attualità
LA CADUTA
CRONACA DEL DISASTRO AFGHANO / PARTE II
di Gian Marco Boellisi
Se si vogliono trarre dei bilanci dalla
fine di questo conflitto, per le forze
di occupazione occidentale appena
ritiratesi non è di certo dei migliori.
Sono passati esattamente 20 anni, e ciò
che si è ottenuto è un paese interamente
distrutto, decine di migliaia di morti
tra personale militare e civile
occidentale, nonché centinaia di
migliaia di morti tra la popolazione
locale, e un progetto politico costruito
sul nulla che al nulla è prontamente
ritornato nell’arco di una settimana.
Solo ora si può veramente comprendere a
pieno quanto sia stata inutile la
retorica statunitense e occidentale
tutta nel corso di questi lunghi anni,
atta principalmente a giustificare un
conflitto le cui cause sono sempre state
prevalentemente economiche e
nell’interesse di pochi. Infatti tra chi
ci ha guadagnato da questa lunghissima
guerra sono state sicuramente le
industrie d’armi e di idrocarburi, che
hanno sfruttato le esigenze occidentali
fornendo servizi e rifornimenti alla
sempre assetata macchina da guerra
statunitense.
Al netto di queste considerazioni fanno
quindi ridere, oltre che arrabbiare, le
parole del presidente Biden quando ha
parlato di “obiettivi raggiunti”,
riferendosi esplicitamente all’uccisione
di Osama bin Laden nel 2011. Un
terrorista saudita ucciso in una remota
cittadina del Pakistan. Se questo era
l’obiettivo unico e solo di 20 anni di
guerra, il fallimento americano,
politico prima ancora che militare, è
molto più profondo di quanto si
immagini.
Dal punto di vista prettamente militare,
la ritirata è stata un esito
assolutamente inevitabile. Nessuno dei
paesi coinvolti nell’invasione sarebbe
potuto rimanere in Afghanistan
all’infinito, e questo tutti lo
sapevano. Altra cosa che tutti gli
analisti politici e militari sapevano
era che sarebbe andata a finire
esattamente così, ovvero con elicotteri
che evacuano ambasciate e con ponti
aerei che trasportano gli ultimi
disperati fuori dal paese. L’unica cosa
che non si poteva sapere, e alla quale
nessuno ha voluto credere finché non lo
ha visto con i propri occhi, è stata la
velocità con cui tutto questo è
avvenuto.
L’Occidente ha fatto lo stesso errore
dell’Unione Sovietica in Afghanistan,
ovvero ha inviato qui truppe e mezzi non
adatti al combattimento in un territorio
tanto aspro e contro combattenti così
fortemente motivati. I soldati stessi
inviati nelle valli afghane non sono
stati istruiti a cercare di comprendere
la complessa realtà in cui si trovavano,
così come anche i politici a casa non
capivano l’ambiente in cui stavano
operando decisioni. Nessuno si è mai
sforzato di capire l’Afghanistan.
Di ritirate frettolose Washington ha
un’esperienza pluridecennale. Basti
pensare al recentissimo abbandono
dell’Iraq nel 2011 da parte
dell’amministrazione Obama. Qui in
pochissimi anni si sviluppò il purtroppo
noto Stato Islamico, che ancora oggi
piaga quelle terre con la sua follia e
la sua violenza.
Cosa nascerà da questa disfatta, solo il
tempo potrà dirlo. La prima lezione che
gli Stati Uniti e i suoi alleati
traggono da questa esperienza è
l’impossibilità di “occidentalizzare” un
paese e un intero popolo a proprio
piacimento, tanto lontani ma soprattutto
tanto diversi. Ed è forse solo ora che
viene infranta quella barriera
invisibile, percepita ma mai volutamente
discussa, creatasi all’indomani della
caduta dell’Unione Sovietica, ovvero la
presunzione di superiorità morale
dell’Occidente nei confronti del resto
del mondo. All’epoca si era addirittura
parlato di “fine della storia” a seguito
della vittoria di Washington su Mosca,
ma i fatti hanno dimostrato che, seppur
ancora mastodonticamente potenti, gli
Stati Uniti sono ancora in grado di
perdere una guerra.
