Afghanistan.

 

Una questione invece completamente dimenticata dai mass media è la tematica delle migliaia e migliaia di collaboratori occidentali che sono rimasti in Afghanistan. Infatti è bene ricordare che non tutti gli afghani che hanno aiutato l’Occidente in questi 20 anni sono riusciti a sfruttare il ponte aereo di Kabul degli ultimi giorni di agosto. Infatti la maggior parte si trova ancora su suolo afghano ed è bene ricordare che il collaborazionismo è uno dei primi crimini a essere punito all’indomani della ritirata di forze straniere. E qui non vi sarà alcuna differenza.

 

La problematica è aggravata dal fatto che i talebani sono riusciti a impossessarsi di sofisticati dispositivi di riconoscimento biometrico appartenuti agli statunitensi durante la loro missione militare. Questi sistemi permetterebbero ai talebani quindi di riconoscere in brevissimo tempo chi ha collaborato con la missione N.A.T.O. facendo un confronto con il database in loro possesso. Le implicazione per i collaboratori e le relative famiglie sono purtroppo ovvie.

 

Sebbene il nuovo governo talebano abbia promesso un’amnistia generale per i collaboratori, è importante ricordare che in certe aree del mondo il concetto di vendetta è molto sentito come proprio. La prova del 9 sarà quando i riflettori del mondo si saranno spenti sull’Afghanistan. Solo allora si potrà dire se le promesse fatte sulle donne e sui collaboratori verranno mantenute.

 

Un ultimo aspetto importante su cui soffermarsi sono le dinamiche svoltesi all’interno della comunità internazionale rispetto a quanto accaduto in Afghanistan. Sebbene la stragrande maggioranza degli stati stia vedendo la situazione di Kabul oltre che come un fallimento anche come un potenziale problema futuro, alcune nazioni stanno cercando di trasformarla in un’opportunità. Si parla senza neanche troppi segreti di Russia, Cina e Iran le quali, si sono dette pronte a dare aiuti e supporto al nuovo governo talebano.

 

Questo in primis in un’ottica di stabilità regionale, essendo tutti e tre questi stati confinanti de facto con il nuovo Afghanistan. Tra tutti questi attori quello meno contento degli avvenimenti di Kabul è sicuramente Mosca, la quale guarda con timore il sorgere di un potenziale stato canaglia sul suo confine sud. La prima mossa è stata quella di organizzare esercitazioni con il Tagikistan, in modo da mandare un segnale chiaro ai leader talebani che la forza russa è ancora in  grado di colpire con tutta la sua potenza.

 

La paura principale del Cremlino sono le possibili infiltrazioni jihadiste che potrebbero arrivare dall’Afghanistan che andrebbero a penetrare il confine sud russo. Infatti tra gli incubi più nascosti della Russia vi è la rinascita di quello jihadismo di matrice ceceno-caucasico che tanto è costato a Putin sia in termini economici che di vite umane perse. Dulcis in fundo, la Russia non ha mai dimenticato l’enorme sconfitta inflitta dai ribelli afghani anche alle truppe sovietiche negli anni ’80, motivo per cui le faccende inerenti a Kabul vengono sempre guardate con un occhio di riguardo.

 

Dall’altro lato invece vi è la Cina, che risulta essere protagonista a tutto tondo nei rapporti con l’Afghanistan talebano. Nell’arco di pochi mesi infatti Pechino è diventata interlocutrice di primissimo livello con i leader talebani. Ciò è iniziato ad avvenire già all’indomani degli accordi di Doha, quando i talebani erano appena stati riconosciuti come autorità politica con cui trattare dagli stessi statunitensi. E grazie proprio a questa legittimazioni indiretta che la Cina ha iniziato ad avvicinarsi ai ribelli. Se questo effetto fosse stato previsto da Washington, è veramente difficile dirlo. Tanto sono scese in profondità i rapporti tra Cina e talebani che nel luglio scorso si è assistito a un incontro presso Tianjin del ministro degli esteri Wang Yi e una delegazione capeggiata dal mullah Abdul Ghani Baradar.

