N. 146 - Febbraio 2020
(CLXXVII)
I
colloqui
di
pace
in
Afghanistan
Una
soluzione
cercata,
ma
ancora
non
trovata
di
Gian
Marco
Boellisi
Tra
tutte
le
aree
di
crisi
globali,
il
Medio
Oriente
risulta
essere
al
giorno
d’oggi
una
delle
regioni
con
più
conflitti
al
suo
interno
e
con
una
moltitudine
di
attori
ivi
coinvolti,
autoctoni
e
non.
Nel
nuovo
millennio
il
tutto
fu
inaugurato
nel
lontano
2001
con
l’invasione
statunitense
dell’Afghanistan
a
seguito
degli
attentati
terroristici
alle
Torri
Gemelle,
per
poi
estendersi
ai
paesi
confinanti
in
diverse
riprese
e
con
le
più
disparate
parti
belligeranti
coinvolte.
Dopo
quasi
20
anni
di
sangue
e
tragedie
umanitarie
senza
fine,
nell’ultimo
anno
si
stanno
compiendo
passi
sempre
più
concreti
verso
la
fine
del
più
vecchio
di
questi
conflitti,
ovvero
il
conflitto
in
Afghanistan.
Da
svariati
mesi
a
questa
parte
infatti
l’amministrazione
Trump
sta
cercando
di
stipulare
un
trattato
di
pace
con
i
combattenti
talebani,
sia
per
fermare
la
costante
emorragia
finanziaria
che
accompagna
questa
guerra
sia
per
portare
a
casa
un
risultato
concreto
dinanzi
agli
elettori
americani
per
le
prossime
elezioni
di
novembre
2020.
È
interessante
quindi
analizzare
a
che
punto
si
trovano
i
colloqui
di
pace
per
la
cessazione
delle
ostilità
e
quali
conseguenze
può
avere
la
sottoscrizione
di
un
simile
accordo
per
una
regione
tanto
importante
quale
l’Asia
Centrale.
Partiamo
dal
passato.
L’Afghanistan
è
noto
storicamente
come
“il
cimitero
degli
imperi”,
e
questo
a
ragion
veduta.
A
causa
della
sua
conformazione
morfologica
irregolare,
delle
sue
imponenti
catene
montuose,
dei
suoi
deserti
e
delle
sue
gole
molto
strette,
è un
territorio
estremamente
difficile
da
conquistare
manu
militari,
e
praticamente
impossibile
da
gestire
una
volta
occupato
con
le
proprie
forze.
Innumerevoli
imperi
ed
eserciti
vi
sono
passati,
comprendendo
a
pieno
il
grande
valore
strategico
di
queste
terre
situate
esattamente
in
mezzo
al
continente
asiatico.
Alcuni
gloriosi
esempi
sono:
Alessandro
Magno,
l’Impero
Britannico
per
ben
3
volte,
l’Unione
Sovietica
e,
dulcis
in
fundo,
gli
Stati
Uniti.
Tuttavia,
nonostante
i
vantaggi
tattici
o
tecnologici
dell’invasore
di
turno,
nessuno
è
mai
riuscito
a
ottenere
un
controllo
a
lungo
termine
del
territorio
e
del
colorito
mosaico
di
popolazioni
ivi
residenti.
Proprio
queste
sono
una
delle
chiavi
di
volta
per
comprendere
questo
paese
tanto
complesso
quanto
affascinante.
Essendo
da
innumerevoli
secoli
l’Afghanistan
crocevia
di
commerci
e
collegamenti
vari
tra
Oriente
e
Occidente,
qui
si
sono
insediate
nel
corso
del
tempo
le
più
diverse
etnie
e
confessioni
religiose,
rendendo
questa
nazione
una
dei
più
singolari
crogioli
di
genti
esistenti
sul
globo.
Ciò
tuttavia
ha
portato
al
lato
negativo
di
rendere
il
paese
estremamente
diviso
dal
punto
di
vista
settario,
inducendo
in
più
occasioni
le
varie
fazioni
a
essere
in
conflitto
tra
loro
per
questo
o
quel
motivo.
Viste
questi
importanti
aspetti
dell’identità
afgana,
è
opportuno
analizzare
la
situazione
attuale
per
capire
il
contesto
in
cui
si
stanno
svolgendo
i
colloqui
di
pace
tra
Stati
Uniti
e
forze
talebane.