Guardando in una prospettiva ancora più
ampia, la sconfitta in Afghanistan ha
dimostrato a tutta la comunità degli
stati come gli Stati Uniti e i suoi
alleati sono restii a mantenere i propri
impegni internazionali, qualora messi
alle strette. Sembrerebbe un luogo
comune, tuttavia le notizie in campo
internazionale degli ultimi anni parlano
da sé.
Gli Stati Uniti si ritirano da
Afghanistan, Iraq e Siria ogni volta che
vi è la parvenza di un risultato
raggiunto, quando invece vi è la
perfetta consapevolezza del contraio.
Nel Sahel la Francia si sta ritirando
unilateralmente dalla missione Barkhane
a seguito delle eccessive perdite sia
umane sia economiche, delegando senza
successo la sicurezza dell’area agli
attori locali. In Libia quella che
sarebbe dovuta essere una ricostruzione
coadiuvata dalla comunità internazionale
dopo l’intervento unilaterale della
N.A.T.O. nel 2011 si è tramutata una
guerra civile di cui la fine ancora non
è chiara. Gli esempi da fare potrebbero
essere ancora innumerevoli.
Dall’altro lato invece, sempre negli
stessi anni, altri attori hanno
dimostrato l’esatto contrario, ovvero di
mantere inamovibilmente i propri
impegni, anche a costo di enormi
sacrifici politici, economici, militari.
Un esempio fra tutti è la Russia, la
quale nonostante le sanzioni, il
discredito internazionale e innumereveli
miliardi di dollari non ha mai
abbandonato lo storico alleato siriano
in nessuna sede, che sia quella delle
Nazioni Unite o sul campo di battaglia.
Sia chiaro, Mosca non ha fatto tutto
questo per puro spirito umanitario, ma
per ben precisi fini strategici e
politici.
Tuttavia al netto dell’intervento nella
Guerra Civile Siriana la Russia ha
guadagno anche una notevole credibilità
internazionale in quegli scenari dove il
credito morale dell’Occidente si è
esaurito ormai da tempo. Ed è proprio
per questo che gli analisti parlano
sempre più frequentemente dell’emergere
di un modello alternativo di
governance a quello occidentale,
capeggiato principalmente da Russia e
Cina, dove un diverso approccio alle
relazioni tra Stati potrebbe col tempo
essere più attraente di quello di
matrice occidentale. Se ciò sia vero o
meno, lo scopriremo solo nei prossimi
decenni.
Per quanto tali considerazioni politiche
siano state fatte sin dalle prime ore
del ritiro statunitense, nelle ore
dell’evacuazione da Kabul l’opinione
pubblica mondiale si è focalizzata su un
aspetto che per i più era finito nel
dimenticatoio da svariato tempo: la
situazione delle donne in Afghanistan.
Come è ben noto ormai, nel periodo in
cui i talebani hanno governato
sull’Afghanistan le donne erano relegate
in casa senza alcun diritto e senza
alcuna speranza di averne mai. Con
l’arrivo della missione N.A.T.O. le cose
sono cambiate drasticamente, permettendo
a migliaia di donne di avere una
carriera, ricevere un’istruzione di
livello oppure banalmente camminare per
strada senza dover chiedere il permesso
ad alcuna persona. Oggi, con la ripresa
del potere da parte dei talebani, le
conquiste del genere femminile in
Afghanistan sono in forse.
Sebbene sicuramente la situazione non
rimarrà invariata rispetto a quando il
paese era governato dagli americani, non
è per nulla scontato che si torni alle
condizioni disastrose del 1996. Questo
banalmente perché i talebani in questo
momento cercano legittimità e un
riconoscimento generale da parte della
comunità internazionale e sanno quanta
attenzione vi sia sulla questione delle
donne. Riportare le donne afghane a una
condizione medievale non gioverebbe ai
loro scopi politici.
Nel febbraio 2020 alcune fonti vicini ai
negoziati avevano asserito che i
talebani, una volta andati via gli
americani, avrebbero voluto lasciare
alle donne la possibilità di lavorare,
studiare e godere di svariati diritti
acquisiti negli ultimi decenni a patto
solamente di indossare il velo. I primi
segnali di queste settimane non sono
incoraggianti in questo senso, tuttavia
è veramente ancora presto poter dire
cosa accadrà su questo tema tra le
remote montagne dell’Afghanistan.
