attualità
LA CADUTA
CRONACA DEL NUOVO DISASTRO AFGHANO /
PARTE I
di Gian Marco Boellisi
Una sconfitta militare. Un ricorso
storico. Un disastro politico. Una
disfatta a lungo annunciata. Una
catastrofe umanitaria. Ci sono tanti
modi con cui si potrebbe definire ciò
che sta accandendo in queste settimane
in Afghanistan, tuttavia nessuna sarebbe
sufficientemente esaustiva per
descrivere il dramma che un intero
popolo sta vivendo.
La decisione statunitense del ritiro
delle proprie truppe ha scoperchiato il
vaso di Pandora, esponendo a un vortice
di instabilità non solo l’Afghanistan ma
anche l’intera regione e tutti gli stati
che vi si affacciano. Per quanto ci si
potesse ampiamente aspettare che il
ritiro americano avrebbe creato
sconvolgimenti politici, economici e
sociali di non ben definita grandezza,
nessuno si aspettava che lo scenario si
evolvesse con tanta rapidità e che un
ritiro concordato in sede di trattati
internazionali si potesse tramutare in
una simile catastrofe a livello
mondiale. È quindi doveroso approfondire
quanto sta accandendo in Afghanistan per
poter comprendere come si è arrivati a
ciò ma soprattutto a dove condurrà negli
anni a venire.
L’Afghanistan non ha bisogno di
presentazioni. Terra tra le più
affascinanti e allo stesso tempo più
complesse tra quelle esistenti sul
nostro pianeta, da sempre è stata una
terra di passaggio, di collegamento.
Perfetto anello di congiunzione tra
Oriente e Occidente, l’Afghanistan ha
sempre visto il proprio suolo occupato
da potenze straniere che volevano
avvantaggiarsi della sua posizione
strategica per i propri scopi.
Tuttavia il popolo afghano non si è mai
piegato. I persiani, i macedoni di
Alessandro Magno, i mongoli di Gengis
Khan, l’Impero Britannico per più volte,
l’Unione Sovietica, gli Stati Uniti:
nessuna di queste grandi potenze è
riuscita a tenere a lungo questa aspra
terra, tanto fiera della sua solitudine
tra le montagne e della sua
indipendenza.
Forte di una conformazione morfologica
tra le più irregolari e complesse del
globo, l’Afghanistan è stato definito a
ragion veduta “il cimitero degli
imperi”. E ora gli Stati Uniti fanno
parte di una delle tante lapidi che
contornano questa millenaria necropoli.
Stati Uniti che credevano, all’indomani
dei tragici attentati dell’11 settembre,
di riuscire a dimostrare la propria
forza militare e politica invadendo un
paese apparentemente semplice da
soverchiare.
Per quanto la conquista dell’Afghanistan
si sia dimostrata effettivamente rapida
e senza troppi sforzi, la tenuta del
paese nei successivi venti anni non è
stata tale. Il movimento armato dei
talebani, i quali avevano ospitato i
terroristi di Al-Qaeda sul territorio
afghano prima dell’11 settembre, si è
nascosto sulle alture al confine con il
Pakistan e ha continuato la sua
battaglia contro l’invasore anno dopo
anno, fino a quando il costo della
guerra è diventato insostenibile da
parte di tutte le forze occupanti. E ciò
ci ha portati alla situazione odierna.
Prima di proseguire nell’analizzare come
abbiano fatto i talebani a riconquistare
il paese con tanta facilità, è
interessante capire chi siano questi
combattenti e come sono nati. Il termine
taliban significa letteralmente
“studente”. Il movimento fu fondato
negli anni ‘90 nella città di Kandahar
dal Mullah Mohammad Omar. I membri dei
talebani appartengono per lo più
all’etnia pashtun, ovvero un gruppo
etnico diviso tra Afghanistan e Pakistan
che rappresenta la maggioranza etnica
relativa all’interno del suolo afghano.
I talebani sono di confessione musulmano
sunnita e mirano da sempre
all’instaurazione di uno stato basato
interamente sulla legge islamica, la
Shari'a.