 

Gli obiettivi della Cina sono molteplici. In primis vi è l’ambizioso progetto di includere l’Afghanistan all’interno della One Belt One Road, chiamata anche Nuova Via della Seta. Questo poiché molti dei paesi limitrofi hanno già stretto accordi con Pechino in questo senso, e accogliere Kabul in questo progetto di proporzioni titaniche faciliterebbe molto le vie commerciali attualmente in costruzione in direzione dell’Europa. Ancora più in generale, la Cina è estremamente attratta dagli appalti inerenti alle infrastrutture afghane, delle quali il paese è in disperata carenza. Un esempio fra tutti, vi sono vari studi di fattibilità in merito alla produzione di energia elettrica che potrebbero andare in porto. Questo poiché in Afghanistan l’80% dell’energia è importata dall’estero, rendendolo estremamente vulnerabile e dipendente dalle forniture esterne. Un altro esempio sono le strade e rotte commerciali presenti nella regione. Tra queste ultime vi sono quelle passanti per il Kirghizistan e il Tagikistan, l’autostrada del Karakorum oppure le strade da Peshawar a Kabul. Per non rendere scontento il proprio alleato, la Cina garantirebbe ai russi di fornire la sicurezza agli operai e ai tecnici cinesi che lavorerebbero su queste opere nei prossimi anni. Queste però sono solo voci di corridoio ed è bene prenderle come tali.

 

Nonostante i buoni proposti d’investimento cinese, la strada per la loro finalizzazione è ancora impervia e in salita. Infatti allo stato attuale il paese risente ancora troppo del caos delle ultime settimane, nonché il nuovo governo talebano sta ancora prendendo le misure con tutti i partner esterni che si stanno presentando alla loro porta. Tra le altre cose è bene ricordare che Pechino ha già subito investimenti fallimentari in passato in Afghanistan, specialmente per quanto riguarda la miniera di rame di Mes Aynak, a circa 40 chilometri da Kabul. Questo tuttavia non ha mai fermato la tattica a lungo termine della Cina, la quale negli ultimi 20 anni ha aumentato lentamente, ma costantemente la propria presenza economica in Afghanistan. Tra il 2001 e il 2013 Pechino ha investito circa 240 milioni di dollari, e questa cifra è solo aumentata da quando gli Stati Uniti hanno avviato il loro ritiro militare.

 

Nonostante il tornaconto economico e geopolitico rientri sicuramente nei calcoli strategici cinesi, uno degli obiettivi principali di Pechino è la garanzia da parte dei talebani che non vi siano intromissioni negli affari dello Xinjiang. Lo Xinjiang è la regione cinese di confine con l’Afghanistan dove vive l’etnia uigura, ovvero l’unica etnia di religione musulmana della Cina. Qui in passato si verificarono varie problematiche con lo jihadismo islamista, motivo per cui Pechino decise qualche anno fa di avviare un drastico e brutale programma di repressione nonché di rieducazione della popolazione locale. Il ritorno dei talebani al potere spaventa Pechino nell’ottica di nuove instabilità nello Xinjiang e che il nuovo governo di Kabul possa finanziare nuovamente il Movimento Islamico del Turkestan Orientale (MITO), ovvero l’organizzazione sotto la quale si riunirebbero tutti i gruppi separatisti dello Xinjiang. Nonostante i talebani abbiano già garantito a Pechino che non vi sarà alcuna intromissione negli affari interni dello stato cinese, l’establishment del Dragone è ancora titubante se fidarsi o meno dei suoi nuovi vicini.