In
questo
preciso
momento
storico,
i
talebani
stanno
godendo
di
una
posizione
di
forza
senza
pari
nel
loro
recente
passato,
sia
dal
punto
di
vista
politico
sia
dal
punto
di
vista
militare.
Infatti
il
governo
centrale
di
Kabul
sta
vivendo
da
svariati
anni
una
situazione
di
perpetua
debolezza
e
paralisi
politica,
iniziata
bene
o
male
con
il
ritiro
parziale
americano
dai
campi
di
battaglia.
Questa
particolare
condizione
dura
ormai
da
circa
5
anni,
periodo
di
tempo
in
cui
il
governo
di
unità
nazionale
è
stato
completamente
bloccato
dalla
lotta
politica
tra
il
presidente
Ashraf
Ghani
e il
primo
ministro
Abdullah
Abdullah,
i
quali
sono
stati
i
principali
candidati
alle
scorse
elezioni
del
28
settembre
2019.
Nonostante
il
voto,
i
due
candidati
hanno
continuato
ad
accusarsi
vicendevolmente
di
brogli
elettorali,
non
rendendosi
minimante
conto
di
quanto
facessero
apparire
deboli
e
fragili
le
istituzioni
afgane
all’occhio
dei
loro
avversari
talebani.
Inutile
dire
che
questi
non
sognano
altro
che
avere
come
avversario
un
governo
diviso
e
insicuro
sull’agenda
da
adottare
nel
paese.
Secondo
i
risultati
preliminari
delle
elezioni,
arrivati
peraltro
dopo
quasi
3
mesi
dal
voto,
il
50,64%
dei
voti
totali
è
andato
al
presidente
Ghani,
il
quale
avrebbe
raccolto
i
propri
consensi
prevalentemente
nelle
regioni
meridionali
del
paese.
Queste
sono
a
maggioranza
pashtun,
ovvero
il
gruppo
etnico
maggiormente
presente
in
Afghanistan
nonché
componente
etnica
principale
dei
talebani.
Nonostante
questa
constatazione,
non
bisogna
far
coincidere
in
toto
i
pashtun
con
il
movimento
di
lotta
talebano.
Prova
ne
sia
che
quando
cadde
il
governo
talebano
nel
2002
a
seguito
dell’invasione
statunitense,
quest’etnia
fu
in
prima
linea
per
la
ricostruzione
materiale
e
politica
del
proprio
paese.
Il
39,52%
delle
preferenze
invece
sarebbe
andato
ad
Abdullah,
il
quale
ha
nutrito
il
proprio
bacino
di
consensi
dal
Jamiat-e-Islami,
il
partito
a
maggioranza
tagica
maggiormente
presente
nelle
regioni
settentrionali
del
paese.
Nonostante
questo
distacco
apparentemente
netto,
ci
sono
in
ballo
circa
300.000
voti
che
Abdullah
e
altri
candidati
minori
contestano
al
presidente
che
effettivamente
potrebbero
avere
un
peso
non
irrilevante
nel
conteggio
finale.
Tuttavia,
in
un
paese
come
l’Afghanistan
che
risiede
agli
ultimi
posti
nelle
classifiche
mondiali
per
indici
di
corruzione,
libertà
di
stampa
e
libera
espressione,
affermare
quale
dei
due
schieramenti
abbia
effettivamente
manipolato
le
elezioni
è
estremamente
difficile.
È
indubbio
tuttavia
che
una
situazione
politica
tanto
travagliata
lasci
al
governo
afgano,
indipendentemente
da
chi
esso
sia
guidato,
pochissimo
spazio
di
manovra
in
sede
di
colloqui
di
pace
per
la
risoluzione
del
conflitto.
La
situazione
di
paralisi
è
arrivata
a
livelli
tali
che
Washington
ha
cercato
di
convincere
Ghani
a
dimettersi
in
favore
di
un
governo
di
unità
nazionale
ad
interim,
in
modo
da
poter
continuare
i
negoziati
senza
dover
pensare
alla
politica
interna
afgana.