Per un breve periodo storico, dal 1996
al 2001, sono riusciti a governare
l’Afghanistan, a seguito della fine
dell’invasione sovietica e del colpo di
spalla al debole governo nazionale
uscito da 10 anni di guerra contro i
russi. Tuttavia nel 2001 essi furono
cacciati dal potere nel paese dagli
americani a seguito del rifiuto di
consegnare Osama bin Laden, l’allora
leader di Al-Qaeda nonché organizzatore
degli attentati dell’11 settembre, il
quale si trovava su suolo afghano.
All’epoca pochissimi stati al mondo
avevano riconosciuto il governo a guida
talebana: solo Pakistan, Arabia Saudita
ed Emirati Arabi Uniti. Fu proprio nel
2001 che venne fatto il primo errore di
una lunga serie. Infatti l’allora
Segretario della Difesa Donald Rumsfeld
rifiutò di integrare i comandanti
talebani che si erano arresi e offerti
di collaborare per la ricostruzione del
paese all’interno del nuovo esecutivo.
In questa maniera i talebani furono
completamente alienati sia sullo
scenario nazionale che su quello
internazionale. L’unica alternativa
rimasta loro era combattere.
Nonostante ciò, essi sono riusciti a
riacquistare una parziale legittimità
come interlocutori politici a seguito
dei contatti portati avanti da
Washington dal 2018 fino a febbraio
2020. Questi incontri, in un primo
momento riservati, ma poi di largo
dominio pubblico, hanno condotto al
Trattato di Doha, ovvero l’accordo di
pace sul ritiro americano voluto
dall’amministrazione Trump, con il fine
ultimo di ritirarsi da tutti gli scenari
di guerra ritenuti non necessari agli
interessi americani.
La legittimazione come partner non ha
solo condotto alla firma del trattato,
ma ha anche sdoganato i talebani come
entità politica a se stante e
indipendente, motivo per il quale sono
iniziati a esservi incontri con altre
entità statuali, quali la Cina e Russia.
Sicuramente questo uno scenario non
previsto da parte di Washington, ma di
sicuro non meno influente nello
scacchiere internazionale.
Per quanto quella dei talebani possa
sembrare un’organizzazione islamica come
tante altre, essa presenta sostanziali
differenze rispetto al panorama
islamista canonico. In primis, a
differenza dei ben noti gruppi di
Al-Qaeda e dello Stato Islamico, i
talebani non hanno interessi a
internazionalizzare il proprio movimento
e i propri ideali. Essendo composti
prevalentemente da tribù pashtun,
l’identità talebana è stata fatta
coincidere con quella afghana-islamica,
creando un movimento molto coeso e
unito, il quale si espande al più in
Pakistan ma non oltre. Nonostante siano
stati 20 anni molto duri per il
movimento, i talebani a oggi risultano
la forza politica più unita e forte del
paese, senza neanche paragonarsi al
corrotto e decadente governo di Kabul. E
questo il popolo afghano lo ha sempre
percepito e visto con i propri occhi.
Altra differenza importante è la
modalità di finanziamento. Mentre le
altre organizzazioni terroristiche hanno
fatto sempre ricorso ai più disparati
mezzi per finanziarsi, i talebani hanno
sempre ricorso agli stessi metodi usati
da decenni. Il principale è senza dubbio
il commercio di oppio, dal quale viene
estratta l’eroina che finisce nei
mercati europei e non. Basti pensare che
almeno il 90% dell’oppio presente nel
globo deriva dall’Afghanistan. Altri
mezzi sono sicuramente l’estrazione e il
contrabbando di metalli preziosi
presenti nel sottosuolo afghano per poi
ricorrere anche a diretti finanziatori
esterni.
Le stime parlano di svariati miliardi di
dollari che entrano nelle casse del
movimento ogni anno, motivo per cui essi
sono riusciti a proseguire la lotta così
a lungo negli anni. Tuttavia sarebbe un
grosso errore giudicare le azioni dei
talebani delle ultime settimane con gli
stessi occhi con cui si sono palesati
alla comunità internazionale nel 2001.
Il movimento si è evoluto, ha imparato
dai propri errori e ha capito come porsi
ai grandi interlocutori della politica
internazionale in maniera da ottenere
qualcosa in cambio ai tavoli dei
negoziati. Basti pensare alle modalità
con cui è stato ripreso il paese, ovvero
senza quasi sparare un colpo ed evitando
(almeno per il momento) i massacri
sommari che tutti si aspettavano.