Una questione invece completamente
dimenticata dai mass media è la tematica
delle migliaia e migliaia di
collaboratori occidentali che sono
rimasti in Afghanistan. Infatti è bene
ricordare che non tutti gli afghani che
hanno aiutato l’Occidente in questi 20
anni sono riusciti a sfruttare il ponte
aereo di Kabul degli ultimi giorni di
agosto. Infatti la maggior parte si
trova ancora su suolo afghano ed è bene
ricordare che il collaborazionismo è uno
dei primi crimini a essere punito
all’indomani della ritirata di forze
straniere. E qui non vi sarà alcuna
differenza.
La problematica è aggravata dal fatto
che i talebani sono riusciti a
impossessarsi di sofisticati dispositivi
di riconoscimento biometrico appartenuti
agli statunitensi durante la loro
missione militare. Questi sistemi
permetterebbero ai talebani quindi di
riconoscere in brevissimo tempo chi ha
collaborato con la missione N.A.T.O.
facendo un confronto con il database in
loro possesso. Le implicazione per i
collaboratori e le relative famiglie
sono purtroppo ovvie.
Sebbene il nuovo governo talebano abbia
promesso un’amnistia generale per i
collaboratori, è importante ricordare
che in certe aree del mondo il concetto
di vendetta è molto sentito come
proprio. La prova del 9 sarà quando i
riflettori del mondo si saranno spenti
sull’Afghanistan. Solo allora si potrà
dire se le promesse fatte sulle donne e
sui collaboratori verranno mantenute.
Un ultimo aspetto importante su cui
soffermarsi sono le dinamiche svoltesi
all’interno della comunità
internazionale rispetto a quanto
accaduto in Afghanistan. Sebbene la
stragrande maggioranza degli stati stia
vedendo la situazione di Kabul oltre che
come un fallimento anche come un
potenziale problema futuro, alcune
nazioni stanno cercando di trasformarla
in un’opportunità. Si parla senza
neanche troppi segreti di Russia, Cina e
Iran le quali, si sono dette pronte a
dare aiuti e supporto al nuovo governo
talebano.
Questo in primis in un’ottica di
stabilità regionale, essendo tutti e tre
questi stati confinanti de facto
con il nuovo Afghanistan. Tra tutti
questi attori quello meno contento degli
avvenimenti di Kabul è sicuramente
Mosca, la quale guarda con timore il
sorgere di un potenziale stato canaglia
sul suo confine sud. La prima mossa è
stata quella di organizzare
esercitazioni con il Tagikistan, in modo
da mandare un segnale chiaro ai leader
talebani che la forza russa è ancora in
grado di colpire con tutta la sua
potenza.
La paura principale del Cremlino sono le
possibili infiltrazioni jihadiste che
potrebbero arrivare dall’Afghanistan che
andrebbero a penetrare il confine sud
russo. Infatti tra gli incubi più
nascosti della Russia vi è la rinascita
di quello jihadismo di matrice
ceceno-caucasico che tanto è costato a
Putin sia in termini economici che di
vite umane perse. Dulcis in fundo,
la Russia non ha mai dimenticato
l’enorme sconfitta inflitta dai ribelli
afghani anche alle truppe sovietiche
negli anni ’80, motivo per cui le
faccende inerenti a Kabul vengono sempre
guardate con un occhio di riguardo.
Dall’altro lato invece vi è la Cina, che
risulta essere protagonista a tutto
tondo nei rapporti con l’Afghanistan
talebano. Nell’arco di pochi mesi
infatti Pechino è diventata
interlocutrice di primissimo livello con
i leader talebani. Ciò è iniziato ad
avvenire già all’indomani degli accordi
di Doha, quando i talebani erano appena
stati riconosciuti come autorità
politica con cui trattare dagli stessi
statunitensi. E grazie proprio a questa
legittimazioni indiretta che la Cina ha
iniziato ad avvicinarsi ai ribelli. Se
questo effetto fosse stato previsto da
Washington, è veramente difficile dirlo.
Tanto sono scese in profondità i
rapporti tra Cina e talebani che nel
luglio scorso si è assistito a un
incontro presso Tianjin del ministro
degli esteri Wang Yi e una delegazione
capeggiata dal mullah Abdul Ghani
Baradar.