Dal
suo
canto
il
presidente
Ghani
ha
rifiutato
categoricamente
una
simile
eventualità,
affermando
di
voler
ottenere
una
legittimazione
popolare
forte
e
duratura
in
modo
da
poter
partecipare
ai
negoziati
con
una
posizione
di
vantaggio
rispetto
ai
talebani.
Tuttavia
sia
i
risultati
del
voto
sia
la
reticenza
di
Ghani
ad
abbandonare
i
palazzi
del
potere
di
Kabul
porteranno
il
governo
afgano
a
giocare
una
parte
poco
rilevante
all’interno
dei
colloqui,
lasciando
la
scena
principale
agli
“alleati”
americani.
Nonostante
queste
dinamiche,
Washington
è
più
che
determinata
a
concludere
un
accordo
con
i
talebani
in
tempi
non
troppo
lunghi.
Per
quanto
i
colloqui
di
pace
si
siano
interrotti
in
più
occasioni,
sia
a
causa
della
perpetua
politica
di
“rilancio
all-in”
del
presidente
americano
Donald
Trump
sia
per
i
continui
attacchi
militari
talebani
anche
durante
le
trattative
che
hanno
portato
alla
morte
di
personale
militare
americano,
è
lecito
aspettarsi
una
conclusione
nel
breve-medio
termine.
È
importante
ricordare
infatti
come
per
gli
Stati
Uniti
sia
importante
ritirarsi
dal
paese,
essendo
qui
presente
il
contingente
militare
più
grande
del
Medio
Oriente,
pari
a
circa
14.000
effettivi.
Tutti
questi
soldati,
insieme
ai
veicoli
e a
tutte
le
relative
attrezzature
militari
hanno
un
costo
giornaliero
per
il
contribuente
americano
valutabile
in
miliardi
di
dollari
che
va
avanti
senza
sosta
da
ben
19
anni.
Oltre
al
dispendio
di
denaro
si
aggiunge
il
fatto
che
una
tale
spesa
è
stata
ripagata
con
la
perdita
di
migliaia
di
vite
americane
e da
risultati
sul
campo
praticamente
nulli.
Tutto
ciò
ha
portato
alla
decisione
del
governo
statunitense,
prima
quello
Obama
e
ora
quello
Trump,
a
iniziare
il
parziale
ritiro
dall’Afghanistan.
L’attuale
presidente
in
carica
tuttavia
ha
un
motivo
in
più
rispetto
al
suo
predecessore
per
portare
a
casa
il
risultato
di
un
solido
accordo
di
pace.
Tra
pochi
mesi
infatti
si
avranno
le
elezioni
presidenziali
del
2020
e
Donald
Trump
vuole
fare
cappotto
contro
i
suoi
avversari
democratici.
La
vittoria
di
Trump
al
momento
è
abbastanza
probabile,
seppur
non
certa,
a
causa
di
una
mancanza
di
figure
carismatiche
sul
versante
democratico
e
soprattutto
per
le
politiche
messe
in
atto
dal
presidente
stesso,
il
quale
ha
cercato
di
venire
incontro
ai
propri
elettori
in
svariate
occasioni
non
deludendo
quanto
promosso
durante
la
campagna
presidenziale
del
2016.
L’elettore
medio
di
Trump
si
ritiene
soddisfatto
dell’operato
del
presidente,
a
prescindere
dal
fatto
che
questo
sia
visto
positivamente
o
negativamente,
e
proprio
a
causa
di
questa
soddisfazione
diffusa
Trump
in
questo
momento
è
dato
favorito,
testimoni
anche
i
primi
sondaggi
che
stanno
uscendo
in
queste
settimane.
Nel
caso
in
cui
The
Donald
riuscisse
a
concludere
gli
accordi
con
i
talebani
e a
disimpegnare
i
propri
soldati
dal
conflitto
afgano,
manterrebbe
una
delle
sue
più
grandi
promesse,
ovvero
quella
di
chiudere
i
conflitti
aperti
in
Medio
Oriente.
Questo
sarebbe
un
risultato
di
una
potenza
unica
in
sede
di
elezioni,
motivo
per
cui
è
molto
probabile
che
Trump
voglia
giocarsi
questa
carta
per
ipotecare
definitivamente
il
secondo
mandato
come
presidente
degli
Stati
Uniti.