Di tutte le cose accadute nelle ultime
settimane, sicuramente la rapidità
dell’avanzata talebana è stato
l’elemento che ha colpito maggiormente
gli osservatori internazionali. Infatti
erano svariati anni ormai che ci si
aspettava uno scenario simile, con un
abbandono del paese al proprio destino
da parte delle forze occidentali.
Tuttavia nessun analista avrebbe mai
immaginato che il tutto si sarebbe
svolto con una tale rapidità.
Parte di queste rapide tempistiche sono
sicuramente imputabili alle forze NATO
presenti in Afghanistan, le quali hanno
avviato il ritiro delle proprie truppe
senza vincolarlo a un concreto progresso
nei colloqui di pace o alla
dimostrazione a lungo termine da parte
delle forze insorte di venire incontro
alle richieste occidentali. Questo a
testimoniare quanta fretta avesse
l’Occidente tutto, e in particolare
Washington, a uscire dal pantano
afghano. O forse, più semplicemente, di
quanto in fretta stessero per finire i
soldi.
Dall’altro lato vi è stata una
rapidissima avanzata dei talebani, i
quali hanno sfruttato il momento
propizio e hanno sistematicamente preso
il controllo delle zone rurali del paese
per poi negoziare con le autorità (o ciò
che ne restava) per il controllo dei
centri urbani. Questo con il solo scopo
di isolare e tagliare fuori
completamente le città dall’esterno,
costringendo i vari governatorati a
venire a patti con le forze talebane,
vista l’assenza totale di alternative,
politiche o militari che fossero. I
leader talebani sono stati molto scaltri
nello sfruttare la millenaria
frammentazione tribale afghana, portando
dalla loro parte i capi tribù sia con
promesse di grandi vantaggi una volta
preso il potere sia con minacce di gravi
ritorsioni in caso di mancato supporto.
C’è anche da considerare il fatto che in
molte province il potere del cosiddetto
“stato centrale” era inesistente da
anni, con burocrati che si atteggiavano
a signori locali senza alcun pensiero se
non per l’arricchimento di se stessi. In
questi casi i talebani sono stati
accolti come veri e propri liberatori,
non come nemici.
Se la rapida avanzata dei talebani ha
dimostrato quanto efficiente sia
diventato il movimento in questi anni,
dall’altro lato l’esercito nazionale
afghano, o Afghan National Security
Forces (ANSF), ha provato la sua
completa inadeguatezza sul campo,
nonostante gli anni di addestramento e i
miliardi di dollari spesi in
equipaggiamento e formazione. Non appena
si è diffusa la notizia di un’offensiva
generale dei talebani nel paese, i
soldati dell’ANSF hanno abbandonato le
armi e le proprie postazioni, scappando
nelle campagne, arrendendosi al nemico o
addirittura passando dalla parte dei
talebani stessi.
Già nelle settimane passate alcuni
battaglioni, intuendo quanto sarebbe
accaduto, avevano provato a varcare il
confine con il Tagikistan per cercare
salvezza. Anche qui purtroppo i talebani
hanno visto lungo. Consci del timore di
ritorsioni che si era instaurato negli
anni tra gli uomini dell’ANSF, i
talebani hanno subito offerto
un’amnistia generale a tutti i membri
delle forze armate del vecchio governo
afghano, a patto che essi consegnassero
tutte le armi, gli equipaggiamenti
hi-tech e le postazioni di difesa in
loro possesso. E così hanno riottenuto
in un battito di ciglia l’intero paese.
Una considerazione che si può fare già
ora, nonostante gli eventi siano ancora
in atto, è la profondità con cui le
forze armate afghane abbiano
sottovalutato il proprio nemico. In
primis ha giocato un ruolo molto
importante la disparità numerica.
Infatti, prima della loro scomparsa, le
forze dell’ANSF contavano oltre 300.000
uomini, mentre i talebani si stimano
essere circa in 75.000 combattenti.
Questi tuttavia negli anni non hanno mai
abbandonato la lotta e hanno continuato
a rinfoltire i propri ranghi nonostante
le importanti perdite occorse durante la
guerra. C’è anche da non dimenticare il
fatto che i talebani siano grandi
conoscitori del territorio afghano, cosa
che ha permesso loro di sopravvivere e
di nascondersi alle forze NATO. negli
anni.