Gli obiettivi della Cina sono
molteplici. In primis vi è l’ambizioso
progetto di includere l’Afghanistan
all’interno della One Belt One Road,
chiamata anche Nuova Via della Seta.
Questo poiché molti dei paesi limitrofi
hanno già stretto accordi con Pechino in
questo senso, e accogliere Kabul in
questo progetto di proporzioni titaniche
faciliterebbe molto le vie commerciali
attualmente in costruzione in direzione
dell’Europa. Ancora più in generale, la
Cina è estremamente attratta dagli
appalti inerenti alle infrastrutture
afghane, delle quali il paese è in
disperata carenza. Un esempio fra tutti,
vi sono vari studi di fattibilità in
merito alla produzione di energia
elettrica che potrebbero andare in
porto. Questo poiché in Afghanistan
l’80% dell’energia è importata
dall’estero, rendendolo estremamente
vulnerabile e dipendente dalle forniture
esterne. Un altro esempio sono le strade
e rotte commerciali presenti nella
regione. Tra queste ultime vi sono
quelle passanti per il Kirghizistan e il
Tagikistan, l’autostrada del Karakorum
oppure le strade da Peshawar a Kabul.
Per non rendere scontento il proprio
alleato, la Cina garantirebbe ai russi
di fornire la sicurezza agli operai e ai
tecnici cinesi che lavorerebbero su
queste opere nei prossimi anni. Queste
però sono solo voci di corridoio ed è
bene prenderle come tali.
Nonostante i buoni proposti
d’investimento cinese, la strada per la
loro finalizzazione è ancora impervia e
in salita. Infatti allo stato attuale il
paese risente ancora troppo del caos
delle ultime settimane, nonché il nuovo
governo talebano sta ancora prendendo le
misure con tutti i partner esterni che
si stanno presentando alla loro porta.
Tra le altre cose è bene ricordare che
Pechino ha già subito investimenti
fallimentari in passato in Afghanistan,
specialmente per quanto riguarda la
miniera di rame di Mes Aynak, a circa 40
chilometri da Kabul. Questo tuttavia non
ha mai fermato la tattica a lungo
termine della Cina, la quale negli
ultimi 20 anni ha aumentato lentamente,
ma costantemente la propria presenza
economica in Afghanistan. Tra il 2001 e
il 2013 Pechino ha investito circa 240
milioni di dollari, e questa cifra è
solo aumentata da quando gli Stati Uniti
hanno avviato il loro ritiro militare.
Nonostante il tornaconto economico e
geopolitico rientri sicuramente nei
calcoli strategici cinesi, uno degli
obiettivi principali di Pechino è la
garanzia da parte dei talebani che non
vi siano intromissioni negli affari
dello Xinjiang. Lo Xinjiang è la regione
cinese di confine con l’Afghanistan dove
vive l’etnia uigura, ovvero l’unica
etnia di religione musulmana della Cina.
Qui in passato si verificarono varie
problematiche con lo jihadismo
islamista, motivo per cui Pechino decise
qualche anno fa di avviare un drastico e
brutale programma di repressione nonché
di rieducazione della popolazione
locale. Il ritorno dei talebani al
potere spaventa Pechino nell’ottica di
nuove instabilità nello Xinjiang e che
il nuovo governo di Kabul possa
finanziare nuovamente il Movimento
Islamico del Turkestan Orientale (MITO),
ovvero l’organizzazione sotto la quale
si riunirebbero tutti i gruppi
separatisti dello Xinjiang. Nonostante i
talebani abbiano già garantito a Pechino
che non vi sarà alcuna intromissione
negli affari interni dello stato cinese,
l’establishment del Dragone è
ancora titubante se fidarsi o meno dei
suoi nuovi vicini.
Un altro degli obiettivi della Cina nel
nuovo Afghanistan, e forse il più
importante dal punto di vista
strategico, è quello di aggiudicarsi i
diritti di estrazioni dei minerali tra
le montagne di Kabul. Questo tesoro è
composto da minerali specifici di grande
interesse nel mondo di oggi, ossia dal
gruppo delle terre rare e dal litio. Per
quanto riguarda il litio, esso è un
metallo alcalino che si trova in natura
sotto forma di brine, ovvero di
precipitati concentrati di soluzioni, e
di minerali come idrossidi e carbonati.