 

Un altro degli obiettivi della Cina nel nuovo Afghanistan, e forse il più importante dal punto di vista strategico, è quello di aggiudicarsi i diritti di estrazioni dei minerali tra le montagne di Kabul. Questo tesoro è composto da minerali specifici di grande interesse nel mondo di oggi, ossia dal gruppo delle terre rare e dal litio. Per quanto riguarda il litio, esso è un metallo alcalino che si trova in natura sotto forma di brine, ovvero di precipitati concentrati di soluzioni, e di minerali come idrossidi e carbonati. Esso è un metallo altamente reattivo e al giorno d’oggi viene usato per innumerevoli scopi: dal campo medico a quello dell’energia nucleare fino al campo bellico, dove viene impiegato nelle batterie dei missili. Tuttavia negli ultimi 30 anni il suo utilizzo è esploso poiché componente essenziale delle batterie elettriche ad alta efficienza. Senza il litio, i cellulari, i dispositivi elettronici del quotidiano nonché le macchine elettriche di cui si parla tanto non potrebbero esistere. E questo per fare solo qualche esempio. Le maggiori riserve di litio si trovano in Bolivia, Australia, Cina, Stati Uniti e Afghanistan. In particolare qui si stimano essere ancora inesplorati circa mille miliardi di dollari in litio. Si può comprendere bene quindi che chi controlla l’estrazione del litio afghano avrà il controllo della cosiddetta “transizione green” di domani.

 

Per quanto riguarda invece le cosiddette “terre rare”, queste sono ancora più importanti. Infatti i metalli delle terre rare sono un gruppo di 17 elementi della tavola periodica facenti parte per lo più del gruppo dei lantanidi. Essi sono dei metalli estremamente rari e altrettanto peculiari dal punto di vista applicativo. Essi infatti risultano componenti essenziali della maggior parte della tecnologia su cui si basa la società moderna, quali ad esempio magneti, superconduttori, laser, turbine, sistemi di guida dei missili e dulcis in fundo componentistica per i satelliti. In Afghanistan esse sono presenti massicciamente nel complesso carbonatico di Khanneshin, nella provincia meridionale di Helmand, dove si stimano esservi 1.178 milioni di tonnellate di terre rare ancora da estrarre. A questi si accompagnerebbero altri minerali “secondari” per così dire, quali fosforo e uranio. È bene tenere a mente che allo stato attuale l’80% delle riserve mondiali di terre rare si trovano all’interno dei confini della Repubblica Popolare Cinese. Qualora questa riuscisse ad avere accesso anche alle riserve afgane, il mondo ancora più di oggi dovrebbe interfacciarsi con un unico fornitore di terre rare, con tutto ciò che ne consegue.

 

L’Afghanistan è anche molto ricco di rame, di cui si stimano 30 milioni di tonnellate ancora estraibili, di bauxite, di cromo, di oro e anche di smeraldi. Per quanto riguarda invece gli idrocarburi, l’Afghanistan è il 62esimo produttore al mondo di carbone, con 72 milioni di tonnellate estraibili. Vi sono inoltre stimati essere anche 219 milioni di tonnellate di greggio e 444 miliardi di metri cubi di gas naturale. Da tutto questo elenco di immense risorse naturali si può dedurre facilmente come il nuovo governo di Kabul possa tenere il coltello dalla parte del manico con tutte le potenze che verranno a bussare alla sua porta per cercare di far affari, e per la Cina non fa differenza. Alcuni analisti reputano che una possibile infiltrazione di Pechino nella regione sbilancerebbe drasticamente gli equilibri di potere in Asia, a sfavore soprattutto dell’India. Inoltre molti si stanno chiedendo cosa darebbe la Cina ai talebani in cambio dei diritti di estrazione e degli appalti sulle infrastrutture. Si è ipotizzato che Pechino possa portare alla comunità internazionale la proposta di legittimare internazionalmente, anche se con dei vincoli, il nuovo governo afghano. Questa sarebbe sicuramente una sfida politica non indifferente per l’establishment cinese, soprattutto per l’immagine che la Cina darebbe al mondo. Quali saranno i reali tornaconti tuttavia lo scopriremo solo nei prossimi anni.