Un secondo elemento a sfavore delle
truppe regolari afghane è stato la
scomparsa, dal giorno alla notte, del
supporto militare occidentale. Se
infatti fino a poco tempo fa le forze
statunitensi impegnavano costantemente i
combattenti talebani dove fosse
necessario, alcuni mesi orsono tutte le
operazioni militari sono cessate in
quanto clausola degli Accordi di Doha
del 2020. Ciò ha completamente
cancellato dall’equazione strategica del
paese il considerevole deterrente
tecnologico e militare rappresentato
dalle truppe straniere in Afghanistan.
Senza di esso, l’ANSF non è riuscita a
resistere all’offensiva talebana che ha
interessato letteralmente ogni
centimetro del paese.
È curioso osservare come la conquista
talebana dell’Afghanistan sia stata un
vero e proprio effetto domino. Il 6
agosto 2021 i ribelli hanno conquistato
la loro prima città nonché capitale
della provincia sud-occidentale di
Nimruz, Zaranj. Ciò è stato reso
possibile dalla fuga sia del governatore
locale sia delle truppe ivi stanziate.
Il 7 agosto è stata la volta di
Shibirghan, capitale della provincia
settentrionale di Jawzjan, mentre l’8
agosto sono cadute nel nord le città di
Kunduz, Sar-i-Pul e Takhar. Da qui in
poi tutte le altre tessere del domino
sono cadute a seguire. Il 9 agosto sono
cadute Aybak a Samangan, il 10
l’importante centro urbano di Farah e
infine i centri nevralgici di Kandahar,
Laskar Gah e Herat.
In Afghanistan si dice che “chi
controlla Kandahar, controlla
l’Afganistan”, e anche questa volta ciò
si è dimostrato vero. Controllando
Kandahar si ha il potere su tutto il sud
del paese mentre per Laskar Gah lo si ha
sull’est. Degna di nota è stato anche
l’abbandono e la successiva conquista
talebana di Bagram, principale base
aerea del paese. Oltre a essere stata
abbandonata in pochissime ore, le forze
statunitensi hanno anche lasciato
elicotteri, droni e tutta una serie di
armi hi-tech in mano ai talebani. Alcune
sono state distrutte da successivi raid
aerei, ma la maggior parte è ancora oggi
nelle mani dei ribelli.
Il 14 agosto è stata la volta di
Mazar-i-Sharif, anche qui senza sparare
un solo colpo. Storicamente
Mazar-i-Sharif ha sempre rappresentato
l’epicentro dell’Alleanza del Nord,
simbolo della resistenza, ai tempi della
guerra civile. Alla caduta di questa
città, distante peraltro poche centinaia
di chilometri dalla capitale, il governo
centrale aveva capito che i giochi erano
ormai chiusi. Il 15 agosto Kabul è
caduta senza neanche l’ombra di uno
scontro a fuoco in città, come mostrato
in diretta dai telegiornali di tutto il
mondo.
Le immagini che ci porteremo dietro
saranno sicuramente quelle degli
elicotteri americani che evacuano
l’ambasciata la mattina di ferragosto,
riportando alla memoria le immagini di
Saigon nel 1975 e ricalcando un analogo
fallimento politico e militare.
Un punto su cui l’opinione pubblica
globale non si è soffermata più di tanto
in queste settimane sono le modalità con
cui i talebani hanno ripreso il potere.
Infatti conquistare 13 capoluoghi di
provincia e 9 province in meno di una
settimana non è un qualcosa di
umanamente possibile, a meno che,
ovviamente, non ci sia un largo supporto
della popolazione locale.
Una prova fra tutte può essere la presa
stessa di Kabul, nella quale non solo si
è vista l’assenza di scontri ma
addirittura in alcuni quartieri la
popolazione ha accolto i talebani con
felicità sperando mettessero fine ai
saccheggi e furti perpetrati dalle varie
bande criminali. È quindi ovvio dedurre
che, per quanto i 20 anni di occupazione
straniera abbiano indiscussamente
portato a dei grandi progressi in campo
di diritti umani e in generale di
sviluppo nel paese, il popolo afghano
era semplicemente stufo di essere
occupato da forze straniere.