Esso è un metallo altamente reattivo e
al giorno d’oggi viene usato per
innumerevoli scopi: dal campo medico a
quello dell’energia nucleare fino al
campo bellico, dove viene impiegato
nelle batterie dei missili. Tuttavia
negli ultimi 30 anni il suo utilizzo è
esploso poiché componente essenziale
delle batterie elettriche ad alta
efficienza. Senza il litio, i cellulari,
i dispositivi elettronici del quotidiano
nonché le macchine elettriche di cui si
parla tanto non potrebbero esistere. E
questo per fare solo qualche esempio. Le
maggiori riserve di litio si trovano in
Bolivia, Australia, Cina, Stati Uniti e
Afghanistan. In particolare qui si
stimano essere ancora inesplorati circa
mille miliardi di dollari in litio. Si
può comprendere bene quindi che chi
controlla l’estrazione del litio afghano
avrà il controllo della cosiddetta
“transizione green” di domani.
Per quanto riguarda invece le cosiddette
“terre rare”, queste sono ancora più
importanti. Infatti i metalli delle
terre rare sono un gruppo di 17 elementi
della tavola periodica facenti parte per
lo più del gruppo dei lantanidi. Essi
sono dei metalli estremamente rari e
altrettanto peculiari dal punto di vista
applicativo. Essi infatti risultano
componenti essenziali della maggior
parte della tecnologia su cui si basa la
società moderna, quali ad esempio
magneti, superconduttori, laser,
turbine, sistemi di guida dei missili e
dulcis in fundo componentistica
per i satelliti. In Afghanistan esse
sono presenti massicciamente nel
complesso carbonatico di Khanneshin,
nella provincia meridionale di Helmand,
dove si stimano esservi 1.178 milioni di
tonnellate di terre rare ancora da
estrarre. A questi si accompagnerebbero
altri minerali “secondari” per così
dire, quali fosforo e uranio. È bene
tenere a mente che allo stato attuale
l’80% delle riserve mondiali di terre
rare si trovano all’interno dei confini
della Repubblica Popolare Cinese.
Qualora questa riuscisse ad avere
accesso anche alle riserve afgane, il
mondo ancora più di oggi dovrebbe
interfacciarsi con un unico fornitore di
terre rare, con tutto ciò che ne
consegue.
L’Afghanistan è anche molto ricco di
rame, di cui si stimano 30 milioni di
tonnellate ancora estraibili, di
bauxite, di cromo, di oro e anche di
smeraldi. Per quanto riguarda invece gli
idrocarburi, l’Afghanistan è il 62esimo
produttore al mondo di carbone, con 72
milioni di tonnellate estraibili. Vi
sono inoltre stimati essere anche 219
milioni di tonnellate di greggio e 444
miliardi di metri cubi di gas naturale.
Da tutto questo elenco di immense
risorse naturali si può dedurre
facilmente come il nuovo governo di
Kabul possa tenere il coltello dalla
parte del manico con tutte le potenze
che verranno a bussare alla sua porta
per cercare di far affari, e per la Cina
non fa differenza. Alcuni analisti
reputano che una possibile infiltrazione
di Pechino nella regione sbilancerebbe
drasticamente gli equilibri di potere in
Asia, a sfavore soprattutto dell’India.
Inoltre molti si stanno chiedendo cosa
darebbe la Cina ai talebani in cambio
dei diritti di estrazione e degli
appalti sulle infrastrutture. Si è
ipotizzato che Pechino possa portare
alla comunità internazionale la proposta
di legittimare internazionalmente, anche
se con dei vincoli, il nuovo governo
afghano. Questa sarebbe sicuramente una
sfida politica non indifferente per l’establishment
cinese, soprattutto per l’immagine che
la Cina darebbe al mondo. Quali saranno
i reali tornaconti tuttavia lo
scopriremo solo nei prossimi anni.
Al netto di tutte queste considerazioni,
è giusto ora trarre delle conclusioni.