 

Al netto di tutte queste considerazioni, è giusto ora trarre delle conclusioni. Dopo 20 anni di missione militare e di sforzi immani da parte di tutte le forze occidentali impegnate nel teatro afghano, il risultato che è stato ottenuto è stata la proclamazione il 15 agosto dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan. Sebbene nella passata esperienza governativa i talebani siano passati alla storia come uno dei governi più repressivi al mondo, ora gli ex-ribelli stanno facendo di tutto per cambiare la loro percezione a tutti gli altri stati. Essendo infatti a oggi un riconoscimento diplomatico internazionale  l’obiettivo principale del nuovo governo afghano, i talebani stanno cercando in ogni modo di presentarsi in maniera più moderata, più moderna.

 

Sebbene ad esempio le promesse di inclusione delle donne nella vita lavorativa e nell’istruzione siano state fatte sin dal primo momento, è molto difficile che questo impegno venga mantenuto in toto, ciò in virtù soprattutto della visione di stato che gli stessi talebani hanno. Anche tuttavia il riconoscimento internazionale stsso non è senza fine, ma è anch’esso pensato con un obiettivo ultimo ancor più profondo. Infatti qualora l’Emirato ottenga la legittimazione come stato vero e proprio, questo porterebbe alla sicurezza dell’assenza di attacchi da parte di altri stati esterni e quindi al consolidamento del potere dei talebani sullo stato appena conquistato. È anche per questo che i talebani stanno comunicando in un modo così “occidentale”. Vogliono garanzie proprio da quell’Occidente che hanno combattuto per 20 anni di non avere altre minacce al loro potere e alla loro sicurezza interna.

 

Per quanto riguarda la popolazione afghana vera e propria, è probabile che alcuni aspetti della loro vita ritornino a prima del 2001. Infatti nonostante vi sia stato ormai un cambio generazionale nel paese, è bene ricordare che l’Afghanistan è un paese molto radicato alle proprie tradizioni e una larga parte della popolazione stessa ha sempre guardato con un occhio di riguardo i talebani e con ostilità le forze invadenti.

 

Proprio gli stati facenti parte della vecchia forza ISAF sono e resteranno nei libri di storia i grandi sconfitti di questa grande tragedia. Sebbene l’Occidente si sia illuso in 20 anni di retorica melliflua che la popolazione afghana ci volesse a tutti i costi nel loro paese, i fatti hanno dimostrato l’esatto contrario. E l’errore è stato doppio se vogliamo, poiché ci si è convinti prendendo per buona l’opinione delle elitè cittadine, quando la volontà del popolo vero si trovava nelle campagne e nelle montagne, lontane dal presunto “progresso”.

 

Dall’altro lato gli Stati Uniti e l’Occidente si sono ricordati a caro prezzo di come la tecnologia non possa battere la determinazione di un popolo e la conoscenza di un territorio. Il fallimento statunitense e della sua coalizione, prima ancora che militare, sociale ed economico, è stato politico. Sia dal punto di vista interno, e qui il riferimento è a Biden il quale dovrà lottare duro per le prossime elezioni di mid-term, sia dal punto di visto degli esteri, dove la Cina avrà solo da guadagnare per i decenni a venire a seguito del fallimento americano.

 

La cosa però che dovrebbe far più riflettere sull’intera faccenda è la superficialità con cui l’opinione pubblica occidentale da casa abbia trattato la faccenda. Infatti sebbene vi sia stato una sincera preoccupazione per le vicende nelle settimane centrali di agosto quanto gli eventi erano in corso, l’interessamento per il destino della popolazione afghana farà la stessa fine della solidarietà alla popolazione siriana quando era sotto le bombe incrociate dell’ISIS e del presidente Assad contemporanemente, oppure della solidarietà verso le popolazioni ucraine coinvolte nel conflitto con i proxies russi. O della solidarietà al popolo libico.

 

Si potrebbero fare veramente tanti esempi in questo senso, ma purtroppo tutte queste sono tematiche avvertite estremamente lontane dalla popolazione comune in Occidente e per questo vengono trattate come mode del momento, nulla più.

 

Al di là di quest’ultima considerazione, a grande sintesi di quanto disquisito sopra, l’epilogo del conflitto in Afghanistan può essere sintetizzato dalle ormai storiche parole affermate da un combattente talebano catturato prigioniero dagli americani, ai quali avrebbe detto: «Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo».

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]