Per
quanto
sembri
semplice
sulla
carta,
concludere
un
accordo
di
pace
con
i
talebani
non
è
impresa
facile.
Dopo
una
guerra
durata
quasi
un
ventennio
è
difficile
per
entrambe
le
parti,
ma
per
alcune
più
di
altre,
seppellire
l’ascia
di
guerra
assieme
a
tutti
i
rancori
per
poi
stringere
la
mano
al
vecchio
nemico.
Come
è
ovvio
pensare,
entrambe
le
fazioni
hanno
richieste
ben
precise
da
fare
all’altra.
Per
questo
motivo
negoziatori
e
diplomatici
di
lunga
esperienza
si
sono
messi
al
lavoro
per
cercare
di
sbrogliare
una
matassa
contorta
da
ben
19
anni.
Da
quel
che
è
trapelato
finora
dalle
stanze
dei
colloqui,
gli
Stati
Uniti
sarebbero
disposti
a un
ritiro
pressoché
totale
delle
proprie
forze,
a
meno
forse
del
personale
diplomatico
e
della
relativa
sicurezza,
in
cambio
di
un’assicurazione
da
parte
dei
talebani
di
non
finanziare
più
il
terrorismo
globale
e di
non
attaccare
il
governo
legittimo
attualmente
installato
a
Kabul
non
appena
l’ultimo
elicottero
americano
avrà
lasciato
il
paese.
Da
quel
che
si
sa,
i
talebani
avrebbero
acconsentito
alla
prima
richiesta,
ma
non
avrebbero
dato
rassicurazione
alcuna
sulla
seconda.
Nei
mesi
scorsi
il
New
York
Times
pubblicò
un
interessante
articolo
in
cui
veniva
riportata
la
notizia
secondo
la
quale
Trump
aveva
richiesto
ai
talebani
di
lasciare,
a
seguito
del
ritiro
statunitense,
delle
sub-stazioni
C.I.A.
sul
territorio
afgano
con
funzioni
di
controllo
dei
guerriglieri
e
per
evitare
opere
di
sponsorizzazione
del
terrorismo
globale.
Ovviamente
i
talebani
hanno
rifiutato
categoricamente
una
clausola
simile,
e
alcuni
analisti
hanno
ipotizzato
che
gli
attacchi
di
settembre
contro
forze
americane
siano
state
una
qualche
sorta
di
risposta
a
una
richiesta
tanto
ai
limiti
della
ragione.
Ricordiamo
che
il 7
settembre
2019,
a
seguito
dei
suddetti
attacchi,
i
colloqui
di
pace
sono
stati
interrotti
per
poi
essere
ripresi
solamente
mesi
dopo.
Come
condizione
preliminare
agli
accordi
di
pace,
è
stato
richiesto
più
volte
sia
da
parte
statunitense
sia
da
parte
del
governo
di
Kabul
un
cessate
il
fuoco
a
dimostrazione
della
buona
volontà
talebana
di
far
silenziare
le
armi
e di
far
lavorare
la
diplomazia.
Nonostante
alcuni
segnali
positivi
in
questo
senso,
quali
sparuti
e
isolati
periodi
di
interruzione
delle
ostilità,
finora
non
si è
avuto
nulla
di
continuativo.
Questo
anche
in
virtù
della
strategia
militare
messa
in
atto
da
qualche
anno
a
questa
parte
da
parte
dei
talebani.
Il
governo
di
Kabul,
insieme
alle
forze
statunitensi
le
quali
hanno
sempre
meno
peso
all’interno
delle
operazioni
militari,
in
questo
momento
sono
sulla
difensiva
e
per
i
talebani
abbandonare
la
via
delle
armi
vorrebbe
dire
perdere
un
vantaggio
tattico
e
strategico
di
primaria
importanza.
Vorrebbe
dire
in
pratica
dare
possibilità
di
respirare
al
proprio
nemico,
cosa
che
in
guerra
corrisponde
a un
atto
di
pura
e
squisita
follia.
Dal
canto
suo,
il
governo
di
Kabul
ha
questa
importante
esigenza
sia
per
avere
un
attimo
di
tregua
dal
punto
di
vista
militare
sia
per
dimostrare
a
livello
politico
di
poter
chiedere
e
ottenere
qualcosa
da
parte
dei
talebani.