Dopo 20 anni di missione militare e di
sforzi immani da parte di tutte le forze
occidentali impegnate nel teatro
afghano, il risultato che è stato
ottenuto è stata la proclamazione il 15
agosto dell’Emirato Islamico
dell’Afghanistan. Sebbene nella passata
esperienza governativa i talebani siano
passati alla storia come uno dei governi
più repressivi al mondo, ora gli
ex-ribelli stanno facendo di tutto per
cambiare la loro percezione a tutti gli
altri stati. Essendo infatti a oggi un
riconoscimento diplomatico
internazionale l’obiettivo principale
del nuovo governo afghano, i talebani
stanno cercando in ogni modo di
presentarsi in maniera più moderata, più
moderna.
Sebbene ad esempio le promesse di
inclusione delle donne nella vita
lavorativa e nell’istruzione siano state
fatte sin dal primo momento, è molto
difficile che questo impegno venga
mantenuto in toto, ciò in virtù
soprattutto della visione di stato che
gli stessi talebani hanno. Anche
tuttavia il riconoscimento
internazionale stsso non è senza fine,
ma è anch’esso pensato con un obiettivo
ultimo ancor più profondo. Infatti
qualora l’Emirato ottenga la
legittimazione come stato vero e
proprio, questo porterebbe alla
sicurezza dell’assenza di attacchi da
parte di altri stati esterni e quindi al
consolidamento del potere dei talebani
sullo stato appena conquistato. È anche
per questo che i talebani stanno
comunicando in un modo così
“occidentale”. Vogliono garanzie proprio
da quell’Occidente che hanno combattuto
per 20 anni di non avere altre minacce
al loro potere e alla loro sicurezza
interna.
Per quanto riguarda la popolazione
afghana vera e propria, è probabile che
alcuni aspetti della loro vita ritornino
a prima del 2001. Infatti nonostante vi
sia stato ormai un cambio generazionale
nel paese, è bene ricordare che
l’Afghanistan è un paese molto radicato
alle proprie tradizioni e una larga
parte della popolazione stessa ha sempre
guardato con un occhio di riguardo i
talebani e con ostilità le forze
invadenti.
Proprio gli stati facenti parte della
vecchia forza ISAF sono e resteranno nei
libri di storia i grandi sconfitti di
questa grande tragedia. Sebbene
l’Occidente si sia illuso in 20 anni di
retorica melliflua che la popolazione
afghana ci volesse a tutti i costi nel
loro paese, i fatti hanno dimostrato
l’esatto contrario. E l’errore è stato
doppio se vogliamo, poiché ci si è
convinti prendendo per buona l’opinione
delle elitè cittadine, quando la volontà
del popolo vero si trovava nelle
campagne e nelle montagne, lontane dal
presunto “progresso”.
Dall’altro lato gli Stati Uniti e
l’Occidente si sono ricordati a caro
prezzo di come la tecnologia non possa
battere la determinazione di un popolo e
la conoscenza di un territorio. Il
fallimento statunitense e della sua
coalizione, prima ancora che militare,
sociale ed economico, è stato politico.
Sia dal punto di vista interno, e qui il
riferimento è a Biden il quale dovrà
lottare duro per le prossime elezioni di
mid-term, sia dal punto di visto
degli esteri, dove la Cina avrà solo da
guadagnare per i decenni a venire a
seguito del fallimento americano.
La cosa però che dovrebbe far più
riflettere sull’intera faccenda è la
superficialità con cui l’opinione
pubblica occidentale da casa abbia
trattato la faccenda. Infatti sebbene vi
sia stato una sincera preoccupazione per
le vicende nelle settimane centrali di
agosto quanto gli eventi erano in corso,
l’interessamento per il destino della
popolazione afghana farà la stessa fine
della solidarietà alla popolazione
siriana quando era sotto le bombe
incrociate dell’ISIS e del presidente
Assad contemporanemente, oppure della
solidarietà verso le popolazioni ucraine
coinvolte nel conflitto con i proxies
russi. O della solidarietà al popolo
libico.
Si potrebbero fare veramente tanti
esempi in questo senso, ma purtroppo
tutte queste sono tematiche avvertite
estremamente lontane dalla popolazione
comune in Occidente e per questo vengono
trattate come mode del momento, nulla
più.
Al di là di quest’ultima considerazione,
a grande sintesi di quanto disquisito
sopra, l’epilogo del conflitto in
Afghanistan può essere sintetizzato
dalle ormai storiche parole affermate da
un combattente talebano catturato
prigioniero dagli americani, ai quali
avrebbe detto: «Voi avete gli
orologi, noi abbiamo il tempo». |