Oltre a questo bisogna unire il
malessere nei confronti di un governo
locale che ha dimostrato in un’infinità
di occasioni la sua totale noncuranza
verso il popolo afghano ma di tenere
solo al proprio rendiconto particolare.
Ovviamente simili avvenimenti hanno
impattato sulle cancellerie di tutte le
nazioni del mondo, ma in particolar modo
su quella statunitense. Neanche a dirlo,
la tempesta perfetta si è abbattatuta
sulla Casa Bianca, essendo gli americani
stati accusati di aver abbandonato il
popolo afghano a se stesso e di non aver
ponderato una exit strategy
coerente con quanto cercato di costruire
negli ultimi 20 anni.
Nonostante le insistenze degli alleati e
di parte della comunità internazionale
gli Stati Uniti hanno ribadito la loro
posizione: il ritiro dall’Afghanistan è
incondizionato. Il che rende de facto
gli Stati Uniti e la NATO. le parti
uscite sconfitte dal conflitto, a cui
ora non rimane altro che cercare di
contenere le perdite e i danni
collaterali, sia politicamente sia
militarmente.
Secondo alcune stime della Brown
University, Washington in questi 20 anni
avrebbe speso una cifra astronomica,
circa 900 miliardi di dollari, per
sostentare la propria missione in
Afghanistan. E, per quanto Biden e il
suo staff cerchino di edulcorare la
situazione, la verità è che al netto di
tutti i soldi spesi, di migliaia di
ragazzi americani morti e di centinaia
di migliaia di afghani uccisi ciò che
rimane in mano a Washington è solamente
un cumulo di cenere.
Il tutto ha avuto origine a Doha nel
2020, quando l’amministrazione Trump
siglò gli omonimi accordi con i
rappresentanti dei talebani, nei quali
venivano stabiliti i termini del ritiro
statunitense. Il punto cardine degli
accordi era da un lato la garanzia dei
talebani di non ospitare più cellule
terroristiche di Al-Qaeda come fatto in
passato, e dall’altro la garanzia
statunitense di effettuare il ritiro
completo del proprio personale civile e
militare entro il 2021.
Tra le varie condizioni al contorno vi
era anche la garanzia statunitense di
non effettuare più azioni militari
contro i talebani, e dall’altro lato di
cercare di porre in essere tutta una
serie di tregue concordate per dare del
respiro sia alle truppe regolari afghane
sia alle forze straniere stesse. È
curioso pensare come solo qualche anno
fa Washington avrebbe negato anche solo
la possibilità di trattare con i
talebani. Visto in prospettiva, fu
proprio questo accordo l’evento che
diede inizio alla fine della guerra e
ciò che vediamo in queste settimane è
solamente l’epilogo di quanto iniziato
nelle trattative diplomatiche del 2018.
Se da un lato i talebani sono usciti
enormemente rafforzati dagli accordi,
essendo stati riconosciuti de facto
anche se non de iure come entità
politica, dall’altro il governo
legittimo di Kabul ne è uscito quasi del
tutto delegittimato e anche tradito dai
suoi stessi alleati americani. Infatti
in sede di negoziato il governo è stato
praticamente escluso dai colloqui ed è
stato anche costretto ad applicare i
termini di un trattato a cui non ha
partecipato.
Un esempio fra tutti, nonostante le
vibranti proteste, il governo di Kabul
ha dovuto rilasciare oltre 5.000
prigionieri talebani dalle proprie
carceri. Risulta inoltre paradossale
come gli accordi di Doha siano stati
avviati dall’amministrazione Trump
nell’ottica di rendere la ritirata dal
paese una “ritirata strategica” e non
una disastrosa rotta. Cosa che di fatto
è stata.
Proprio in merito a ciò le accuse
all’attuale presidente Biden non sono
mancate e sono abbondate specialmente in
occasione dei vari discorsi tenuti alla
nazione americana durante i giorni del
ritiro. Benchè sia stato criticato
aspramente per le modalità disastrose di
disimpegno, il presidente è stato chiaro
e incisivo: la guerra in Afghanistan, a
distanza di 20 anni, non poteva essere
risolta con mezzi militari e arrivati a
questo punto il popolo afghano deve
decidere del proprio destino.