Per
quanto
il
movimento
combattente
talebano
abbia
una
natura
poliedrica
fatta
di
svariate
sfaccettature
etniche
e
religiose,
è
possibile
che
esso
prenda
una
decisione
in
favore
di
un
cessate
il
fuoco
duraturo
e
stabile,
quanto
meno
per
un
periodo
limitato
di
tempo,
accessorio
in
primis
ai
colloqui
di
pace.
La
finestra
di
durata
di
questa
concessione
tuttavia
è
difficile
duri
a
lungo,
soprattutto
a
causa
delle
frange
estremiste
presenti
all’interno
del
movimento.
Quindi,
qualora
si
arrivi
a
una
concessione
simile
da
parte
dei
talebani,
è
opportuno
che
il
governo
di
Kabul
e
gli
Stati
Uniti
insieme
a
lui
siglino
velocemente
un
accordo
di
pace
in
modo
da
uscire
il
più
possibile
con
la
schiena
dritta,
piuttosto
che
spezzata.
Un
ulteriore
elemento
di
analisi
è
costituito
dalla
presenza
di
una
moltitudine
di
attori
esterni,
oltre
agli
Stati
Uniti,
nel
contesto
afgano.
Ciò
è
dovuto
prevalentemente
alla
posizione
centrale
in
cui
l’Afghanistan
si
trova
all’interno
del
continente
asiatico.
Primo
fra
tutti
è il
Pakistan,
paese
da
sempre
legato
all’Afghanistan
condividendo
i
due
paesi
molti
gruppi
etnici
nonché
diversi
tratti
culturali.
Da
svariati
anni
il
governo
di
Islamabad
è
apertamente
a
favore
dei
talebani
e
della
loro
politica
di
influenza
regionale,
supportando
il
movimento
più
o
meno
indirettamente.
Un
elemento
fra
tutti
che
può
far
riflettere
sulla
questione:
Osama
bin
Laden,
al
momento
della
sua
morte,
risiedeva
stabilmente
in
Pakistan
da
svariati
anni.
A
causa
di
questo
supporto
neanche
troppo
velato
per
la
causa
talebana,
Washington
ha
sospeso
alcuni
anni
fa i
finanziamenti
verso
il
Pakistan
destinati
alla
lotta
contro
il
terrorismo.
Questo
tuttavia
ha
prodotto
un
outcome
inaspettato.
Infatti,
nonostante
il
raffreddamento
dei
rapporti
Washington-Islamabad,
il
Pakistan
ha
continuato
a
cercare
investitori
tra
i
paesi
confinanti
così
da
poter
far
riaffluire
capitali
verso
i
propri
confini
e
continuare
le
opere
di
sviluppo
del
paese.
La
ricerca
tuttavia
ha
avuto
breve
durata
poiché
Pechino
si è
subito
proposta
come
partner
di
primo
livello,
includendo
Islamabad
nel
suo
faraonico
progetto
della
Nuova
Via
della
Seta.
Quindi
non
solo
gli
Stati
Uniti
non
sono
riusciti
a
tenere
stretto
un
alleato
importante
nella
regione
quale
il
Pakistan,
ma
lo
hanno
anche
fatto
finire
tra
le
braccia
della
Cina
di
Xi
Jinping,
ovvero
il
loro
rivale
strategico
più
importante
in
questo
periodo
storico.
Dal
punto
di
vista
di
Washington,
non
poteva
verificarsi
uno
scenario
peggiore.
Sta
di
fatto
che
fino
a
quando
il
Pakistan,
che
ricordiamo
per
inciso
essere
una
potenza
regionale
oltre
che
una
potenza
nucleare,
supporterà
il
movimento
combattente
talebano,
non
si
potrà
avere
una
vittoria
militare
sul
campo
da
parte
delle
forze
del
governo
di
Kabul
né
tantomeno
da
quelle
di
Washington.
Oltre
al
Pakistan,
altri
attori
internazionali
premono
fortemente
per
un
ritiro
delle
truppe
americane
dall’Afghanistan.
I
più
importanti
tra
essi
sono
senza
dubbio
Cina,
Russia
e
Iran,
ognuno
per
motivi
diversi,
ma
complementari
tra
loro
e
uniti
da
un
sentimento
comune:
la
stanchezza
di
avere
truppe
americane
a
ridosso
dei
propri
confini.
Prima
fra
tutti,
la
Cina
sta
spingendo
fortemente
perché
si
raggiunga
un
accordo
tra
talebani
e
Stati
Uniti
poiché
ha
importanti
interessi
nella
regione.
Infatti
oltre
a
liberarsi
dall’ormai
ingombrante
presenza
statunitense
sui
suoi
confini
occidentali,
Pechino
da
anni
ha
intrapreso
un
piano
di
investimenti
nei
confronti
del
governo
afgano
sia
in
materia
di
sicurezza
in
materia
economica.
Non
è un
segreto
infatti
che
l’Afghanistan
sia
uno
dei
paesi
con
il
maggior
numero
di
giacimenti
minerari
di
terre
rare,
minerali
essenziali
per
lo
sviluppo
delle
moderne
tecnologie
civili
e
militari.
La
Cina
è
già
padrona
incontrastata
di
questo
mercato,
ma
vuole
aumentare
ancora
di
più
le
proprie
potenzialità
in
questo
senso
sfruttando
quanto
presente
in
territorio
afgano.
Per
quanto
riguarda
la
Russia,
essa
desidera
che
gli
Stati
Uniti
si
ritirino
in
modo
da
poter
tornare
a
esercitare
una
certa
influenza
nella
regione,
sebbene
questa
sia
un’opera
piuttosto
difficile
essendo
ancora
ben
presente
nella
memoria
afgana
l’invasione
sovietica
degli
anni
‘80.
Infine
vi è
l’Iran,
il
quale
vuole
sicuramente
liberare
i
propri
confini
orientali
dalla
presenza
statunitense
in
modo
da
diminuire
la
pressione
sulla
propria
area
d’influenza
mediorientale.
Teheran
ha
sempre
avuto
un
rapporto
ambiguo
con
i
talebani,
essendo
questi
di
confessione
sunnita,
tuttavia
non
vi
sono
ragioni
per
pensare
che
il
regime
degli
Ayatollah
stia
sabotando
in
qualche
modo
i
colloqui
di
pace.
L’unica
vera
preoccupazione
dell’Iran
è
che
l’esito
dei
colloqui,
qualunque
esso
sia,
possa
portare
a
una
tutela
della
propria
zona
d’influenza
nella
regione,
ormai
messa
sempre
più
alle
strette
dalle
politiche
israeliane
e
statunitensi.
Tutti
questi
attori,
per
quanto
diversi
possano
essere
le
loro
motivazioni,
hanno
un
forte
interesse
a un
ritiro
americano
dal
paese
e
stanno
premendo
i
talebani
e
tutte
le
fazioni
che
orbitano
attorno
al
movimento
per
chiudere
un
accordo
con
Washington
al
più
presto.
In
conclusione,
il
popolo
afgano,
indipendentemente
dalla
fazione
per
la
quale
parteggi,
è
stanco
di
19
anni
di
guerra
senza
fine.
Anche
i
talebani,
che
per
quanto
siano
spesso
descritti
come
irriducibili
combattenti,
sono
esausti
dalle
continue
ostilità
e
hanno
bisogno
anch’essi
di
una
cessazione
dei
combattimenti.
In
questo
momento
quindi
l’unica
cosa
che
separa
le
parti
da
un
accordo
è
meramente
la
politica.
È
infatti
in
momenti
storici
come
i
colloqui
di
pace
in
cui
ognuna
delle
parti
cerca
di
ritagliarsi
la
più
grossa
fetta
di
torta
possibile,
ed
entrambe
le
parti
stanno
temporeggiando
proprio
per
questo.
Anche
se
l’accordo
arrivasse
nel
breve-medio
termine,
esso
costituirebbe
solamente
il
primo
passo
per
ricostruire
un
paese
dilaniato
da
quasi
vent’anni
di
sangue,
violenza
e
guerra.
La
speranza
comune
è
che
si
possa
avere
un
disimpegno
delle
forze
statunitensi
il
prima
possibile
così
da
lasciare
finalmente
l’opportunità
al
popolo
afgano
di
costruire
autonomamente
e
senza
interferenze
esterne
un
proprio
governo,
un
proprio
stato,
una
propria
nazione
per
la
prima
volta
in
vent’anni.