Per quanto possa sembrare un discorso in
cui l’amministrazione statunitense si
lavi le mani di un problema da essa
stessa creato, vi è della verità in
queste parole del presidente. Biden ha
inoltre considerato l’esito della
missione in Afghanistan una “missione
compiuta”, essendo stato negato ai
terroristi di Al-Qaeda un terreno
fertile dove proliferare liberamente
negli scorsi decenni. Per quanto possa
sembrare paradossale affermare una cosa
del genere, il fondo del barile è stato
raggiunto quando il presidente ha
affermato che gli Stati Uniti “non sono
andati in Afghanistan per costruire una
nazione”.
Al netto dei fatti, delle tante parole
spese in 20 anni di pura propaganda che
affermavano l’esatto contrario e delle
tante vite bruciate in una inutile
campagna militare, si può capire come
queste parole rappresentino il totale
fallimento statunitense, non tanto della
sola campagna in Afghanistan, ma
dell’intera campagna del “War on Terror”
inaugurato da Bush Jr. ormai 20 anni
orsono.
Per quanto riguarda invece l’ormai
decaduto governo “legittimo” di Kabul,
dire che è scomparso come neve al sole
sarebbe riduttivo. Se per Wahington
l’inizio della fine ha coinciso con la
firma degli accordi di Doha, per il
governo afghano instaurato
dall’Occidente essa ha avuto inizio
nelle elezioni del 2014.
Qui è stata messa di fronte agli occhi
di tutta la comunità internazionale
quanto fosse corrotta la struttura
stessa su cui fondava la cosa pubblica
dell’Afghanistan, a prescindere dai
canditati o dai relativi partiti. Oltre
a non aver avuto un chiaro vincitore
uscente dalle urne, i candidati si sono
accusati entrambi di brogli elettorali,
e la cosa buffa è che probabilmente
avevano entrambi ragione.
Basando il proprio consenso elettorale
più sull’appartenenza clanica che
sull’ideologia, le varie formazioni
politiche afghane non hanno tentato
veramente di intavolare un confronto tra
di loro per il bene del paese. E da
tutto ciò il neo-eletto presidente Ghani
ne è uscito con un mandato debole e un
peso internazionale praticamente
inesistente.
È proprio qui dove si dimostra che il
tentativo di cercare di instaurare in un
paese frammentato in tribù e clan da
svariati secoli come l’Afghanistan un
prototipo mal riuscito di democrazia
occidentale è stata solo un’illusione.
Democrazia peraltro che si è dimostrata
corrotta fin dal primo giorno della sua
esistenza, e la responsabilità di questo
cancro è da cercarsi esclusivamente
della coalizione occidentale che l’ha
creata. Infatti la presenza militare
straniera ha fatto affluire nel paese
decine di miliardi di dollari per gli
scopi più disparati, primo fra tutti il
combattimento dei talebani.
Vista la natura settaria del paese, si è
assistito a veri e propri scontri tra le
varie fazioni afghane là dove arrivavano
più fondi, con il solo di scopo di
appropriarsene e mostrare poi alle
potenze occidentali quanto si fosse
efficienti nel contrasto dei ribelli.
Tutte queste dinamiche erano ben note
all’interno della società afghana, tanto
che i talebani hanno più volte diffuso
via social contenuti espliciti e
purtroppo inconfutabili della corruzione
dei membri del governo. La miopia dei
leader afghani li ha inoltre indotti a
credere che questa situazione di
afflusso di fondi potesse potenzialmente
durare in eterno, facendogli
completamente perdere ogni timore di
essere scoperti.
Alle prime avvisaglie di avanzata dei
talebani, l’ormai ex presidente Ghani
aveva affermato di voler compiere un
gesto conciliante e inglobare i talebani
in un nuovo governo di unità nazionale,
escludendone tuttavia l’opzione di uno
di transizione ad interim in cui il
governo “democraticamente eletto” nel
2014 non fosse presente.
La storia non ha dato ragione a Ghani.
Emulando i migliori film di
fantapolitica, non appena i talebani
hanno iniziato a prendere controllo
della capitale, il presidente Ghani ha
lasciato il paese per rifugiarsi in
Uzbekistan, a detta di alcuni con i
borsoni pieni di soldi. Scenario anche
questo largamente prevedibile. Ciò a
riprova soprattutto del grande senso
dello stato che il vecchio esecutivo ha
coltivato negli anni verso la sua stessa
popolazione. |